BOCCA DI ROSA: ANALISI DEL TESTO

La chiamavano Bocca di Rosa
metteva l’amore, metteva l’amore,
la chiamavano Bocca di Rosa
metteva l’amore sopra ogni cosa.
Ora, a parte che da quello che si può capire da tutto il testo non si direbbe che si tratti esattamente di amore, ci si chiede: se la chiamavano Bocca di Rosa ci sarà un motivo o no? E se il motivo è quello che sembra ragionevole pensare, il tutto avrà davvero qualcosa  a che fare con l’amore?

Appena scesa alla stazione
del paesino di Sant’Ilario
tutti si accorsero con uno sguardo
che non si trattava di un missionario.
È un modo un po’ edulcorato per dire che aveva un tale aspetto da baldraccona che bastava guardarla un quarto di secondo per inquadrarla?

C’è chi l’amore lo fa per noia
chi se lo sceglie per professione,
Bocca di Rosa né l’uno né l’altro:
lei lo faceva per passione.
Sì vabbè ma, non per farci gli affari degli altri, per carità, ma lei, Bocca di Rosa, di che cosa viveva?

Ma la passione spesso conduce
a soddisfare le proprie voglie
senza indagare se il concupito
ha il cuore libero oppure ha moglie.
No un momento: stiamo parlando di passione o di voglie da soddisfare? Perché non è che le due cose abbiano molto a che fare l’una con l’altra.

E fu così che da un giorno all’altro
Bocca di Rosa si tirò addosso
l’ira funesta delle cagnette
a cui aveva sottratto l’osso.
Quanto astio, quanto livore, quanto disprezzo nei confronti di queste mogli tradite, trascurate, ignorate da un branco di maiali infoiati! Sempre detto che i buoni di professione, innamorati di Caino – e Abele che si fotta pure – sono in assoluto la peggiore feccia della società. È di qualche conforto constatare che ha per lo meno la consapevolezza di essere, in quanto uomo, nient’altro che un volgare osso per cagnette fameliche.

Ma le comari d’un paesino
non brillano certo in iniziativa,
le contromisure fino al quel punto
si limitavano all’invettiva.
Embè, certo, si sa che le donne – pardon, comari – dei paesini non sono altro che delle povere imbecillotte, a differenza dei loro brillantissimi mariti e delle zoccole forestiere.

Si sa che la gente dà buoni consigli
sentendosi come Gesù nel Tempio,
si sa che la gente dà buoni consigli
se non può più dare cattivo esempio.
Eh già, ne sa qualcosa il nobile autore, del dare consigli sentendosi come Gesù nel Tempio

Così una vecchia mai stata moglie,
senza mai figli, senza più voglie,
si prese la briga e di certo il gusto
di dare a tutte il consiglio giusto.
Giusto: se le donne sono meritevoli solo di disprezzo, le vecchie sono meritevoli di disprezzo al quadrato.

E rivolgendosi alle cornute
le apostrofò con parole argute:
“Il furto d’amore sarà punito,
disse, dall’ordine costituito”.

E quelle andarono dal commissario
e dissero senza parafrasare:
“Quella schifosa ha già troppi clienti
più di un consorzio alimentare”.
Clienti? Come clienti? Non si trattava di passione? Non si trattava di amore?

Ed arrivarono quattro gendarmi
con i pennacchi, con i pennacchi
e arrivarono quattro gendarmi
con i pennacchi e con le armi.
Spesso gli sbirri e i carabinieri
al proprio dovere vengono meno,
Stiamo parlando di quei tizi che rischiano, e non di rado ci rimettono, la pelle per proteggerci? Stiamo parlando di quei tizi che rischiano, e non di rado ci rimettono, la pelle per trovare e liberare i nababbi che si fanno rapire dall’anonima sequestri? Magari fossero venuti meno al proprio dovere quando nelle mani dell’anonima sequestri c’eri tu, pezzo di merda. E mi raccomando, non dimentichiamoci di chiamarli sbirri, pezzo di merda.

ma non quando sono in alta uniforme
e l’accompagnarono al primo treno.
Eccerto, è l’abito che fa il carabiniere, chi non lo sa?

Alla stazione c’erano tutti
dal commissario al sacrestano,
alla stazione c’erano tutti
con gli occhi rossi e il cappello in mano
a salutare chi per un poco
senza pretese, senza pretese
a salutare chi per un poco
portò l’amore nel paese.
A me veramente sembrava che avesse portato più che altro una gran paccata di corna

C’era un cartello giallo
con una scritta nera,
diceva “Addio Bocca di Rosa,
con te se ne parte la primavera”.
Giustamente: il giallo era il colore usato per segnalare la peste a bordo, e con tutti quei clienti – più di un consorzio alimentare – chissà cosa girava per il paese

Ma una notizia un po’ originale
non ha bisogno di alcun giornale,
come una freccia dall’arco scocca
vola veloce di bocca in bocca.
E alla stazione successiva
molta più gente di quando partiva:
chi manda un bacio, chi getta un fiore,
chi si prenota per due ore.
Appunto: è nei casini che vige la tariffa oraria. Cosa vi avevo detto?

Persino il parroco che non disprezza
fra un miserere e un’estrema unzione
il bene effimero della bellezza
la vuole accanto in processione.
Vogliamo metterci d’accordo per favore? Erano alla stazione ad aspettarla o stavano facendo la processione?

E con la Vergine in prima fila
e Bocca di Rosa poco lontano
si porta a spasso per il paese
l’Amore Sacro e l’Amor Profano.
“Si porta a spasso”? Il parroco “si porta a spasso” la Vergine? E che razza di processione sarebbe?

E pensare che questo concentrato di cinismo, di perfidia, di odio, di disprezzo, di misoginia (e di antisemitismo duro e puro: qui non compare, ma nell’autobiografia sgorga e trabocca) c’è chi lo considera sublime poeta. Ma mi faccia il piacere!
Un fatto comunque è certo: se fosse vivo, con tutto il suo sviscerato amore per l’OLP – al tempo in cui dirottavano un aereo dietro l’altro e facevano strage di ebrei in giro per tutta l’Europa – e la sua infaticabile opera di denuncia della famigerata nonché potentissima lobby ebraica, sicuramente farebbe un tifo sfegatato per questi signori qui. (E che nessuno si azzardi a non cliccare).
barbara

E PER RESTARE IN TEMA

(ri)godiamoci lo straordinario spettacolo di questo funerale in cui il morto, spaventato dall’elicottero israeliano che sta riprendendo la scena, casca giù dalla barella, scappa, torna indietro, ci risale sopra per poi ricascare giù dopo pochi momenti e ricominciare tutto da capo. Da fare concorrenza ai film di Ridolini.

E meno male che almeno una volta quelle schiappe colossali degli israeliani nel campo della comunicazione si sono fatti venire l’idea di documentare almeno una delle consuete bufale della controparte. E per un minimo di informazione supplementare può valere la pena di leggere, o rileggere, uno e due.

barbara

È ARRIVATO IL MOMENTO

dieci anni dopo, di tornare a parlare di Jenin. Innanzitutto guardando questo video che qualcuno – non so chi – mi ha fatto arrivare all’account email del blog (se passa di qui colgo l’occasione per ringraziarlo/a)

E poi rileggendo questo articolo. O, più probabilmente, leggendolo per la prima volta, dato che, nonostante lo abbiamo mandato a tutti i giornali, a nessuno è venuto in mente di prenderlo in considerazione: si tratta di quei famosi fatti che contrastano con l’ideologia, e vanno pertanto rigorosamente ignorati. Anzi, meglio, cancellati.

barbara

PERCHÉ HITLER È VIVO E LOTTA INSIEME A LORO

Deturpata a Livorno la targa via Degli ebrei vittime nazismo

Ignoti cancellano parole e la trasformano in ‘via gli ebrei’


LIVORNO, 26 mag – Deturpata a Livorno la targa di via Degli ebrei vittime del nazismo. Ignoti, probabilmente la notte scorsa, hanno cancellato le parole vittime e nazismo trasformando così la dicitura sull’insegna in ‘via gli ebrei’. Sdegno per l’atto vandalico è stato espresso dal sindaco della città toscana Alessandro Cosimi: ”La recrudescenza di sentimenti di questo tipo – ha detto – è incredibile e inaccettabile. È vile chi si accanisce contro una lapide, annullando il suo significato”. La targa, fanno sapere dal Comune, verrà rimossa e sostituita quanto prima. (ANSA, 26 maggio 2012, via “Notizie su Israele”)

E pensare che Livorno è, storicamente, la città più felice per gli ebrei, l’unica, fra tutte quelle con una comunità ebraica, a non avere conosciuto l’infamia del ghetto, forse in assoluto la più aperta e tollerante. Sembra proprio che si stia tornando ai tempi bui in cui di porti sicuri, per gli ebrei, non ce ne sono da nessuna parte.

barbara

CHE DIFFERENZA C’È FRA LE TORTE E GLI EBREI?

Il direttore sociale dell’Asl di Pavia, a lungo dirigente dell’Asl di Lodi, Bergamo e Milano, nel mirino delle critiche per la sua uscita infelice: “Non voleva essere un’affermazione pesante nei confronti di chi ha sofferto”

PAVIA, 26 maggio 2012 – «La differenza fra le torte e gli ebrei? Che le torte quando le metti nel forno non gridano..». Bufera sul direttore sociale dell’Asl di Pavia, Giuseppe Imbalzano, 59 anni, a lungo dirigente dell’Asl di Lodi per poi passare a Bergamo e Milano, che durante un incontro con i rappresentati di Comune e Provincia ha pronunciato queste parole. Subito è scoppiata la polemica, ma Imbalzano, raggiunto ieri in tarda serata al telefono da Il Giorno, si difende: «Quando ho detto quella battuta, le persone hanno sorriso – dice -. Non voleva essere un’affermazione pesante nei confronti di chi ha sofferto ed è stato trattato senza considerazione per la sua dignità umana. È stata una sciocca battuta, che non aveva alcuno spirito offensivo».
Imbalzano continua: «Non avrei mai immaginato che una sciocchezza del genere potesse sollevare un “polverone”, anche per il contesto nel quale è stata pronunciata». E ripete: «Non volevo offendere la sensibilità degli ebrei, nella mia vita non ho mai manifestato mancanza di sensibilità nei confronti di ebrei e altre minoranze». Scuse tardive. Basteranno a salvargli il posto? «Non ho ancora ricevuto alcuna comunicazione dall’azienda», dice lui. Al momento, nessuna denuncia è giunta allo sportello

(Il Giorno, 26 maggio 2012, via “Notizie su Israele”)


Direttore Sanitario
ASL della Provincia di Bergamo

CV Dr. Imbalzano

Indirizzo corrispondenza e sede:
ASL della Provincia di Bergamo
Via Gallicciolli 4
24121 Bergamo

Tel +39 035385229
Fax +39 035385195
Tel cell +39 3483181123

e-mail: imbalzano1@yahoo.it
http://www.sitilombardia.it/page.php?idp=37
http://www.asl.pavia.it/Curriculum%20Direttore%20Sociale%20IMBALZANO.pdf
http://www.facebook.com/imbalzano1

Caro dottor Pinuccio.
Forse non ti è chiaro: gli Ebrei bruciati nei forni crematori erano proprio come le tue torte, quando li hanno messi nel forno non hanno gridato, perché erano già stati ammazzati con lo ziklon B.
Sei contento della figura di merda mondiale che hai fatto? Io ho vergogna per te, condividendo la tua stessa nazionalità.
Guardati nello specchio e sputati in faccia.
Momo Vedim

Dear Doctor.
I’m a turkish student, who has lived in Rome for e few months last year, I have friends in Italy and I know that Italians are very nice people. But today I’m concerned of your statements about pies and jews. I have jewish friends here in İstanbul who are sorry of reading such a news, and I am sorry too.
Using death and genocide in jokes is a real crime, and I wonder how an educated person could have committed such a mess.
With my best regards, waiting for your apologize.
Güler Çelik
Bebek – İstanbul

Gentile dottore, voleva essere famoso?
Adesso sarà contento perché lo è diventato a causa dell’idiozia che ha pronunciato riguardo torte ed ebrei.
Ed è stata una doppia idiozia la Sua, in quanto neanche tiene conto che, da che mondo è mondo, mai nessun morto ha gridato venendo cremato, che fosse ebreo o di qualsivoglia appartenenza etnica o religiosa.
Si vergogni.
Fulvio Del Deo

 

Dottore (ammesso che lo sia veramente; sa com’è, oggi in Italia ci sono tanti dottori non laureati), certamente ha ora raggiunto una notorietà insperata, e forse adesso riuscirà a diventare anche un capopopolo (in fondo di cretini è pieno il mondo), ma non pensi, per questa semplice ragione di poter essere mai una persona stimabile. Le parole dette, fossero anche solo per scherzo (e che scherzo intelligente, appunto) l’accompagneranno per il resto dei suoi giorni.
Spero di non doverla incontrare, ma se dovesse mai accadere non avrò difficoltà a spiegarle quanto stupide siano state le sue parole (diverso sarà vedere se lei sarà in grado di capire).
Emanuel Segre Amar

 

***********************

Bene, ora i fatti li sapete, gli indirizzi li avete, vedete un po’ voi che cosa vi suggerisce la vostra coscienza.

barbara

AGGIORNAMENTO:

Dott. Imbalzano,
sono cugino e nipote di coloro che “hanno gridato entrando nel forno”, come ha amabilmente raccontato.
Lei, immagino, avrà anche moglie e figli. Chiuda gli occhi e li veda mentre vengono spinti nelle camere a gas, nudi, stremati, terrorizzati.
Lei forse viene dalla provincia calabrese, immagini che tutto questo accada ai suoi cari perché figli di un calabrese, non per altre “colpe”.
Spero che questo le dia la giusta dimensione del suo vile atteggiamento. Per cui smetta di trovare scuse infantili: “c’era chi sorrideva” – “non pensavo di…” (come riferisce anche il Giorno del 26 maggio 2012) che rendono la sua inconsistenza e il cinismo ancora più gravi. Chieda scusa e si dimetta. L’Italia sta cercando di risollevare la testa e non ha davvero bisogno di ominicchi che governino le sue istituzioni.
Con nessuna stima
A.C.

Naturalmente non è giunta alcuna risposta, così come – immagino, non avendo avuto alcun riscontro – le altre pubblicate precedentemente.

CIAO SABATINO, RIPOSA IN PACE

Uno alla volta ci stanno lasciando tutti; per questo diventa tanto più forte il nostro dovere di ricordare al posto loro.

Digitando Sabatino Finzi in youtube è possibile trovare l’intera intervista. Qui un altro importante articolo da leggere.
E per non dimenticare che le minacce che incombono sugli ebrei non sono terminate con l’apertura dei cancelli di Auschwitz, andate a leggere anche questo.

barbara

CHI HA UCCISO GIOVANNI FALCONE

Tutti i nemici di Falcone (oltre a Cosa Nostra)

Il giudice fu massacrato da colleghi, giornalisti e politici di vari schieramenti. Gli stessi che oggi lo piangono

C’erano le lettere al Giornale di Sicilia scritte dai vicini di casa di Giovanni Falcone – in via Notarbartolo, dove ora c’è «l’albero Falcone» – che nell’aprile 1985 lamentavano il fastidio delle sirene e il timore che un attentato potesse  coinvolgerli. 
C’erano gli articoli di Vincenzo Vitale, Vincenzo Geraci, Lino Iannuzzi, Guido Lo Porto, Salvatore Scarpino e Ombretta Fumagalli Carulli (Giornale di Sicilia, Giornale, Il Roma, Il Sabato) che in tutti i modi possibili attaccarono il maxi-processo che dal febbraio 1986 si celebrò nell’aula bunker di Palermo. 
Ha raccontato Paolo Borsellino al Csm il 31 luglio 1988: «Io e Falcone fummo chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo essere segregati in un’isola deserta con le nostre famiglie: perché se l’ordinanza sul maxi-processo non la facevamo noi, se ci avessero ammazzati, non la faceva nessuno. Io protestai, ma mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano verso lo Stato e non verso la mia famiglia. Dopo 24 ore scaricarono me, Falcone e le famiglie in quest’isola. Tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all’Asinara per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta».

Attacchi politici – Poi, il 16 dicembre 1987, quando la Corte d’assise comminò a Cosa Nostra 19 ergastoli, ci furono gli attacchi democristiani e socialisti che giunsero ad accusare Falcone di filo-comunismo per come aveva affrescato i rapporti tra mafia e politica; l’incriminazione dell’ex sindaco democristiano Vito Ciancimino non migliorò le cose. Poi, il 19 gennaio 1988, mentre tutti attendevano la nomina di Falcone a nuovo consigliere istruttore di Palermo, ci fu lo sfregio del Csm che gli preferì Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità: i consiglieri di destra e di sinistra votarono tutti contro di lui a eccezione di Giancarlo Caselli. Dirà Francesco Misiani, storico esponente di Magistratura democratica: «Falcone non fu compreso a sinistra, lui che era l’unico che aveva percepito realmente la mafia come un’articolazione dello Stato». Tra gli affossatori di Falcone si distinse Elena Paciotti, futuro presidente dell’Associazione magistrati nonché europarlamentare Ds.
Poi, progressivamente, ci fu lo scioglimento del pool antimafia, così che le istruttorie tornarono all’età della pietra: parcellizzate, annacquate, eterodirette, banalizzate. Per Falcone fu una delegittimazione terribile, proveniente dai livelli più alti: di lì in poi i nemici spunteranno come scarafaggi. 
Poi ci fu il primo attentato, quello dell’Addaura: era il 20 luglio 1989 e il magistrato si trovava nella sua casa al mare, presa in affitto. Verso mezzogiorno la scorta ritrovò in spiaggia una borsa con 58 candelotti di esplosivo. Al di là di una rinnovata e fumosissima inchiesta della Procura di Caltanissetta, sull’attentato si è già espressa la Cassazione il 19 ottobre 2004: condanne a 26 anni per Totò Riina e altri boss e responsabilità attribuita a Cosa Nostra, punto. Le pagine della Cassazione mettono nero su bianco anche quello che viene definito «l’infame linciaggio» di Falcone, che in buona sostanza fu accusato di essersi piazzato la bomba da solo.

«L’avvertimento» – Gerardo Chiaromonte, comunista e defunto presidente dell’Antimafia, scrisse che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità». La sentenza della Cassazione fa anche altri nomi: tra questi i giudici Domenico Sica, Francesco Misiani e il colonnello dei carabinieri Mario Mori: chi più e chi meno, misero tutti in dubbio un attentato che in molti cercarono di derubricare a semplice avvertimento. 
Poi, appunto, ci fu il voltafaccia orribile di Leoluca Orlando, che abbiamo già raccontato domenica scorsa: il sindaco di Palermo s’inventò che Falcone proteggeva Andreotti e disse pubblicamente, soprattutto a Samarcanda di Michele Santoro, che il giudice teneva nascosta nei cassetti una serie di documenti sui delitti eccellenti. Falcone dovrà addirittura discolparsi davanti al Csm dopo un esposto sempre di Orlando. Secondo un racconto di Cossiga, Falcone ne uscì in lacrime. 
Poi ci fu Falcone che decise di accettare l’invito del Guardasigilli Claudio Martelli per dirigere gli Affari penali al Ministero. L’obiettivo del magistrato – la creazione di nuovi strumenti come la Procura nazionale antimafia – gli valse l’accusa di tradimento e megalomania da parte degli stessi ambienti che oggi commemorano Falcone come un vessillo di loro proprietà. Non aiutò che Falcone – come dimostra il libro La posta in gioco, interventi e proposte, da poco ristampato – si dimostrasse disponibile a discutere di separazione delle carriere dei magistrati e indisponibile invece a sostenere l’esistenza di un fatidico terzo livello mafioso. Scrisse amaramente Gerardo Chiaromonte ne I miei anni all’antimafia: «Falcone divenne, da amico del Pci, amico di Andreotti, con Claudio Vitalone che faceva da tramite».

Prima le toghe – Furono i suoi colleghi a scagliarsi per primi contro Falcone. Il 2 dicembre 1991 l’intero corpo dei magistrati scioperò «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura», scrisse efficacemente la cronista Liana Milella, ai tempi amica del magistrato. Giacomo Conte, già componente del pool antimafia di Palermo, il 6 giugno 1991 definì il progetto della superprocura «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti». Nel notiziario trimestrale di Magistratura democratica, nel dicembre 1991, la nuova Direzione Nazionale Antimafia veniva invece definita come «una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all’indipendenza della magistratura», dunque si prospettava un «disegno di ristrutturazione neoautoritaria». 
La vera coltellata fu però la pubblica lettera – indirizzata teoricamente al Guardasigilli  – che annoverava, tra i primi firmatari, colleghi e amici come Antonino Caponnetto e Giancarlo Caselli e persino Paolo Borsellino: «Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente… fonte di inevitabili conflitti e incertezze». Seguivano 60 firme di colleghi  in data 23 ottobre 1991.  
Poi c’erano i giornalisti, c’erano gli articoli del Giornale di Napoli: «Dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma». C’era Raitre con Corrado Augias, che si rivolse a Falcone ospite in studio: «Non voglio dire che lei ci abbia deluso, ma ultimamente, da quando è al Ministero, è un po’ cambiato… Lei nel suo libro, scandaloso, arriva a dire delle cose gravi… lei scrive testualmente che la mafia ha sostituito lo Stato in Sicilia…». C’era Repubblica con questo incredibile commento di Sandro Viola del 9 gennaio 1992: «Falcone è stato preso da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera… Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi a uno dei posti di vertice del ministero di Grazia e giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicistico… non si capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo, non ne faccia la sua professione definita, abbandonando  la magistratura. Scorrendo il suo libro-intervista, s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi. La fatuità fa declinare la capacità d’autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini del suo libro».

La fama «usurpata» – E c’era l’Unità con Alessandro Pizzorusso, 12 marzo 1992: «Falcone superprocuratore? Non può farlo… Fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia». Sul Resto del Carlino, nello stesso giorno, si giunse a sostenere che secondo il Csm «la sua fama di magistrato antimafia è semplicemente usurpata».
Poi, purtroppo, contro Falcone c’era persino la mafia. Ha raccontato Giovanni Brusca nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone, scritto con Saverio Lodato nel 1999: «Sono responsabile della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, ho strangolato parecchie persone, ho sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, e, prima di farlo, molti li ho carbonizzati su graticole costruite apposta… Il mio risentimento nei confronti di Falcone era identico a quello di tutti gli affiliati a Cosa Nostra: era il primo magistrato, dopo Rocco Chinnici, che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Era riuscito a entrare dentro Cosa Nostra, sia perché ne capiva le logiche, sia perché aveva trovato le chiavi giuste. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato… Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982». 

I vicini di casa, i colleghi magistrati, persino gli amici, poi i giornalisti, persino i mafiosi. Parrà strano, ma dopo tutto questo, e prima della strage di Capaci, Giovanni Falcone era ancora vivo. 

di Filippo Facci (qui)

E qui il testo completo dell’immondo articolo di Sandro Viola (leggetelo tutto. Con cura. Ma prima assicuratevi di avere a portata di mano un’autobotte di Maalox).

FALCONE CHE PECCATO


barbara

QUEL GUITTO…

Abbiamo recuperato l’introvabile articolo di Sandro Viola che nel gennaio 1992 si scagliava contro Giovanni Falcone, accusandolo di essere un “guitto televisivo”. Qualche giorno dopo sullo stesso giornale Giuseppe D’Avanzo difendeva il giudice antimafia: “Non ha mai avuto una vita facile”.
  

È il 9 gennaio del 1992, un giovedì. Il quotidiano la Repubblica in quel periodo vende mediamente circa 750mila copie. Nella pagina dedicata ai commenti viene pubblicato un articolo dal titolo “Falcone, che peccato…” vergato da Sandro Viola, firma di punta del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. L’argomento del commento è il giudice antimafia che Viola prende di mira per via della sua esposizione mediatica. Un pezzo durissimo che oggi, a vent’anni dalla strage di Capaci che fece saltare in aria Falcone, la moglie e la scorta, ritorna a galla con la violenza d’una colpa.
L’articolo, introvabile nell’archivio online di Repubblica, è oggetto di discussione in queste ore sulla Rete, ma nessuno l’ha pubblicato integralmente, in maniera da consentire al lettore un’autonoma valutazione.
Eccolo, l’articolo, in versione integrale: recuperato grazie all’Emeroteca Tucci di Napoli. Che ognuno faccia le sue valutazioni dopo averlo letto.
Viola attacca definendo Giovanni Falcone “magistrato che alla metà degli anni Ottanta inflisse alcuni duri colpi alla mafia”. Una definizione quanto meno riduttiva per l’anima del maxi-processo di Palermo, per colui che, lo dicono i suoi colleghi magistrati, individuò nuove tecniche e nuovi metodi per l’approccio alla questione mafiosa. Continua Viola: “da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato”.
Poi, l’accusa di essere diventato una sorta di esternatore, al pari dell’allora Capo dello Stato, il “picconatore” Francesco Cossiga: “Egli è stato preso – scrive Viola su Repubblica – infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente della Repubblica”.
La preoccupazione dell’editorialista è che Giovanni Falcone abbia perso il suo equilibrio. Gli chiede di lasciare la magistratura viste le sue rubriche sulle pagine dei giornali: “Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica”.
“Quel che temo, tuttavia – continua il pezzo – è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio di interviste all’anno. La logica e le trappole dell’informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionisti anche uomini che erano, all’origine, del tutto equilibrati”. Poi si passa all’analisi, anzi alla demolizione, del libro ‘Cose di cosa nostra’ scritto da Falcone con la giornalista francese Marcelle Padovani pure lei nel mirino della penna al vetriolo di Viola: “E scorrendo il libro-intervista di Falcone ‘Cose di cosa nostra’ s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”.
Nel finale, Viola, pur ammettendo di trovarsi davanti ad un “valoroso magistrato” si chiede “come mai desideri essere un mediocre pubblicista”. Il giornalista ignorava che il giudice aveva intuito qualcosa: la necessità di comunicare ad una platea più vasta, da magistrato, la mentalità mafiosa. Inoculare il virus ai giovani, come come un vaccino, in maniera da renderli resistenti al fascino della cultura dell’omertà e della morte. “Non ha mai avuto una vita facile e anche stavolta c’è chi farà di tutto per rendergliela difficile”: qualche giorno dopo, dalle colonne della stessa Repubblica, qualcuno scriveva questa frase, riferendosi a Giovanni Falcone. Quel qualcuno si chiamava Giuseppe D’Avanzo.

Curiosa la storia di questi articoli che scompaiono dagli archivi, vero? E sembra scomparso anche l’articolo, sempre di Sandro Viola, del 20 gennaio 2002 di cui si parla qui, e a cui qualcuno ha risposto con la testimonianza riportata qui, e pure un autentico distillato di antisemitismo del 10 ottobre 1982. Tutti gli altri articoli si trovano, e questi no. Misteri della rete…

barbara

L’IRAN NON RINUNCERÀ MAI AL NUCLEARE, PAROLA DEL REGIME


Si aprono oggi a Baghdad i negoziati per cercare di trovare una soluzione negoziale al programma nucleare iraniano. Il Gruppo del 5+1 e i negoziatori iraniani, si ritroverranno quindi nella capitale irachena per trovare una via d’uscita a questa drammatica crisi. Purtroppo, al di là di come si risolverà questo round negoziale, il risultato politico sarà lo stesso: l’Iran riuscirà a guadagnare altro tempo utile per continuare ad arricchire l’uranio ed uscire, ancora una volta, dall’isolamento internazionale. Teheran, infatti, non ha alcun interesse di rinunciare al suo programma nucleare militare e la dimostrazione sta nelle parole dei membri del regime. L’Occidente, quindi, si sta riempiendo di illusioni e le conseguenze, purtroppo, saranno irreversibili

Le affermazioni dei dirigenti iraniani

A livello internazionale e nelle agenzie di stampa in lingua inglese, i dirigenti e i media iraniani evidenziano costantemente la pacificità del programma nucleare del loro Paese e ricordano, in ogni occasione, la supposta fatwa emessa da Ali Khamenei contro le armi nucleari. Lasciando stare, per ora, il tema della fatwa (una vera e propria bufala), vogliamo qui ricordare qualche affermazione di diversi dirigenti iraniani, dimostrando come in Iran sia ben chiara la finalità ultima del programma nucleare.

– 14 dicembre del 2001, parla l’ex Presidente iraniano Ali Akbar Rafsanjani: “l’uso della bomba atomica contro Israele ne provocherebbe una distruzione totale. La stessa cosa contro il mondo islamico provocherebbe solo qualche danno. Questo scenario non è inconcepibile”;

– 14 febbraio del 2005, parla l’Ayatollah Mohammad Baqir Kharrazy, Segretario di Iran Hezbollah, ripreso dal Iran Emrooz: “Noi [l’Iran N.d.A] siamo in grado di costruire una bomba atomica e presto lo faremo. Noi non dobbiamo avere paura di nessuno. Gli Stati Uniti non sono altro che un cane che abbaia”;

– 29 maggio del 2005, parla l’Hojjat ol-Islam Gholamreza Hasani, Rappresentante personale della Guida Suprema Ali Khamenei presso la provincia dell’Azerbaijan Occidentale. Nell’occasione, Hasani dichiarò che l’arma nucleare rappresentava l’obiettivo principale dell’Iran, evidenziando che “il Corano ha detto ai mussulmani di essere forti e accumulare tutte le forze a disposizione a tale scopo”;

– 19 febbraio del 2006, un sito iraniano vicino all’ala riformista riportava le parole di Mohsen Gharavian, teologo di Qom e molto vicino all’Ayatollah Mohammad Taqi Mesbah-Yazdi, mentore spirituale di Mahmoud Ahmadinejad. Gharavian dichiarava che, per l’Iran, era “solamente naturale” possedere armi nucleari. Anzi, in un libro, l’Ayatollah Yazdi ha scritto proprio che l’ “Iran deve possedere armi nucleari“.

Con i negoziati l’Iran inganna l’Occidente, ecco le prove

Lo abbiamo ribadito più volte, la diplomazia iraniana è fatta di inganni, doppi giochi e sotterfugi. Lo abbiamo sempre chiaramente dimostrato ma, nel caso ce ne fosse bisogno, vogliamo riportare qui, due importanti dichiarazioni che riprovano quanto stiamo dicendo. (continua)

Ci chiamano cassandre, le anime belle, quando alziamo il nostro grido d’allarme. Dimenticando un piccolo dettaglio: Cassandra non ha mai sbagliato una profezia.

barbara