SI CHIAMA SELEZIONE NATURALE

Sto parlando di quella cosa che fa sì che un coglione si arrampichi su un traliccio dell’alta tensione, dica adesso tocco i fili e poi tocca i fili resta folgorato e precipita. Dice sì occhei, e qual è il problema. Il problema è che adesso un ospedale sta spendendo una barca di soldi miei per combattere contro la selezione naturale, e come se non bastasse, sempre per questo insano scopo, tiene occupato uno dei pochi preziosissimi posti in rianimazione, privandone qualche persona per bene che ne avrebbe bisogno. Poi leggi che in tutta Italia maree di persone sono in giro a protestare, bloccano stazioni, bloccano ferrovie, bloccano autostrade, praticamente bloccano mezza nazione, bloccano chi si muove per lavoro – e già, loro magari non lo sanno, ma c’è anche gente che lavora, al mondo – chi per motivi familiari chi per motivi di salute e niente, tutti lì bloccati. E per che cosa protestano questi qua? Forse contro i coglioni che occupano abusivamente i posti in rianimazione arrampicandosi sui tralicci? Contro gli ospedali che sperperano i nostri soldi per contrastare la selezione nautrale? Nooooooooo, ma neanche per idea! Quelli protestano per… boh, non si sa. Come negli anni Settanta che incontravi qualche compagno di università e ti diceva vieni a manifestare? Per che cosa? Boh non so, ho sentito che si manifesta in piazza Taldeitali, intanto andiamo poi si vede. Che se questi qua fossero dotati di pensiero, magari si renderebbero conto che se i loro bisnonni e trisnonni e quadrisnonni e via aveggiando fossero stati come loro, oggi non avremmo un solo chilometro di ferrovia, né un chilometro di strada, né scuole né ospedali né asili né ospizi ecc. ecc. Ma il dono del pensiero non fa parte del loro patrimonio e quindi via, si protesta e si blocca. Verrebbe quasi voglia di rimpiangere Bava Beccaris, se non fosse che i bava beccaris sono geneticamente predisposti a impallinare unicamente gli innocenti, mentre quando si tratta di dare una mano alla natura nella salutare opera di selezione naturale, si imboscano come talpe con l’itterizia.

barbara

SUOCERE

Quando la mia collega F. si è fidanzata, la suocera, schfizzera tetesca, ha immediatamente cominciato a lavorarsi il figlio, per convincerlo che lei non era una brava ragazza, che non era quella giusta per lui, che stava commettendo un errore ecc. ecc.
Quando, sei anni dopo, F. e M. sono andati a vivere insieme, la suocera ha fulmineamente capito che la sua tattica doveva avere qualche difetto e da brava schfizzera, precisa come un orologio schfizzero, l’ha istantaneamente modificata, prendendo a lavorarsi F. per convincerla che, anche se il cuore di una mamma sanguina a dover dire certe cose, M. era un poco di buono, un disgraziato, assolutamente inaffidabile. Ho avuto modo di assistere in diretta a una telefonata. Naturalmente non sentivo quello che diceva la suocera, ma le risposte di F. erano ampiamente sufficienti a seguire la conversazione:

– Gelosa? No, e perché mai? Non mi pare che M. me ne dia mo
– …
– Mirella? Ma no, non mi sem
– …
– Ah, lei dice di sì?

Un anno dopo F. e M. si sono sposati. La suocera, da quella persona intelligente che era, ha preso atto di avere perso la partita e ha smesso di combattere. Dal giorno del matrimonio ha anche smesso di chiamare F. per nome: da allora la chiama signorina.

barbara

L’ULTIMO ORCO

«Padre, perdonatemi: sono venuto a chiedervi io chi sono» disse infine, quietamente.
Il vecchio perse il suo sorriso. Vacillò, ma non levò mai i suoi occhi dal viso di XXX. Ci fu un altro lunghissimo silenzio.
«Tu sei mio figlio» disse infine in un soffio. «Sei il mio figlio primogenito. Sei il figlio mio e della mia sposa. Tu hai i suoi occhi. Tu… ecco. Tu sorridi come lei… Tu sei mio figlio… Tu sei il nostro bambino, il nostro figlio primogenito».
La voce del vecchio si perse nelle ultime sillabe.
XXX annuì. Poi si inginocchiò davanti al vecchio, gli prese una mano togliendola dolcemente dalla panca, la baciò e poi chinò la testa poggiandovela sopra. La mano del vecchio era pallida e sottile, in mezzo alle sue enormi, corte e scure. «Questo lo so» disse XXX serenamente. «Io questo lo so» ripeté ancora. «Io non potrei vivere, se non lo sapessi. Io so di essere il vostro figlio primogenito e questo ha accompagnato ogni mio passo, questo ha sostenuto ogni mio respiro».
La mano del vecchio era fredda sotto la sua fronte in fiamme. Ne sentiva il tremore.
Restò così a lungo, in silenzio.
«Ora vi prego, padre, ditemi io chi sono» ripeté infine, mentre le ombre della sera invadevano la piccola casa, contendendola alla luce del fuoco che si stava spegnendo.
Solo quando le prime stelle brillarono attraverso l’apertura della porta rimasta aperta, la voce del padre si sentì di nuovo.
«Prima delle grandi piogge noi vivevamo all’imbocco della piana orientale, al limite delle Terre Note. Era un villaggio povero, ma non miserabile, il nostro. Io amavo tua madre e sapevo che lei mi voleva: aspettavamo solo la luna d’estate e il raccolto e poi ci saremmo sposati. […] Quella luna non portò nessun’estate, ma l’inizio delle Piogge Infinite e il mondo si allagò di acqua e di miseria. Le capre annegarono, le patate marcirono. Non c’era niente per chiedere decentemente una donna in sposa. Noi osammo lamentarci e forse fu per quello che i Signori degli Inferi ci punirono: i Demoni non amano lo scontento, vendicano le maledizioni. Quando già pensavamo che la miseria fosse sufficiente e che la sorte fosse già stata ingiusta abbastanza, gli Orchi arrivarono e si abbatterono su di noi. Non ti so dire da dove venissero. Erano i primi che vedevamo: dai tempi di Arduin gli Orchi erano stati cacciati, ma ai tempi di Arduin le frontiere erano guardate da armati e c’erano fortini e fuochi di segnalazione. Ora invece erano rimasti solo i nostri campi di fagioli a segnare il limite tra il noto e l’ignoto, e i nostri campi di fagioli come la steppa con cui confinavamo erano una spanna al di sotto del fango. La fame spinse gli Orchi verso le nostre case. Trovarono quello che restava dei nostri fagioli, ma non era solo quello che volevano. Le nostre donne… vedi… noi non… »
Il vecchio si interruppe. Si coprì per qualche istante la faccia con le mani. Poi si riprese.
«Noi non riuscimmo a difenderle» continuò. «È difficile da spiegare. Lo so che avremmo dovuto proteggerle o morire nel tentativo… È che… vedi… noi non ce lo aspettavamo. Non avevamo né sentinelle, né corni o fuochi di avvistamento. Non avevamo nulla e loro ci erano piombati addosso come… come lupi nella notte. Prima che capissimo cosa stava succedendo, metà di noi era morta e l’altra metà avrebbe voluto esserlo. Sì, è andata cosi. Metà di noi era morta e l’altra metà avrebbe voluto esserlo… E poi successe quello che succede sempre in questi casi. Quelli di noi che erano ancora vivi si alzarono da terra, e decisero di ricominciare a vivere. Abbiamo spento gli incendi, seppellito i morti, bendato le ferite dei vivi, e deciso di fingere per l’eternità che nulla fosse mai successo. Ho seppellito anche mio padre e giurato che avrei odiato e distrutto qualsiasi creatura avesse sangue di Orco. Le donne che, tre stagioni dopo, avrebbero avuto i figli degli Orchi li avrebbero buttati nello stagno che le piogge avevano formato sotto la collina e tutto sarebbe stato cancellato. L’onore del villaggio sarebbe stato restaurato. Ma lei non volle. Tua madre, voglio dire. Disse che tu eri un bambino. Un bambino e basta. I bambini piangono tutti allo stesso modo. Disse che l’onore degli Uomini è che non si uccidono i bambini. Mai. Altrimenti vorrebbe dire essere Orchi. E allora la cacciarono. E io, che avevo giurato che avrei odiato e distrutto qualsiasi creatura avesse sangue di Orco, io… ho capito che lontano da lei… e da te… la mia vita sarebbe stata solo fango. Io le ho chiesto di poter diventare il suo sposo e poter farti da padre. Lei non voleva, perché il suo viso era stato sfregiato e il suo ventre violato, e io le ho detto… io le ho detto… sai era un discorso difficile, me l’ero preparato, io le ho detto che avrei voluto essere ricco, forte, bello, avrei voluto essere un Re per mettere il mio regno ai suoi piedi, avrei voluto almeno essere un ladro così da poter avere qualcosa per sfamarvi, ma non ero niente e nessuno e tutto quello che avevo da offrirle era me stesso, un uomo senza niente che vagava in una landa di fango. Le ho detto che, insieme, la notte sarebbe stata meno fredda, la luce si sarebbe alzata prima, mentre, soli, il mondo ci avrebbe schiacciato, e anche se nessuno si sarebbe disturbato a ucciderci, la nostra stessa afflizione avrebbe soffocato il nostro respiro prima del ritorno del giorno. Noi non potevamo nulla contro gli Orchi, se non questo: rendere vana la loro opera su di noi restando vivi nonostante loro.
«Volevo diventasse la mia sposa, per amarla sopra ogni cosa. Il suo viso sarebbe stato di nuovo intatto, e il suo corpo inviolato, perché così era ai miei occhi e così sarebbe stato anche ai suoi. Gli Orchi che avevano distrutto la nostra gente e penetrato il suo grembo sarebbero stati solo il sogno confuso di una notte di vento. Il bambino che ne era nato sarebbe stato il nostro figlio primogenito e l’amore che gli avremmo dato avrebbe affondato per sempre la distruzione e l’odio nella melma delle cose inutili».
Il vecchio tacque. Ci fu un altro lungo silenzio. Anche il fuoco nel camino si era spento. XXX osava appena respirare. Il vento si alzò. La porta sbatté. Il vecchio rabbrividì.
[…]
XXX annuì. Aveva l’impressione di essere sceso agli Inferi, e di esserne tornato. Il dubbio maledetto della sua vita, il bruco velenoso che da sempre mangiava i suoi pensieri e che da sempre lui cacciava in qualche angolo della mente sufficientemente buio da poter fingere di dimenticarlo, ora non poteva più essere cacciato. Ora la verità gli stava davanti come un mostro lungamente cercato, lungamente fuggito, finalmente incontrato. Guardò gli occhi
di suo padre e il mostro della sua ombra svanì per sempre, insieme ai fantasmi di una notte di fango sui campi di fagioli ai limiti delle Terre Ignote. Lui era il figlio primogenito di un uomo e una donna che si erano amati al di sopra di ogni altra cosa. Lui era il figlio primogenito del loro amore. Tutto il resto affondava nella melma delle cose inutili.
Gli Inferi si erano richiusi e non li avrebbe riaperti per nessuno.

Perché nessuno nasce col destino scritto nel sangue, ognuno è ciò che ha deciso di essere. E così c’è chi nasce fra gli umani e sceglie di mettersi al servizio degli Orchi, e chi nasce fra gli Orchi, o addirittura figlio di Orchi, e sceglie di diventare umano.
Silvana De Mari invece ha scelto di essere quella che scrive capolavori – e per riuscire a costringere una con un miliardo di cose da fare a leggere in due giorni un libro di settecento e passa pagine, bisogna proprio avere scritto un capolavoro (prima però, mi raccomando, leggete l’altro, altrimenti molte cose importanti rischierebbero di sfuggirvi).

Silvana De Mari, L’ultimo orco, Salani

barbara

I MIEI SOLITI VIAGGI IN TRENO

Che una dice massì, parto presto così arrivo presto. E nonostante sia uno di quei rarissimi momenti in cui potrei senza problemi dormire anche tre ore di fila e poi riaddormentarmi e dormirne altre tre, mi faccio la levataccia. Preparo le mie cose, corro giù per le scale, salto in macchina, arrivo alla stazione, parcheggio, entro, riesco miracolosamente a trovare una macchinetta funzionante per timbrare il biglietto, salgo in treno, arriva l’ora della partenza e il treno non parte. Tre minuti e non parte. Cinque minuti, dieci minuti, non parte. Poi finalmente parte, ma non riesce a recuperare tutto il ritardo, e quando arriviamo la coincidenza si sta beffardamente avviando. E dunque devo aspettare il treno successivo, un’ora dopo, col quale a Bolzano trovo solo un intercity delle ferrovie tedesche per il quale in biglietto delle ferrovie dello stato non vale e ne devo fare un altro, che da Bolzano a Verona mi costa quasi come quello che avevo fatto per tutto il viaggio. Vabbè. A Verona prendo finalmente il quarto e ultimo treno di questo viaggio un po’ sfigato e improvvisamente si ferma in aperta campagna. Dopo un po’ il capotreno (la capotreno? La capatreno? La capessatreno? La capotrena? La capotrenessa?) spiega che siamo fermi “causa abbattimento sbarre passaggio a livello, in attesa dell’arrivo delle autorità competenti”. Perché le sbarre dei passaggi a livello, you know, sono di un sensibile da non credere, soffrono di depressione cronica e basta un niente, tipo che uno le guarda male, e quelle subito si avviliscono e si abbattono. E insomma dovevo arrivare alle quattro e mezza e sono arrivata alle sei e mezza. In tempo lo stesso per riuscire a incontrare lui,

in tutta la sua sfolgorante bellezza e coi candidi capelli spumeggianti, ma giusto giusto una toccata e fuga, un caffè, due chiacchiere e fine, tempo scaduto.
Al ritorno invece niente, tutto tranquillo. A parte un treno soppresso.
E arrivata qui devo fare una confessione. E lo so che per i miei fedeli lettori sarà una delusione di proporzioni epiche, ma per onestà lo devo dire: in tutti i treni che ho preso – e sono stati ben sette – non ho visto neanche una passeggera coi capelli di color “rosso improbabile”.  Niente, neanche una. Ho visto un ragazzo che aiutava tutte le donne, giovani e vecchie, a sistemare le valigie. E un altro ragazzo guardare con le mani in tasca una signora, sicuramente ultrasettantenne,  tirare giù, faticosamente, una valigia piuttosto ingombrante. E una signora con un paio di etti di silicone dentro le labbra e un brillantino su una narice e un altro sopra la bocca e un paio di nei blu disegnati sulla faccia tipo damina del Settecento e alcune altre amenità. E una ragazza greca molto carina, bionda naturale con gli occhi azzurro-verde luminosi arrivata qui, per sfuggire alla crisi, su invito di un’amica che le aveva promesso un lavoro. Solo una volta arrivata ha scoperto qual era esattamente il lavoro che le si offriva. Per fortuna era arrivata qui a spese sue e aveva con sé tutti i documenti, ed è riuscita a filarsela prima di restare impigliata nella rete. Ma ancora così sconvolta da sentire il bisogno di raccontarlo, pur col suo italiano stentatissimo. Cioè insomma volevo dire che ho visto e incontrato gente di tutti i tipi, ma signore coi capelli di colore “rosso improbabile” neanche mezza. Spero che, per l’affetto che mi portate, riuscirete prima o poi a perdonarmi.

barbara

PENSIERINO IRRIVERENTE

Anche oggi, come sempre, sono andata a leggere la consueta mitica cartolina da Eurabia del mitico Ugo Volli, il quale constata, con dovizia di documenti, come anche i terroristi, con la scomparsa delle mezze stagioni, abbiano cessato di essere i terroristi di una volta. I link di solito non li clicco, sia perché di tempo ne ho poco, sia perché in gran parte li conosco già. Però li guardo sempre. Ed è così che oggi, nel leggere questo link:

http://archiviostorico.corriere.it/2001/settembre/29/testamento_del_pirata
_
Dio_aprimi_co_0_01092911144.shtml

non mi sono potuta trattenere (non che abbia sprecato energie nel provarci, sia ben chiaro), dal pensare: “come ‘na cozza”?

barbara

UN TUFFO NEL PASSATO

Non ricordo quanti anni avessi. Sicuramente pochi, comunque, forse quattro o cinque. Ero malata – capitava spesso, quando ero piccola. Capita spesso anche adesso, a dire la verità. È sempre capitato spesso, per tutta la mia vita, ma non era di questo che volevo parlare. Ero malata, dicevo, e quella volta era una malattia lunga, e a farmi compagnia mentre ero a letto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, c’era la radio. In quel periodo c’era tutti i giorni, verso metà mattina, una commedia. Probabilmente ce ne sono state diverse, in tutti quei lunghi giorni, ma io ne ricordo una. Cioè no, non la commedia, di quella non ricordo assolutamente nulla; ricordo un titolo, e una musica: Ramona.
Oggi, a dispensare grazie senza limiti a tutti i postulanti, abbiamo fortunatamente due grandissimi santi: San Google e San Youtube. E grazie alla loro generosità e ai loro miracoli, posso condividere anche con voi quel mio lontanissimo ricordo, rimasto intatto lungo gli anni e i lustri e i decenni. Ve lo propongo nella versione originale di Dolores Del Rio,

in quella con l’emozione del fruscio del 78 giri e con le foto della fatale Pola Negri,

 quest’altra dedicata alla bellezza femminile (sì, in questo mondo brutto sporco e cattivo, in questa valle di lacrime, in quest’atomo opaco del male, qualcuno che ci ama, disinteressatamente, allegramente, spensieratamente, ancora c’è)

e infine in quella del mitico Carlos Gardel.

(Perché senza le memorie del passato, quale presente si può mai vivere? E quale futuro costruire?)

barbara