Come fu inventato il popoplo palestinese

Oggi l’Italiano Medio si commuove pronunciando la parola “Palestina”, perché crede sia il nome della Terra di Gesù. Ne è convinto: un po’ perché a scuola ha studiato svogliatamente la storia, un po’ perché i libri di testo spesso fanno schifo. 
Così accade che l’Italiano Medio ignori che il nome “Palestina” fu imposto a quella terra solo nell’anno 70, come dispregiativo (Palestina=terra dei Filistei, popolo già a quel tempo esitinto da secoli), insieme al nome di “Aelia Capitolina” per Gerusalemme. Nomi imposti con odio verso gli ebrei che proprio non volevano arrendersi alla potenza di Roma. 
E così fu inventata la “Palestina”, quell’area formata dalle province che gli stessi Romani avevano sempre chiamato “Iudea”, “Samaria”, “Galilaea”.
“Palestina”, quella che in seguito, per molti secoli, è stata “Sancak-i Kudüs-i Şerif”, sangiaccato di Gerusalemme, la regione a maggioranza ebraica della “Suriye eyaleti“, la provincia di Siria dell’Impero Ottomano.

“Palestina”. Nome che ritorna in uso solo dal 1920 al 1948 con il “Mandato Britannico” (modo ipocrita e molto inglese per dire “colonia”).


“Palestina”
, terra che gli Ebrei hanno sempre chiamato “Israele”, così come i Greci hanno sempre chiamato “Hellas” la loro terra, quella regione del Mediterraneo che per noi è “Grecia” e per i Turchi era, ed è tutt’oggi, “Yunanistan”.

Il 14 maggio del 1948, con la nascita di “Medinat Israel” (lo Stato d’Israele) il nome “Palestina” muore. Muore, ma poi risorge il 17 luglio 1968 con la “Risoluzione del Consiglio Nazionale Palestinese”, che recita:
«La Palestina è la patria del popolo arabo palestinese; è parte indivisibile della nazione araba, di cui il popolo palestinese è parte integrante. La Palestina, entro i limiti che aveva ai tempi del Mandato Britannico (ossia gli attuali Israele + Giordania + Territori dell’Autonomia Palestinese + Gaza, n.d.r), è un’indivisibile unità territoriale.» (fonte)
Insomma, la “Palestina” rinasce, allo scopo di eliminare Israele, lo stato degli Ebrei. Ma agli occhi dell’Italiano Medio la sua rinascita appare come una lotta di poveri contro ricchi, invertendo, per chissà quale mistero, il ruolo dei due attori. Non sono ricchi i latifondisti arabi, NO. Sono ricchi gli ebrei, anche quelli più sventurati!
È ricca la gente che arriva su carrette del mare per ricongiungersi ai propri connazionali, sfuggendo  a un’Europa che li ha perseguitati per secoli, tenuti ai margini, messi al rogo, infornati ad Auschwitz.
È ricca la gente che, dopo millenni trascorsi nei paesi del Nord Africa, è costretta a lasciare da un giorno all’altro tutto, per sfuggire all’odio fomentato dalla propaganda.
È ricca la gente vestita alla men peggio che, senza casa e senza nulla, fonda comunità basate su principi socialisti e prende la zappa in mano per dissodare terra rimasta incolta per secoli in mano a latifondisti egiziani o siriani, riscattata a peso d’oro, pagandola a quegli stessi padroni che con quei soldi pensavano alle armi da comprare per riprendersi tutto.
È ricca quella gente. Ed è davvero molto ricca: ricca di fame, ricca di miseria, ma soprattutto ricca di speranza, ricca di inventiva, ricca di spiritualità, ricca di senso pratico, ricca della propria cultura pluri-millenaria e di tutte le culture con cui si è confrontata…
Mentre è povera la “Palestina”. E lo è soprattutto nell’immaginario dell’Italiano Medio: è come una sorta di Sierra Maestra mediorientale, in cui il prode Arafat, presentato come un Guevara, combatte contro l’arroganza degli israeliani, ricchi e prepotenti, paragonabili agli yankee e perfino ai boeri razzisti del Sud Africa!
La “Palestina” di Arafat l’egiziano, il pupillo di Muhammad Amīn al-Husaynī, alleato di Hitler e fondatore della Legione Araba, quell’esercito di criminali che marciavano al passo dell’oca sulla terra degli Ebrei e che intendeva attuare la Soluzione Finale anche lì!
“Palestina”. Una lotta di liberazione per l’Italiano Medio.  In realtà, uno sporco gioco degli Inglesi prima, dei Russi e degli Americani poi, come ci raccontano David Horowitz e Guy Millière in Comment le peuple palestinien fut inventé, libro non ancora tradotto in Italiano e di cui vi propongo alcuni passi.
Speriamo di vederlo nelle nostre librerie al più presto.
Fulvio Del Deo


(dal libro: Comment le peuple palestinien fut inventé, di David Horowitz, Guy Millière)

(….) Fu, nota Ion Mihai Pacepa, ex-capo della Securitate rumena, nel suo libro “The Kremlin Legacy“, in un giorno del 1964, «fummo convocati a una riunione congiunta del KGB a Mosca». Il soggetto della riunione era di estrema importanza: «si trattava di ridefinire la lotta contro Israele, considerato un alleato dell’Occidente nel quadro della guerra fredda che conducevamo». La guerra araba per la distruzione di Israele non era suscettibile di attirare molti sostegni nei «movimenti per la pace», satelliti de l’Unione Sovietica. Dovevamo ridefinirla. Era l’epoca delle lotte di liberazione nazionali. Fu deciso che sarebbe stata una lotta di liberazione nazionale: quella del “POPOLO PALESTINESE”. L’organizzazione si sarebbe chiamata OLP: Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Alla riunione parteciparono membri dei servizi siriani e egiziani. I Siriani proposero il loro uomo, come futuro leader del movimento: Ahmed Shukairy¹, e fu accettato. Gli Egiziani avevano il loro candidato: Yasser Arafat. Quando fu chiaro che Shukairy non sarebbe stato all’altezza della situazione, fu deciso di rimpiazzarlo con Arafat, e, spiega Pacepa, costui fu “fabbricato”: abbigliamento da Che Guevara medio-orientale, barba di tre giorni da avventuriero. «Dovevamo sedurre i nostri militanti e i nostri contatti in Europa». 

Yasser Arafat nel 1964

Quaranta e passa anni dopo, l’opera di seduzione sembra aver avuto un netto successo. Non solo la «lotta di liberazione nazionale del popolo palestinese» appare giusta e legittima, ma nessuno mette più in discussione l’esistenza del “popolo palestinese”. nessuno osa dire che questo popolo fu inventato a fini di propaganda: nessuno sembra voler ricordarsene. Nessuno sembra volersi ricordare che la creazione del “popolo palestinese” fu un utile strumento della lotta dell’Unione Sovietica contro l’Occidente, durante la Guerra fredda.
E infatti: la lotta di liberazione nazionale inventata dal KGB ha fatto la sua strada: ci sono stati gli accordi di Oslo e la creazione dell’autorità palestinese in Giudea Samaria, c’è stata l’emergenza di Hamas poi, dopo la caduta dell’URSS, l’inserimento di una dimensione islamista nel conflitto. C’è stato, soprattutto, con Oslo, il riconoscimento da parte del governo israeliano dell’invenzione del KGB, il “popolo palestinese”, invenzione che è sfociata nell’idea dei “territori palestinesi” “occupati” da Israele.
Noi siamo oggi in uno dei momenti nei quali la parte islamista che tiene Gaza e la parte derivata dall’OLP che tiene Ramallah, cercano di ottenere un riconoscimento internazionale all’ONU, avendolo già ottenuto all’Unesco, con il sostegno di paesi come la Francia. (….) (qui)

Testo francese a questa pagina
Per approfondimenti: Ion Mihai Pacepa, The Kremlin Legacy, 1993. (mai tradotto in italiano) 

NOTA 1: Ahmed Shukairy, primo leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, è l’uomo che otto anni prima, di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, aveva spiegato che non era mai esistita una cosa di nome Palestina (qui).

barbara

QUELLE BUGIE CON LE GAMBE TANTO LUNGHE

Falsi

Uno degli aspetti interessanti sul piano intellettuale, ma anche sintomatici su quello morale, dell’attuale ondata antisionista/antisemita è quello dei falsi. Ci sono falsi generici, come quello di chi, come Günter Grass e i suoi emuli, al di là di ogni attribuzione di responsabilità, attribuisce a Israele l’intenzione di un attacco “atomico” all’Iran, quando al contrario si tratta evidentemente di un attacco “antiatomico”, non programmato con armi nucleari, anzi dell’ultima occasione per evitare che un conflitto mediorientale possa arrivare fino al livello dell’apocalisse nucleare. Ci sono i falsi ideologici, come quello di Boris Pahor che qualche giorno fa in un’intervista sul Secolo XIX, ha rivelato di non avere mai conosciuto Primo Levi, nonostante i suoi tentativi in questo senso, ma affermato apoditticamente che la sua morte fu colpa “del comportamento politico della sua patria”, cioè dello Stato di Israele. E come lo sa? Come si permette di speculare su una tragedia personale così terribile a fini politici? Poi vi sono i falsi documentali, la costruzione di citazioni inesistenti. Una riguarda ancora Primo Levi, ed è appena stata smascherata definitivamente da un articolo di Domenico Soave e Irene Scarpa sul domenicale del Sole 24 ore dell’8 aprile, come ha ricordato già qui Francesco Lucrezi. A Levi viene attribuita diffusamente su Internet e in vari documenti e discorsi antisraeliani la seguente frase: “Ognuno è l’ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele”. Gli autori mostrano che solo la prima frase, senza relazioni col conflitto mediorientale, è stata scritta da Primo Levi, mentre la seconda è un commento estensivo a quella frase, contenuto in una recensione a “Se questo è un uomo” dell’82 di un critico del “Manifesto”, Filippo Gentiloni, e tenuta giustamente da lui fuori dalle virgolette, ma attribuita poi a Levi da un articolo del 2002 di Joan Accocella sul “New Yorker” e da allora dilagata sul web. Non sappiamo se quella di Accocella fu una svista o una deformazione intenzionale (il suo scritto cade nel pieno della campagna internazionale contro Israele durante la cosiddetta “seconda Intifada”). Ma sicuramente è un falso infinitamente riprodotto in rete. Certamente volontaria è invece una falsa citazione da Ben Gurion, che ha origini nei lavori dello pseudostorico e propagandista antisraeliano Ilan Pappé e che è stata smascherata da un gruppo contro l’antisemitismo e ribadita di recente da “Camera”, un’osservatorio della comunicazione antisraeliana. In sostanza, Ben Gurion, in una lettera aveva scritto “Noi non vogliamo e non dobbiamo espellere gli arabi per prendere il loro posto” e dalla citazione è sparita tutta la prima parte della frase con la negazione, lasciando solo “dobbiamo espellere gli arabi per prendere il loro posto”, cioè l’esatto opposto di quel che pensava il fondatore di Israele. Il tutto serve a demonizzare la figura di Ben Gurion e a corroborare la propaganda del “peccato originale” della nascita di Israele come “furto della terra”. Come documenta “Camera” anche nel rigoroso sistema accademico anglosassone è assai difficile obbligare i propalatori di un falso così marchiano a rettificare le loro menzogne. Ci sono i falsi sistematici e organizzati, che negano l’evidenza e se possibile ne distruggono le tracce, come quella negazione del carattere ebraico di Gerusalemme, dell’esistenza del Tempio ecc., che fu lanciata da Arafat ai colloqui di Camp David, scandalizzando anche un tiepido cristiano evangelico come Bill Clinton per la negazione della narrazione biblica e di tutte le prove storiche che ciò comportava. Nonostante la sua evidente assurdità, questa menzogna in seguito è stata ripetuta moltissime volte dai media e dai dirigenti dell’Autorità Palestinese ed è diventata uno dei pezzi forti della propaganda anti-israeliana nel mondo islamico e ha ormai conquistato il consenso della maggioranza degli arabi. I responsabili del Wafq, il fondo islamico che amministra il monte del Tempio, hanno fatto il possibile con scavi distruttivi per far sparire quanto più hanno potuto della documentazione archeologica del Tempio e l’Unesco ha fatto la sua parte per attribuire le antiche tombe dei patriarchi al “patrimonio culturale palestinese”, facendo diventare la Tomba di Rachele a Betlemme, documentata nella Bibbia e testimoniata da centinaia di resoconti, immagini ecc., una moschea dedicata a non so quale clerico islamico. La bugia diventa cancellazione attiva e genocidio culturale. Tutto ciò non può non ricordare gli altri falsi che hanno costellato la propaganda antisemita nei secoli, dai Protocolli dei Savi di Sion (che sono regolarmente tradotti e ristampati nel mondo islamico, inclusi i territori amministrati dall’Autorità Palestinese e sono stati recentemente “rivalutati” da Gianni Vattimo in funzione antisraeliana) alle infinite varianti dell’”accusa del sangue”, dal caso di San Simonino a Trento ad Aleppo nel 1840 fino all’episodio ungherese di un secolo fa recentemente rilanciato da un deputato dell’estrema destra locale e all’accusa dell’uccisione dei palestinesi per rubarne gli organi, come si è inventato con grande clamore un paio d’anni fa un giornale svedese: tutti episodi seguiti da persecuzioni, pogrom, efferate vendette giudiziarie, odio diffuso. Non bisogna sottovalutare il peso di questa trama di menzogne, che è eccezionale anche rispetto alla consueta infondatezza della propaganda politica: nessuno, credo, oserebbe attribuire la colpa della morte di Tabucchi al governo italiano, per cui pure egli provava forte avversione, o al governo a lui altrettanto poco simpatico del Portogallo, altra patria adottiva. Nessuno, anche quando era dominio del papato, ha osato negare che a Roma ci sia stato il foro e che la città sia stata sempre legata all’Italia, anche se al momento era solo il centro politico di una Chiesa che si vuole “universale”. Ai vari popoli perseguitati, gli armeni e i curdi e i ceceni ecc. nessuno ha mai attribuito la volontà di dominare il mondo o l’uso di mangiare i bambini e di rubare gli organi interni ai feriti. Tutto ciò è avvenuto e continua ad avvenire con l’antisionismo/antisemitismo. Da questa densità di falsità e menzogne si possono trarre due conclusioni. La prima è che la maggior parte delle persone che se ne occupano ha con Israele un rapporto immaginario, che ha pochissimo a che vedere con la realtà. Come gli antisemiti hanno sempre odiato il loro fantasma di ebreo (e colpito poi gli ebrei veri) così gli antisionisti odiano un fantasma di Israele, quasi senza rapporto con la realtà, anche se poi provano a danneggiare il paese vero. La seconda è che tutte queste menzogne hanno autori, responsabili, propalatori, complici volonterosi. E che dunque l’antisionismo/antisemitismo non è un fenomeno naturale, che possa essere subito senza attribuire responsabilità. I falsi possono essere casuali, la loro diffusione senza controllo e la fabbricazione di menzogne certamente no. La domanda giusta non è dunque “perché si diffonde l’antisionismo/antisemitismo”, ma “chi lo fa e a quali fini e con quali complicità”.

Ugo Volli

E dopo questo splendido articolo del grande Ugo Volli, un po’ di documentazione.

barbara

I GIUSTI D’ITALIA

Sono 387 gli italiani riconosciuti come Giusti (dati aggiornati al 2004) dalla speciale commissione di Yad Vashem: non eroi, non cavalieri senza macchia e senza paura, ma uomini comuni: medici, avvocati, impiegati, operai, contadini, casalinghe… Persone che, trovandosi di fronte degli esseri umani in pericolo – a volte amici, a volte colleghi di lavoro, a volte semplici conoscenti, a volte perfetti sconosciuti – non hanno esitato a fare quanto necessario per salvarli, senza mai avere la sensazione di fare qualcosa di speciale: è accaduto che qualche figlio, scoperta casualmente in età adulta l’opera svolta dal padre, abbia chiesto: “Ma perché non mi hai mai raccontato niente?” per sentirsi rispondere: “Perché? Cosa c’era da raccontare?” E in un mondo in cui tanti millantano benemerenze – chissà se giustificate o no – per diritto ereditario, è bello constatare che i veri Giusti trattano con estremo pudore i propri ricordi, e in tale pudore hanno cresciuto anche i propri figli (nessuno, credo, ha mai sentito Piero Angela, Gianni Bulgari, Vittorio Citterich, Francesco Rutelli, dire qualcosa come “ah ma voi non sapete cosa ha fatto la mia famiglia…”).
Colpisce, in questo elenco dei Giusti l’Italia, l’altissimo numero di religiosi, suore e sacerdoti che in qualche caso, di fronte al pericolo in cui si trovavano gli ebrei, hanno persino sospeso la regola della clausura: persone dalla coscienza cristiana e umana decisamente superiore a quella dei loro superiori (Le reazioni del Vaticano [alla razzia del 16 ottobre nel ghetto di Roma] furono, contrariamente a quanto la stessa diplomazia tedesca si era aspettata, quasi nulle. Il segretario di Stato Maglione si accontentò di un colloquio privato con l’ambasciatore Ernst von Weizsaecker, senza neppure elevare una nota di protesta ufficiale alla Germania. Questo atteggiamento di riserbo tenuto in quella occasione dalla Santa Sede non fece altro che reiterare quello tenuto a livello internazionale nei confronti del genocidio antiebraico che si stava consumando nei paesi invasi dalla Germania e del quale la Santa Sede era stata informata fin dalle prime battute. p. 252)
Un libro che vale la pena di leggere, per riacquistare un po’ di fiducia nel genere umano.

I Giusti d’Italia, Mondadori
 
barbara

I MIEI SOLITI VIAGGI IN TRENO

tanto per cambiare.
All’andata niente, tutto regolare, a parte la mezz’ora di ritardo, ma chi mai potrebbe affermare che ciò non sia regolare? Al ritorno, tanto per cominciare, in albergo mi chiamano il taxi e dicono fra due minuti. Arriva dopo quasi dieci, scusandosi: aveva un camion davanti e non c’era stato modo di sorpassarlo. Siccome detesto aspettare tempi biblici in stazione, mi organizzo sempre in modo da non arrivare troppo in anticipo, e di conseguenza il ritardo del taxi, unito al traffico intenso che rallenta notevolmente la corsa, non mi fa stare del tutto tranquilla, ma in compenso provvede la radio ad allietarmi: nel programma su cui è sintonizzata, infatti, in quel momento è ospite una sessuologa, che dall’alto della sua profonda dottrina provvede a informarci che alla base del rapporto sessuale c’è il desiderio, e voi che magari scopate come ricci ma esperti sessuologi non lo siete, scommetto che questo non lo sapevate. Ebbene, sapevatelo. Arrivo in tempo, comunque, ma praticamente a filo. Comprati i giornali, provate una mezza dozzina di macchinette obliteratrici prima di trovarne una funzionante – che io come sapete sono contraria alla pena di morte quasi senza eccezione, ma per chi ha inventato il nome di “obliteratrice” un pensierino tutto sommato lo farei – ho giusto il tempo di arrivare al treno. Che siccome nasce lì ed è lì sul binario da un bel po’, a un minuto dalla partenza è pieno come un uovo. Finalmente vedo un sedile vuoto, e al tizio seduto davanti, bianchiccio, grassoccio, con un’orrendissima maglietta nera firmata Calvin Klein – evidentemente dev’essere il destino delle persone di cognome Klein, di produrre unicamente porcate – chiedo, indicandolo: “Libero?” Il tizio mi rovescia addosso un mucchietto di parole russe. Ora, io il russo lo conosco decisamente poco, ma “sì” “no” “non so” lo capisco, e nel mucchietto di parole rovesciatemi addosso queste qui non ci sono. Allora, sempre indicando il sedile, chiedo: “Free?” E lui si mette a parlare, sempre in russo, col tizio che sta dall’altra parte del corridoio. Per fortuna la tizia che sta di fianco al sedile libero, immensamente larga e immensamente nera, alza per un attimo gli occhi dall’aggeggetto su cui sta intensamente giocando e dice yes, it’s free. E io metto su il trolley e mi siedo. (Qualche tempo dopo il tizio russo chiede qualcosa, ovviamente in russo, alla ragazza seduta di fianco a lui. Lei dice mi dispiace non capisco. Lui ripete la domanda, nello stesso identico modo; lei dice I’m sorry, I don’t understand, e allora lui desiste. E io mi chiedo come vada in giro per il mondo certa gente, senza non dico conoscere la lingua del posto, ma almeno cavarsela con una lingua di comunicazione. Vabbè). A Verona prendo la coincidenza e lì ci informano che fra due fermate dobbiamo scendere, trasbordare su autobus e poi riprendere il treno alla stazione successiva, per via di una frana che ha invaso la ferrovia, danneggiato un binario e rotto un pezzo di statale, e infatti gli autobus devono prendere l’autostrada.


Per tutto il tempo che sono in treno comunque devo stare a sentire un tizio che parla ininterrottamente al cellulare, a voce altissima, con velocità supersonica, con quei tipici suoni gutturali dei neri, stordendoci tutti. Siamo in cinque vicinissimi a lui, e continuiamo a guardarci sgomenti. A me dopo neanche dieci minuti, è già venuto mal di testa. Ogni venticinque-trenta secondi dice: “No John, amekkiu anexampel”, e io mi stupisco della stratosferica quantità di esempi di cui il tizio dispone. Vabbè, finalmente arriviamo, scendiamo, carichiamo le valigie sui quattro autobus che ci aspettano fuori dalla stazione e saliamo. Vicino a me una signora, salita per ultima, in ottimo italiano ma con pesante accento tedesco comincia a strepitare: “Ah, qui ci sono solo posti in piedi. Va bene, vorrà dire che andremo a farci restituire i soldi. In piedi. Non basta tutto questo disagio, anche in piedi ci tocca viaggiare!” “Signora, guardi che c’è un posto lì”. “Ah no, noi siamo in due, non so cosa farmene di un posto!” “Ah, allora guardi, lì ce n’è un altro, mi sposto lì così ne avete due vicini”. “Ah no, io lì non mi ci siedo”. “Ehi, signora, c’è un posto libero davanti, se vuole”. “Ah no, io da qui non mi muovo”. E ha fatto il viaggio in piedi.
Il tratto successivo più o meno bene. Tranne che con tutta questa storia ovviamente siamo arrivati un po’ in ritardo. Non così tanto da perdere la coincidenza, ma abbastanza da avere i secondi contati. E siccome davanti a me si era piazzata una ragazza che non dovendo prendere la coincidenza si muoveva alla dàmene una che te ne dago dó, quando sono finalmente riuscita a scartarla e passarle davanti mi sono dovuta mettere a correre a rotta di collo per il sottopassaggio e insomma risalendo sono inciampata. Sarebbe stato carino che nel violento scontro frontale si fosse frantumato il gradino di granito, ma invece si è frantumato il mio piede destro. Che adesso è tutto tumefatto con tre diti (diti. E che nessuno si azzardi a correggermi, perché il dito è mio e lo chiamo come voglio io) di uno spettacolare color indaco che avrebbe fatto morire di invidia Vincent van Gogh. A sinistra invece niente, lì ero già strettamente bendata per via della caviglia che mi ero semidistrutta la settimana scorsa. Comunque col bastone, muovendomi piano piano, qualche passo riesco a farlo. (Poi stamattina mi sono beccata una supplenza per ginnastica: quattro corridoi e due rampe di scale per raggiungere la classe, nove corridoi e otto rampe di scale per raggiungere la palestra, idem al ritorno, e tre corridoi e due rampe di scale per andare nella mia classe. Poi durante la partita di palla avvelenata mi sono beccata una terrificante pallonata sulla caviglia; ma per fortuna la palla era semi-morbida, e mi ha fatto male solo per un paio d’ore).
Shabbat shalom

barbara

IL CORAGGIO DELLA VERITÀ

Discorso di Benjamin Netanyahu nella traduzione e con un commento di Mario Pacifici.

19 Aprile 2012

Discorso del primo ministro Netanyahu in occasione della Giornata della Memoria dell’Olocausto.

Ieri mattina, ho visitato una vecchia casa di riposo per i sopravvissuti dell’Olocausto dove ho incontrato Idit Yapo, una donna straordinaria di 104 anni, lucida e presente. Idit fuggì dalla Germania nel 1934 subito dopo l’avvento al potere di Hitler.
Ho incontrato anche Esther Nadiv, una delle gemelle di Mengele, che oggi ha 89 anni. Stava leggendo un libro, la biografia di Golda Meir. Con un lampo negli occhi, mi ha detto: “Sono così orgogliosa, così profondamente orgogliosa di essere parte dello Stato di Israele, e di avere vissuto il suo costante sviluppo.”
Ho incontrato Hanoch Mandelbaum, un uomo di 89 anni, sopravvissuto a Bergen-Belsen. Poco dopo il suo arrivo in Israele, contribuì, giovane falegname, alla costruzione della scrivania su cui Ben Gurion firmò la Dichiarazione di Indipendenza. Questo è MiSho’a liTkuma. Il percorso dalla Shoah alla resurrezione.
E poi ho incontrato Elisheva Lehman, una insegnante di musica di 88 anni, originaria dell’Olanda e sopravvissuta all’Olocausto.
Ho chiesto a Elisheva se volesse suonare qualcosa per noi. Lei ha suonato con entusiasmo “Am Yisrael Chai” e noi tutti abbiamo cantato con lei. È stata una grande emozione.
Signore e Signori, Am Yisrael Chai, il popolo di Israele è vivo.

I nostri nemici hanno cercato di sopprimere il futuro dell’ebraismo, ma esso ha trovato la sua rinascita nella terra dei suoi Padri. Qui, abbiamo gettato le fondamenta di un nuovo inizio di libertà, di speranza, di creatività. Anno dopo anno, decennio dopo decennio, abbiamo edificato il nostro paese, e anno dopo anno continueremo a rafforzare i pilastri su cui poggia la nostra vita nazionale.
In questo giorno, quando la nostra intera nazione è riunita per ricordare gli orrori della Shoah e i sei milioni di ebrei che sono stati assassinati, noi tutti siamo chiamati a compiere il più sacro dei nostri doveri.
Esso non consiste solo nel ricordare il passato. Noi abbiamo il dovere di farne nostra la lezione e di  applicarla alle sfide del presente, per garantire il futuro del nostro popolo. Dobbiamo ricordare il passato e proteggere il futuro applicando le lezioni del passato.
Questo è particolarmente vero per questa generazione – una generazione che ancora una volta si trova a fronteggiare proclami e minacce di chi intende annientare lo Stato ebraico.
Un giorno, io spero che lo Stato d’Israele potrà vivere in pace con tutti i paesi e tutti i popoli della regione. Un giorno, io spero che potremo leggere questi appelli alla distruzione degli ebrei solo nei libri di storia e non sui quotidiani.
Ma quel giorno non è ancora arrivato. Oggi, il regime iraniano chiede apertamente e lavora con determinazione per la nostra distruzione. E per raggiungere tale obiettivo esso si dedica febbrilmente allo sviluppo di un armamento atomico.
So che a molti non mi piace quando io parlo di verità tanto scomode. Preferirebbero che non si parlasse di un Iran nucleare, come di una minaccia esistenziale. Sostengono che un simile linguaggio, anche se vero, serve solo a seminare panico e paura.
Io mi chiedo se queste persone hanno perso ogni fiducia nel popolo d’Israele. Pensano davvero che questa nazione, che ha superato ogni pericolo, manchi oggi della forza necessaria ad affrontare la nuova minaccia?
Forse che lo Stato di Israele non ha trionfato su altre minacce esistenziali, quando era molto meno forte di quanto non sia oggi? Forse che i suoi leaders di fronte a quelle minacce hanno avuto scrupoli a dire la verità?
David Ben Gurion non nascose al popolo di Israele i pericoli esistenziali che era chiamato ad affrontare nel 1948, quando cinque eserciti arabi cercarono di soffocare Israele nella  culla.
Levi Eshkol disse la verità al popolo di Israele nel 1967, quando di fronte al rischio di essere strangolati rimanemmo soli ad affrontare il nostro destino.
E quando il popolo di Israele conobbe la verità, si lasciò forse prendere dal panico o non si strinse piuttosto unito per affrontare il pericolo? Rimanemmo forse paralizzati dalla paura o non facemmo piuttosto ciò che era necessario per proteggere le nostre esistenze?
Io ho fiducia nel popolo di Israele e questa fiducia si basa sull’esperienza del passato. Io credo che il popolo di Israele sia in grado di affrontare la verità. E credo che Israele abbia la capacità di sconfiggere coloro che si levano contro di lui.
Chi respinge le minacce dell’Iran come un’esagerazione o come un semplice atteggiamento minaccioso, non ha imparato nulla dalla Shoah. Ma noi di questo non dovremmo sorprenderci.
Ci sono sempre stati, anche tra noi, quelli che preferivano irridere coloro che denunciavano scomode verità, pur di non vedersi costretti a fare i conti essi stessi con quelle verità.
È così che fu accolto Zev Jabotinsky quando mise in guardia gli ebrei della Polonia della Shoah incombente. Questo è ciò che egli disse nel 1938, a Varsavia:
“Sono tre anni che io mi rivolgo a voi, Ebrei di Polonia, che siete la luce dell’ebraismo mondiale. Io continuo ad avvertirvi incessantemente che una catastrofe è imminente. Sono diventato grigio e vecchio in questi anni e il mio cuore sanguina nel vedere che voi, amate sorelle, amati fratelli, non riuscite a scorgere il vulcano che inizierà presto a sputare la sua  lava dirompente… Voi non lo scorgete perché siete immersi e sprofondati nelle vostre preoccupazioni quotidiane… Ascoltatemi in questa dodicesima ora: in nome di D-o! Chi può si metta in salvo oggi, finché c’è ancora tempo, perché di tempo ce n’è ben poco.”
Ma i più importanti intellettuali ebrei del tempo ridicolizzarono Jabotinsky e piuttosto che accogliere le sue denunce lo attaccarono.
Questo è ciò che Sholem Asch, uno dei più grandi scrittori ebrei, disse di lui: “Jabotinsky si è spinto troppo oltre. Le sue dichiarazioni sono dannose per il sionismo e per gli stessi  interessi vitali del popolo ebraico… È una vergogna che il nostro popolo esprima simili leaders.”
So che alcuni ritengono che l’incommensurabile evento della Shoah non dovrebbe essere mai invocato, nemmeno di fronte ad altre minacce esistenziali per il popolo ebraico. Farlo, essi sostengono, banalizzerebbe l’Olocausto e ne offenderebbe le vittime.
Io non sono assolutamente d’accordo. Al contrario. Rinunciare a sostenere una spiacevole verità – e cioè che oggi, come allora, c’è chi si prefigge di sterminare milioni di ebrei – questo significherebbe davvero banalizzare l’Olocausto. Questo significherebbe offenderne le vittime. E questo significherebbe ignorarne la lezione.
Il Primo Ministro di Israele, quando si parla di pericoli esistenziali, non ha solo il diritto di richiamare alla memoria come un terzo della nostra nazione sia stato annientato: ne ha il dovere.
C’è una scena memorabile nel documentario “Shoah” di Claude Lanzmann che spiega questo obbligo meglio di ogni altra cosa.
Nel corso dell’atroce esistenza nel ghetto di Varsavia, Leon Feiner del Bund e Menachem Kirschenbaum dell’organizzazione sionista incontrano Jan Karski della Resistenza Polacca.
Jan Karski è un uomo perbene, un uomo sensibile. Essi lo implorano di fare appello alla coscienza del mondo, contro i crimini nazisti. Gli descrivono ciò sta accadendo nel ghetto, glielo mostrano, ma tutto è inutile.
“Aiutateci” implorano. “Noi non abbiamo un Paese, non abbiamo un Governo, non abbiamo voce tra le Nazioni.” Avevano ragione.
Settant’anni fa, il popolo ebraico non aveva la capacità nazionale di convocare le nazioni, né la forza militare per difendere se stesso. Ma oggi le cose sono diverse. Oggi abbiamo un esercito. Abbiamo la capacità e la determinazione per difenderci. E ne abbiamo il dovere.
Come Primo Ministro di Israele, io non rinuncerò mai a gridare la verità di fronte al mondo e poco importa quanto essa possa risultare scomoda per alcuni.
Io dico la verità alle Nazioni Unite. Dico la verità a Washington DC, la capitale del nostro grande amico, gli Stati Uniti, e in altre importanti capitali. E dico la verità, qui a Gerusalemme, sul suolo di Yad Vashem, che è oberato delle nostre memorie.
Io continuerò a dire la verità al mondo, ma prima di tutto ho il dovere di parlare al mio popolo. Io so che il mio popolo è forte abbastanza per ascoltare la verità. E la verità è che un Iran dotato di armamento nucleare rappresenta una minaccia all’esistenza dello Stato di Israele.
La verità è che un Iran dotato di armamento nucleare rappresenta una minaccia politica per altri paesi della regione e una minaccia grave per la pace nel mondo.
La verità è che all’Iran deve essere impedito di dotarsi di un armamento nucleare.
È un dovere per il mondo intero, ma al di sopra e al di là di questo, è il nostro dovere.
La memoria della Shoah non consiste solo nel tenere cerimonie commemorative.
Essa non è solo una memoria storica.
La memoria della Shoah ci impone l’obbligo di fare tesoro delle lezioni del passato per salvaguardare le basi del nostro futuro.
Noi non nasconderemo mai la testa sotto la sabbia.

Am Yisrael Chai, veNetzach Yisrael Lo Yeshaker

Non avevo letto per intero il discorso di Bibi.
Ne avevo colto solo alcuni sprazzi sulla reticente stampa di casa nostra.
Nel leggerlo in versione integrale colgo un aspetto che mi era sfuggito.
Sono anni che ci sentiamo dire che di fronte alla minaccia Iraniana tutte le opzioni sono sul tavolo.
Sembrava più un’arma di pressione che un dato di fatto.
Oggi invece Bibi parla di quelle opzioni e senza soffermarsi sulle loro implicazioni politiche, ne rivendica solo con forza la valenza etica. 
Questo sembra renderle più vicine, più praticabili.
Mario Pacifici

Naturalmente concordo: il primo dovere di ogni stato è quello di difendere i propri cittadini, soprattutto se la minaccia incombente è quella di un totale annientamento. Quindi l’opzione militare per fermare l’Iran, prima ancora che sul piano politico, è assolutamente legittima e giusta sul piano etico.
Qui di seguito, per chi è in grado di seguirlo, il video del discorso di Netanyahu in ebraico (senza sottotitoli).

Qui altri due video con importanti spunti di riflessione.

Senza dimenticare questo.

barbara

LA NUOVA, STESSA SHOAH

(Traduzione dall’inglese di Giovanni Quer)

http://www.israelnationalnews.com/Articles/Article.aspx/11537

Dopo il Giorno della Shoah (la giornata della memoria israeliana), Israele celebra Yom ha-Zikaron, la giornata del ricordo dei soldati caduti in guerra e delle vittime del terrorismo, e Yom ha-Atzmaut, la giornata dell’indipendenza.
Ho deciso di scrivere un articolo da un punto di vista personale e lo ritengo necessario a fronte dell’ipocrisia nei dibattiti israeliani sull’uso del termine Shoah in riferimento all’Iran.
Non perché sia impedito ai primi ministri far riferimento ai sei milioni di morti nel commentare le nuove minacce dirette al popolo ebraico; così la pensano ormai solo i deboli e gli ingenui. Ritengo necessario parlarne perché in realtà una mini-Shoah è già accaduta, ma la comunità israeliana si è categoricamente rifiutata di definirla così.
Solo la nuova Shoah che in realtà è già accaduta può aiutarci a capire le probabilità che un’ulteriore Shoah si abbatta sul popolo ebraico.
Per sei anni ho rintracciato e intervistato i testimoni israeliani delle atrocità del terrorismo, le famiglie delle vittime e i sopravvissuti. È stato un lavoro che è durato sei anni, portato avanti con determinazione, in solitudine e, oso aggiungere, con accanito impegno morale.
Il frutto di questo lavoro è il mio libro “Non smetteremo di danzare: le storie mai raccontate dei martiri di Israele“.
Quando ho incominciato a lavorare a questo progetto sapevo che sarebbe stato quasi impossibile per i sopravvissuti raccontare le storie in prima persona. La loro testimonianza è una sorta di conoscenza periferica, tenuta nell’ombra, ma che avrebbe potuto esser portata alla luce al momento opportuno. Testimonianza dopo testimonianza mi avvicinavo a comprendere la verità e cresceva in me il senso del passato che esiste dentro al presente.
Non ho scritto “Non smetteremo di danzare” come una raccolta di documenti d’archivio, bensì come denuncia di una piccola Shoah: una Shoah non di milioni di ebrei uccisi solo perché erano ebrei che vivevano in Europa, ma una nuova Shoah di due mila ebrei uccisi solo perché erano ebrei che vivevano in Israele.
È un immenso buco nero che in quindici anni ha inghiottito 1.557 vittime innocenti, lasciando 17.000 feriti: uomini, donne e bambini. In termini di percentuale di popolazione, per avere eguali proporzioni alle vittime israeliane del terrorismo arabo, ci vorrebbero 53.756 americani morti e 664.133 feriti. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, attacco dopo attacco.
Mentre i media erano occupati a denunciare Israele, i terroristi suicidi palestinesi continuavano ad imperversare nelle strade delle città israeliane. Nessun luogo è stato in quel periodo completamente al sicuro, anche se alcune città sono state colpite più di altre.
Gerusalemme ha avuto il numero più alto di attentati suicidi; le comunità ebraiche di Giudea e Samaria erano sotto attacco quotidiano; gli insediamenti a ridosso del confine pre-1967 hanno sofferto innumerevoli attacchi; le città marine di Haifa e Tel-Aviv, Hadera e Netanya sono saltate tutte in aria.
C’è stato un tempo in cui l’Aeroporto Ben Gurion aveva più agenti di sicurezza che viaggiatori. Ai pochi che si avventuravano in quel periodo in Israele, ed io ero uno di loro, arrivato nel 2003 a girare un documentario sull’Intifada, il Paese di presentava come uno spettacolo surreale.
C’erano pochi danni visibili. Subito dopo un attacco, squadre di volontari specializzati e medici raggruppavano i morti, si prendevano cura dei feriti e letteralmente raschiavano i resti umani prima di metterli in borse di plastica.
Il personale delle municipalità si affrettava quindi a riparare i danni strutturali. Era solo questione di ore prima che la vita tornasse a scorrere “normalmente”, indipendentemente dalla brutalità dell’attacco o dal numero di vittime.
Il bisogno divorante di normalità di Israele si è manifestato in maniera inusuale qualche settimana fa, durante il decimo anniversario dall’inizio della Seconda Intifada.
Sorprendentemente, solo pochi articoli nei media israeliani si sono occupati del trauma decennale e delle vittime israeliane. Anche il silenzio degli scrittori ebrei, che dura da tempo, è stato sconcertante.
Perché ho deciso di usare il termine Shoah, che è un unicum nella storia dell’umanità, stando attento a non fare fallaci comparazioni?
Ciò che è successo a Israele, stretto dalla morsa del terrorismo, è uno specifico processo distruttivo. Le famiglie e le storie raccontate nel libro sono come un coro greco che esercita un potere quasi ipnotico, cantando un inno alla vita che si erge sopra l’esperienza della morte.
La parola “olocausto”, dalle connotazioni sacrificali, sarebbe stata inammissibile. “Shoah” è una parola che collega, almeno secondo me, la generazione dello sterminio agli israeliani sterminati nella loro terra. Per questo ho scelto “Una nuova Shoah” come titolo all’edizione inglese di “Continueremo a danzare”, perché il libro contiene un lamento funerario al più tragico passato, reso di nuovo presente. Volevo mostrare il carattere assoluto della tragedia ebraica. Volevo mostrare come gli ebrei siano stati vittimizzati e abbandonati dal mondo, oggi come allora. Le loro testimonianze, le loro lacrime, le loro emozioni sono più autentiche di molti documenti storici.
Sapevo che avrei pagato un prezzo molto alto per un libro simile.
Parlare oggi in tono amichevole di Israele, soprattutto in ambito giornalistico e accademico, significa rischiare una violenta reazione di condanna.
Le porte spesso si chiudono agli autori che rifiutano le bugie e rinnegano l’odio per Israele.
Ho deciso di mettere le vittime israeliane al centro di due storie, diverse e straordinarie: la grande storia delle loro società originarie (Europa, Nord Africa, Yemen, Russia e America), e la piccola storia che hanno scritto esse stesse venendo in Israele. La storia dei pionieri, la storia di dottori che curavano gli arabi prima di essere uccisi, la storia di soldati e professori, di laici e religiosi, insomma la storia dell’umanità di un piccolo Paese che ha una sola, imperdonabile, colpa: sopravvivere.
Non è un “libro israeliano”, perché lancio anche la sfida a considerare la realtà in un contesto nuovo e poco famigliare, dove il trionfalismo sionista si coniuga con una vulnerabilità inerente. Un popolo invincibile esprime sconcerto nel vedere il mondo che lo isola e aumenta le sue ferite. È il solito martirio del popolo ebraico, che invece di fucilazioni di massa e camere a gas da parte dei nazisti, deve ora affrontare un continuo, costante e cadenzato assassinio organizzato dai terroristi e presto dalla bomba nucleare dell’Iran.
I terroristi non puntano esplosivi, pistole e razzi contro obiettivi militari o soldati armati bensì contro una pizzeria, una discoteca, uno scuolabus, un ristorante, un hotel, una stazione ferroviaria e in ogni altro luogo dove ci siano ebrei da sterminare.
Civili come il padre, la madre, il fratello e il nonno di Menashe Gavish che ha perso i propri cari in una notte di terrore a Elon Moreh.
Civili come la quindicenne Malka Roth, che stava solo mangiando una pizza con un’amica, Michal Raziel prima di andare a casa, a Gerusalemme.
Civili come Gabi Ladowski, studente all’Università Ebraica di Gerusalemme. Civili come Yanay Weiss, che stava suonando la chitarra in un bar di Tel-Aviv giusto dietro il consolato USA. La settimana prossima ci sarà la commemorazione della sua morte.
Queste famiglie sono un esempio morale per il mondo intero. Ho descritto la bellezza delle loro vite per rendere l’insopportabile – sopportabile. Offro questo libro, opera di amore e lacrime, come un canto in memoria degli ebrei martiri. Ho tentato di onorarli con le parole di Simone Weil che ha scritto: “Se dovremo perire, prospettiva sempre più possibile, facciamo in modo di non perire senza esser esistiti”.
Non si può scrivere un libro come questo senza esser condannati alla solitudine. Più mi sono impegnato, più son diventato solo. Ma per dare al mondo un libro di questo tipo, uno scrittore deve amare profondamente la vita. Ed io amo la vita e la amo ancora di più dopo esser stato vicino a quelle famiglie e a quei testimoni. (Informazione Corretta)
Giulio Meotti

E nonostante l’odio e nonostante l’impegno e nonostante gli innumerevoli tentativi di annientarlo, AM ISRAEL CHAI, il popolo d’Israele vive.

barbara

E MENO MALE CHE IL COFFEE C’È

Hanno detto alla radio che Kofi Annan ha invitato Assad a cessare gli attacchi con le armi pesanti. Quindi il signor Assad è avvertito: d’ora in poi tollereremo unicamente massacri eseguiti con fucili, pistole e armi da taglio. Al massimo, occasionalmente, qualche granata e qualche sporadica raffica di mitra, ma solo in caso di comprovata necessità.
D’altra parte, potevamo aspettarci di meno dal ninfo egerio di Durban 1? Potevamo aspettarci di meno da uno dei maggiori responsabili del genocidio in Ruanda? (Un episodio forse non troppo noto: nel gennaio 1994 il generale Dallaire, comandante delle forze ONU in Ruanda, inviò a Kofi Annan, all’epoca capo delle missioni di pace dell’ONU, l’informazione che era imminente la messa in atto di un genocidio: Kofi Annan scelse di non intervenire. Tre anni e mezzo (e un milione di morti) più tardi Kofi Annan, diventato nel frattempo segretario generale dell’ONU, impedì al generale Dallaire di testimoniare in proposito. Altrettanto poco noto, per inciso, è probabilmente il fatto che nel 2005, sempre sotto il regno di Sua Maestà Kofi Annan, nella ricorrenza dell’anniversario della risoluzione Onu 181 del 29 novembre 1947, all’Onu si è tenuta una cerimonia di solidarietà con il popolo palestinese per la “tragedia” della nascita di Israele, con tanto di carta geografica in cui la Palestina copre tutta l’area e Israele non c’è).

Giornata di solidarietà col popolo palestinese

E infine, l’argomento decidivo: potevamo aspettarci di meno da un premio Nobel per la pace?

barbara