FATTO MARGINALE

Nei disordini siriani un tale viene rapito. Per la precisione un cristiano. Viene chiesto un riscatto. Il suo parroco greco ortodosso, padre Fadi Jalil Haddad prende il riscatto, un accompagnatore e va a cercare di liberare il parrocchiano. Ma viene rapito pure lui e l’accompagnatore. Viene chiesto un riscatto che, fatti  i calcoli, risulta essere superiore a 550.000 euro. nessuno, né la famiglia, né la chiesa sono in grado di pagare questa cifra.
Così i cadaveri dei tre rapiti vengono ritrovati uccisi in modo barbaro. Il sacerdote è stato scalpato e gli sono stati strappati gli occhi. Lo riconosce il rettore di un’altra parrocchia che non vuole neppure essere nominato, tanta è la paura.
Il Patriarca Ignazio IV Hazim celebra il funerale. Durante il funerale viene fatta esplodere una bomba. Due civili sono uccisi ed anche parecchi militari.
Il sacerdote era nato nel 1969. Aveva studiato teologia a Damasco e in Libano. Si era poi sposato ed era stato ordinato sacerdote nel 1995.
I comunicati ufficiali affermano che il sacerdote non aveva preso posizione per nessuna delle parti in conflitto. E aveva cercato di aiutare tutti.
È evidente che il timore dei cristiani in Siria per la propria incolumità, dopo questi fatti, sta aumentando.
Liberamente tratto da orthodoxie.com e da orthodoxologie.blogspot.com, sito che pubblica anche un lungo comunicato del patriarcato greco ortodosso.
I greco ortodossi in Siria sono circa 500.000.
Scusate il disturbo.
Xenia Gandini (qui)

Come ha giustamente titolato l’autrice della lettera, deve proprio trattarsi di un fatto marginale, addirittura insignificante, visto che nessuno dei nostri mass media, a quanto pare, ha ritenuto che potesse meritare almeno un trafiletto. Così come assolutamente irrilevanti sono le informazioni sull’assalto al consolato di Bengasi, e solo perché siamo paranoici ci siamo messi in testa che abbiano invece una qualche importanza.

barbara

NON FINITO

Ogni mattina preparo i miei abiti. Li distendo sul letto come si fa con i morti. Gli abiti di sempre, camicia bianca, giacca e pantaloni neri, cravatta nera. Un fazzoletto, bianco. Calze nere. Una kippà, nera. Fuori dai vetri intanto corrono via i mesi, se ne vanno lentamente le stagioni. Giorni di pioggia, giorni rotolati di vento ma questi abiti mi rimangono addosso come la pelle al soldato. Modè, berakot, ogni mattina. Sul letto rimane un fazzoletto bianco. Mi servirebbe, per certo, ma io sono un uomo in parte, inconcluso. Forse ogni ebreo lo è o meglio forse, lo dovrebbe essere.

Se mi dimenticherò di te Gerusalemme, possa la mia destra rimanere paralizzata, possa la mia lingua attaccarsi al palato. Ogni giorno della vita mi sono privato, impoverito, completato appunto; mi sono reso incompiuto, di lutto e nel pianto.
C’è un aneddoto hassidita che ricordo spesso a me stesso; racconta di un vecchio che lamentava straziandosi, e piangeva come chi non sa riannodarsi alla vita, ed a questo aggiungeva una figura miserevole, cencioso, polveroso, e senza denti. – Di che piangi- gli chiese un rabbino che passava di lì. – Piango per la distruzione del Tempio – rispose il gemebondo. – Meglio sarebbe tu piangessi peri tuoi denti! –
Ah, ben lo so, ma a me cosa manca? Ho ancora tutti i denti io. Io lavoro, mi considero di discreta salute, non mi lamento certo; sono stato sposato ho avuto una figlia ora lontana, nascosta in una vita altrove. Fuori dalla finestra spio la gente camminare e mi figgo nei loro pensieri. Leggo le loro miserevoli commedie del quotidiano, il daffare del sopravvivere, la fatica di una vita scomposta perché lontana dalla nostra legge; e continuano. Continuano a vivere. Anche senza D-o, lontani da D-o o scivolati nelle esecrabili eresie dei millenni.
Io ogni mattina abbandono quel fazzoletto sul letto, testimone muto del dolore antico, della yod mancante; e porto sulle spalle quest’abbozzo che ho chiamato vita e che presto avrà compimento.
Da sempre lascio sul desco un cibo; domani lo mangerò con altro cibo ed altro lascerò al giorno successivo. Ch’io mai mi alzi da tavola col piacere della sazietà. Così sono io, non finito. Né mai ho voluto condividere con altri questo mio segreto proposito di manchevolezza; serbato anche alla famiglia, quando famiglia c’era fra queste mura. La bambina rideva da una stanza all’altra correndo e Rachele custodiva il suo giuoco. Rachele.
Se ne è andata molti anni fa. Chiese il divorzio ed io lo concessi. – Non voglio trascinare la mia vita con quest’uomo triste, come un apostrofo. – disse; ed io che pur compresi il senso del suo lamentare, non ne feci altra creanza, anzi la lasciai andare, la scorsi camminare seguendo il muro della cantoria verso il giardino dove partivano i treni e lì partì con loro.
Mi sentii mutilato nel profondo di questo sudario che ostinatamente continuo a chiamare anima e resi al profondo la porzione di me.
Da questa finestra vedo ancora il muro della cantoria, ricordo si fermò a calzare una scarpa appoggiando la mano destra alle pietre. In quel momento si voltò, per un attimo, sembrava triste, proprio come me.
Mia figlia è lontana, oltremare, – Meglio frangere i sogni su qualche scoglio, che contare il porfido che dalla casa porta alla piazza e dalla piazza al Tempio -, mi diceva.
Così sono questi tigli, nessun legame con la tradizione.
– Non credo, semplicemente non credo. – e in quel suo vociare mi confusi e non ebbi risposte da dare, se non un ostinato silenzio.
Così quel giorno accompagnai la sua corsa con la mia preghiera. Per quanto possa servire correre. Quando vidi lontano il suo profilo disfarsi nel caldo della strada salii il fresco delle scale. Spezzai una fetta di pane in due parti, una per mia figlia infelice d’esilio, l’altra per me. Mia figlia che dall’esilio non ha mai fatto ritorno. Io no davvero, non sono come loro. Io tornerò a Sion, da dove sono venuto.
Senza occhi né mani, portatore umile di pietre e di calce. Ogni mattina preparo i miei abiti. Talled, tefillin. Mi ricongiungo con le vene al sacro, con il cuoio mi lego al Signore. E se questa carcassa fu abituro al dolore ebbene io del dolore me ne privai, ricacciandolo nel profondo, da dove emerse come materia infetta per sottomettermi. Rachele! Rachele, ti ho mutilata dalle mie giornate, rescissa come uno stolone, lasciata a fecondare altre terre, senza nemmeno bagnarti della mia rugiada.
Brindo col mio vino, in silenzio, alla tua vita gloriosa nel mondo nuovo, mentre qui gli anni trascorrono senza mutamenti.
Io sono qui mancante a me di me, riparo vetri con carta pergamina e forse oggi sembreresti anche tu una ulcerata e stanca oleografia.
A volte mancano i giorni, lasciati a macerare altrove, che qualcuno viva d’avanzo al mio ritrarsi. Così mi faccio povero di vanto, ricco d’ogni lascito.
E figlia senti, tu che da lontano, pensi tuo padre grigio mestatore di pagine, sopravvissuto per celia ai secoli, considera ora ciò che tornerai, quando le ventidue lettere di te avranno compiuto loro scrittura.
Io per mestiere traduco. Trasformo la parola viva in lingue morte. Mi faccio interprete di un futuro tetro, il solco nero nella neve e guardo il muro della cantoria e la finestra con le colonnette ritorte, dove fuggiva il coro per l’aria grigia d’autunno. E scrivo, e colo questo miele nero che mi fa dolce ed aspro e qui deliro, privato a volte della mia ragione.
Eppure a volte, nelle ore quiete, quando la luce del giorno si spegne sulle carte, sugli inchiostri luccicanti, mi rannicchio nel manto, e lascio che i fantasmi vengano a vegliare il mio riposo; e chiedo loro dei paesi lontani, e delle frenesie dei loro piccoli mondi, delle attese che concedono alla pace, dell’anime sospese, e con pietà, come si conviene, mostro loro l’immutabile tenacia del cosmo.

Israel Eliahu

Questo fa parte di quelli che io chiamo i suoi racconti onirici. Che non sono da penetrare con i neuroni, ma da lasciar penetrare nelle proprie cellule, a poco a poco, rilettura dopo rilettura, fino a farne parte integrante di sé. E allora sarà tutto chiaro. Perché è con la pelle, con la carne, con il sangue, con le ossa, e non con le circonvoluzioni cerebrali, che possiamo percepire il dolore altrui.
Shabbat shalom

barbara

PAPÀ PEDOFILO, MA È COLPA DELLA MAMMA

Bambini contesi: padre indagato per pedofilia, ma è colpa della mamma

Inserito da CCDU Minori
il 17 ottobre 2012

(Comunicato stampa)

Padova. Scoppia oggi il terzo caso a Padova di una mamma che rischia l’allontanamento del figlio con l’accusa di alienazione genitoriale sebbene il padre sia indagato per pedofilia e accusato di abusi sessuali dal figlio della donna, da una sorellastra e da una cuginetta. Dopo un lungo incidente probatorio le accuse sarebbero “precise e circostanziate”, eppure il tribunale dei minorenni prospetta la possibilità di un riavvicinamento al padre con possibilità di collocazione in una casa famiglia. E qui l’avvocato della mamma, Francesco Miraglia, attacca ritenendo vergognoso il fatto che si prospettino queste soluzioni senza il necessario approfondimento.
Questo è il terzo caso nell’area di Padova, dopo quello del bambino di Cittadella e quello della mamma di Camposampiero, due casi che incredibilmente vedono coinvolto lo stesso psichiatra. Ci auguriamo che lo psichiatra venga denunciato per i reati che ha commesso nei confronti del bambino partecipando attivamente alla sottrazione violenta. Ricordiamo per inciso che questo psichiatra è già noto come il consulente di parte che ha dichiarato incapace di intendere e volere un uomo che aveva ucciso la moglie a badilate.
E questi casi sono solo la punta dell’iceberg. Da anni denunciamo che 4 su 5 dei 32.000 bambini ospitati nelle case famiglia con una spesa per bambino dai 100 ai 300 euro al giorno, sono stati sottratti senza motivazioni gravi o accertate e sono orfani di genitori in vita. E da anni denunciamo che circa 950.000 bambini sono “orfani” di uno dei due genitori a causa dell’impedimento doloso della cura filiale posto in essere da uno degli ex coniugi. Ma sono anche anni che denunciamo questi episodi di “deportazione” violenta dei bambini che sono ormai all’ordine del giorno. Ricordiamo tutti il caso di Basiglio, ma per esempio nella Provincia di Trento due anni fa un caso era salito all’onore delle cronache per i metodi violenti dell’allontanamento, e nessuno è stato punito per quei reati. Ora solo un mese fa due genitori hanno riferito al Garante per l’infanzia di Trento della sottrazione violenta da parte delle autorità di tre dei loro figli. Purtroppo questi crimini e ingiustizie occorrono con troppa frequenza ed è ora di dire basta.
È ora di mettere l’attenzione sul sistema della giustizia minorile italiana. Il Tribunale dei minorenni è stato istituito da un Regio decreto del 1934 e viola le leggi costituzionali del diritto alla difesa e al contraddittorio. La giustizia è delegata alle perizie degli psichiatri e degli psicologi che, come nei tre casi di Padova, spesso non sono in grado di accertare la verità e non sanno proporre soluzioni che non siano invasive e irrispettose dei diritti umani. Ed è persino inutile parlare dei servizi sociali. Centinaia e migliaia di casi dimostrano che è necessaria una riforma urgente.
Ebbene alla Camera e al Senato queste riforme ci sono. C’è un DDL che richiede un vero affido condiviso, vari disegni di legge per l’abolizione del Tribunale dei minorenni e l’istituzione di Sezioni specializzate per la famiglia che prevedono la rimozione dei giudici onorari (psichiatri e psicologi) dai tribunali. C’è persino un DDL che chiede di affidare le funzioni giudiziarie alla polizia minorile togliendo qualsiasi funzione giuridica ai servizi sociali che tornerebbero alla loro originale funzione di assistenza sociale. Molti studiosi, giuristi, attivisti dei diritti umani hanno partecipato alla stesura di queste leggi che possono essere migliorate ulteriormente, ma che devono essere approvate velocemente. I bambini non possono più aspettare. Basta parole e proclami elettorali, la politica deve rimboccarsi le maniche e approvare velocemente le riforme. (qui)

Ricevo e pubblico senza commenti, perché non credo proprio che siano necessari.

barbara

GIUSTIZIA PER UN GIUSTO, FINALMENTE

Il Dreyfus portoghese

di Kevin Zdiara • mercoledì 24 ottobre, 2012

Nel 1894, il capitano ebreo Alfred Dreyfus fu ingiustamente condannato per tradimento da parte di un tribunale militare francese antisemita. Occorsero 10 anni prima che l’ingiustizia fosse corretta. Il mondo ricorda Dreyfus. Ma bisognerebbe ricordare anche l’ufficiale ebreo Artur Carlos de Barros Basto, ingiustamente condannato da un tribunale militare portoghese anti-semita nel 1937. Per correggere l’ingiustizia subita da Barros Basto ci è voluto molto di più. Il governo portoghese ha revocato la condanna solo quest’anno.
         
Barros Basto nacque in una famiglia cristiana nel 1887. Quando aveva nove anni, suo nonno gli disse che la famiglia apparteneva ai cosiddetti “cristãos novos,” ebrei costretti a convertirsi al cristianesimo nel 15° secolo, ma che segretamente continuavano a praticare il giudaismo. Barros Basto crebbe a Porto, nel nord del Portogallo, dove frequentò l’accademia militare. Da giovane combatté nella rivoluzione che portò all’istituzione della prima Repubblica del Portogallo nel 1910; fu il primo a sollevare la bandiera della nuova repubblica nella piazza della città di Porto. Durante la prima guerra mondiale prestò servizio come tenente, comandante del Corpo portoghese, e ricevette la Croce di Guerra al valore militare.
Quando tornò dalla guerra, il suo interesse per le sue radici ebraiche aumentò e cominciò a studiare da solo l’ebraismo e la lingua ebraica. Non c’era comunità ebraica a Porto, e la piccola comunità ebraica di Lisbona lo rifiutò come estraneo. Dovette recarsi in Marocco per sottoporsi a sua conversione formale rituale all’ebraismo. Tornato a Lisbona dopo la conversione, tuttavia, fu accettato, e sposò Lea Azancot, figlia di un ricco membro della comunità.
Nel 1921 Barros Basto tornò con la moglie a Porto, dove iniziò a lavorare instancabilmente per costruire una comunità ebraica. Nel 1923 registrò ufficialmente la comunità ebraica di Porto. Fondò la rivista ebraica Há-Lapid, che pubblicò dal 1927 al 1958. Nel 1929 fondò la Yeshiva Rosh Pinna di Porto e la sinagoga Mekor Haim. Cinquecento anni dopo che l’Inquisizione portoghese aveva distrutto la vita ebraica a Porto, Barros Basto quasi da solo vi ricostruì una piccola comunità ebraica.
Barros Basto costruì Mekor Haim convincendo il Barone Edmond de Rothshild di Francia ad acquistare i terreni per la sinagoga e la ricca famiglia sefardita Kadoorie, di Hong Kong, a finanziare la costruzione.

Tra gli ospiti all’inaugurazione della sinagoga il 6 gennaio 1938 c’erano i rappresentanti delle comunità ebraiche di Londra e Berlino e Israël Levy, rabbino capo di Francia. Levy, nel suo discorso, osservò che Barros Basto era “riuscito a creare un slancio di simpatia ed entusiasmo in tutti i paesi della diaspora.” Nell’anno in cui le sinagoghe tedesche furono vandalizzate e distrutte nella Notte dei Cristalli, un nuovo luogo di culto ebraico apriva le sue porte in Portogallo.
Barros Basto considerava una delle sue missioni più importanti quella di riportare al giudaismo i “cristãos novos” dalle aree rurali del Portogallo. Ma la sua preoccupazione per gli ebrei e la vita ebraica non è mai stata limitata al solo Portogallo. Un aspetto che è stato spesso trascurato sono stati i suoi sforzi per salvare gli ebrei provenienti da tutta l’Europa alla fine degli anni Trenta e nei primi anni Quaranta. Era, come lo chiamava lo studioso tedesco Michael Studemund-Halévy, l’ “apostolo dei rifugiati” e personalmente coinvolto nel salvataggio di centinaia di profughi dalla Germania, Austria, Francia, Polonia e molti altri paesi.
Tra la fine del 1920 e i primi anni 1930 aveva creato una rete di contatti a livello europeo. Barros Basto iniziò a corrispondere con i leader delle comunità sefardite in tutta Europa. Uno fu Paul Goodman del Comitato dei marrani di Londra; ad Amburgo contattò la nota famiglia sefardita Cassuto, che nel 1933 fuggì a Porto. Barros Basto era particolarmente preoccupato per la sorte degli ebrei tedeschi, e il suo successo nella rinascita della vita ebraica a Porto suscitò interesse tra molti leader ebrei tedeschi. Oltre ad Alfred Klee, vice presidente della comunità ebraica di Berlino, c’era il direttore dell’Istituto israelita di Berlino, Ismar Elbogen, entrambi assidui visitatori a Porto. Barros Basto fu anche in stretto contatto con la comunità della famosa “Sinagoga occidentale” a Francoforte e con i membri della comunità ebraica di Stoccarda.
Così quando l’antisemitismo in Germania divenne più violento e più potente, questi contatti aiutarono decine di ebrei tedeschi a fuggire al porto sicuro di Porto. E il capo della comunità ebraica di Porto Barros Basto, oltre a provvedere all’integrazione dei profughi nella comunità ebraica sefardita di Porto, assicurò posizioni di rilievo all’interno della comunità e contribuì anche ad affittare lo spazio per una sinagoga askenazita a Porto. Durante la seconda guerra mondiale fu Barros Basto a stabilire un capitolo locale del Joint Distribution Committee a Porto per organizzare il sostegno umanitario alle migliaia di profughi ebrei alloggiati a Porto e in piccoli villaggi nelle vicinanze.
Ma tutte queste attività suscitarono i sospetti delle autorità portoghesi. Nel 1933 António Salazar aveva instaurato una dittatura corporativista, strettamente legata alla Chiesa cattolica. Le critiche di Barros Basto all’Inquisizione portoghese, il suo supporto dei principi liberali, il suo attivismo ebraico e la sua attività di massone, ne fecero il bersaglio della PVDE, la polizia segreta portoghese. Già nel 1935 le autorità portoghesi si servirono di un’accusa di presunte molestie sessuali nei confronti di alcuni studenti della yeshiva per chiudere immediatamente la yeshiva.
Poi, nel 1937 fu processato davanti a un tribunale militare e il 12 giugno riconosciuto colpevole di aver commesso “atti immorali”. L’accusa principale era che aveva compiuto circoncisioni sui suoi studenti della yeshiva, e quindi non aveva la “capacità morale” di servire nell’esercito portoghese. Questo fu sufficiente per condannare Barros Basto e spogliarlo dei suoi gradi militari. Perse la sua pensione, l’assistenza sanitaria, non gli fu permesso di indossare l’uniforme, fu ostracizzato e dovette dimettersi dal suo incarico nella comunità ebraica che aveva contribuito a costruire.
Mentre il suo processo ricorda molto quello dell’ufficiale francese Alfred Dreyfus, condannato in Francia a causa di antisemitismo nel 1894, c’era anche una differenza fondamentale. Nel caso di Barros Basto non ci fu un Émile Zola, a difendere pubblicamente l’accusato, e non vi fu alcun segno pubblico di solidarietà con Barros Basto. Al contrario, la condanna scosse profondamente la piccola comunità ebraica portoghese, e portò all’emigrazione e un costante declino.
Fino alla sua morte nel 1961 Barros Basto provò in tutti i modi ad essere reintegrato nell’esercito ma non vi riuscì e morì amareggiato. Anche dopo la caduta della dittatura, nel 1974, la famiglia di Barros Basto non riuscì ad ottenere un nuovo processo. Ma la figlia e la nipote di Barros Basto non si sono arrese, e alla fine nel febbraio 2012 una commissione parlamentare ha adottato all’unanimità una relazione che ha riconosciuto lo sfondo antisemita  della sentenza e ha chiesto una riabilitazione di Barros Basto. Successivamente, alla fine del mese di luglio, il Parlamento portoghese ha seguito il consiglio e ha ufficialmente reintegrato Barros Basto nell’esercito.
Questo, finalmente, ha corretto un errore storico e, anche se troppo tardi, restituisce la dignità e l’onore di un uomo che dovrebbe essere ricordato come un vero tsaddik.

Kevin Zdiara è uno scrittore freelance, collaboratore frequente del blog tedesco “L’Asse del Bene“, e uno studente di dottorato in filosofia alla Max Weber Centro Studi culturali e sociali a Erfurt, Germania. (qui, traduzione mia)

Correggere gli errori è indubbiamente molto più lento e faticoso che commetterli. È tuttavia di qualche conforto poter constatare che, almeno qualche volta, tali correzioni avvengono.

barbara

IL DRAGO COME REALTÀ

Ossia che cosa rappresenta il drago, quale realtà, quale vissuto è stato trasfuso in questa immagine fiabesca. E nella strega, nella fata, nell’orco, nell’eroe… E quali reazioni biochimiche vengono innescate dai racconti che contengono tali figure. (E, a proposito, ci siamo mai chiesti come mai Cenerentola possa essere riconosciuta unicamente dalle dimensioni del piede?) Con qualche incursione nella storia, nella psicologia, nella medicina. E con un accenno, che non fa mai male, al cosiddetto complesso di Edipo, delirante invenzione di un medico psicopatico col cervello spappolato dalla cocaina, cui le pazienti tentavano di raccontare gli atroci abusi sessuali subiti in famiglia e lui si immaginava che tali racconti nascondessero il desiderio inconscio di farsi scopare dal paparino.
E con un messaggio personale di Silvana De Mari agli Orchi.

Ho un messaggio personale per gli Orchi.
Ho un messaggio personale per gli Orchi e per tutte le nutrite cerchie che sempre li circondano e li sostengono.
Ho un messaggio personale per tutti quei feroci individui che osano minacciare la nostra libertà di pensiero.
Non vi illudete.
Noi siamo gli Uomini Liberi.
Quando il buio ci circonderà noi avremo con noi i nostri eroi. Noi ci racconteremo le storie di Ulisse, Re Artù, Orlando, le storie di Gandalf, Aragorn, e non avremo paura.
O forse ne avremo, perché noi non siamo grandi eroi, siamo tizi qualsiasi come Frodo e Sam, ma andremo avanti lo stesso.
Come loro pieni di paura metteremo un passo dopo l’altro o non ci fermeremo.
Noi amiamo la vita.
«Viva la muerte!» urlavano i falangisti.
«Noi amiamo la morte » hanno scritto gli attentatori di Madrid, e hanno avuto ragione: la vita di coloro che vivono senza libertà è talmente ignobile e miserabile, che è per loro inevitabile amare la morte.
Noi che amiamo la vita abbiamo paura, e proprio perché abbiamo paura, perché amiamo la vita combatteremo quelli che non hanno paura perché amano la morte.
Non vi illudete. Noi siamo il Popolo degli Uomini Liberi.
Anche se ha tremato di paura, il Cavaliere Solitario non si arrende mai.
Orchi, avete perso.

E speriamo che abbia ragione.

Silvana De Mari, Il drago come realtà, Salani

barbara

I PECCATI DELLE DONNE

In uno shtetl arriva un predicatore, un baldarshon, e tutta la popolazione maschile godeva ad ascoltare le sue dotte prediche, le sue argute osservazioni, le ingegnose divagazioni e i suoi toccanti raffronti.
Andarono dal baldarshon tre donne: la moglie del rabbino, la moglie del dayan e la moglie dello shokhet, e dissero:
“Perché predicate sempre agli uomini, forse che la sapienza è riservata esclusivamente a loro? E se pensate che le donne non siano in grado di ricompensarvi, eccovi in anticipo tre monete da cinquanta copechi.”
Il baldarshon accondiscese a predicare anche alle donne.
Il Sabato dopo pranzo le donne si riunirono in sinagoga nella galleria superiore. Il baldarshon così iniziò la sua predica:
“Vi racconterò una storia. In uno shtetl visse una donna. Visse la sua vita e poi morì. Morì e le fecero il funerale. Il giorno seguente andò dal rabbino lo shames e gli disse che il corpo di quell’ebrea era stato scagliato fuori dalla tomba. Il rabbino cominciò a guardare nei Sacri Testi e trovò che se una donna ebrea durante la cottura del pane avesse trascurato di benedire la pasta e non avesse separato una khala, allora come punizione, dopo la morte la terra non vorrà accoglierla. Cosa fare con la defunta? Il rabbino ordinò che fosse arsa. Organizzarono accanto alla tomba una pira, buttarono il corpo nel fuoco. Ma quello non bruciò.
Il rabbino riprese a sfogliare i Sacri Testi e trovò che quella donna aveva evidentemente infranto la disposizione divina della preghiera sulle candele del Sabato. Nei Testi è scritto che per una donna che infranga questa disposizione non ci sarà fuoco che vorrà accoglierla dopo la morte.
Cosa fare con la defunta? Il rabbino ordinò di gettarla in acqua. Legarono alle braccia e alle gambe quattro grandi pietre e la gettarono nell’acqua. Ma il corpo subito riemerse e un’onda lo gettò sulla riva. Tornò, il rabbino, a consultare i Sacri Testi e disse: ‘Questa donna ha infranto la disposizione divina del bagno rituale obbligatorio, la mikve, e per questo neanche l’acqua la vuole’.”
A quel punto le donne che si erano riunite cominciarono a piangere forte, prorompendo in lamenti. Ma il baldarshon, alzate le braccia al cielo, le rassicurò terminando la sua predica con le seguenti parole:
“Voi tutte, in quanto onorate e devote figlie di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non avete nulla da temere se vi atterrete a tutte le leggi e alle ingiunzioni divine, e in tal caso sappiate che la terra vi inghiottirà, il fuoco vi brucerà e nell’acqua affogherete. Amen!” (da “Racconti di rabbini”)

E dunque vi raccomando, care sorelle: se volete essere sepolte, bruciate, affogate, rispettate le regole! Parola di rabbino.

barbara

LE ALTRE RACHEL

giovedì 30 agosto 2012

Le “Rachel” dimenticate

La sentenza del tribunale di Haifa che sostanzialmente ha riconosciuto la colpevolezza di Rachel Corrie, la cittadina americana che ha cercato e trovato la morte collocandosi davanti ad un bulldozer a Rafah, Striscia di Gaza, nel 2003, mentre cercava di impedire la distruzione di immobili usati dai terroristi come piattaforme di lancio di missili contro la popolazione civile israeliana; ci fa ricordare la diversa memoria riservata ad altre Rachel, che la morte non l’hanno mai cercata, ma l’hanno invero subita per mano delle organizzazioni terroristiche a cui era ed è affiliata l’ISM, che ha finanziato e incoraggiato il suicidio della Corrie. Queste donne non avranno mai un processo in cui sarà chiarita la responsabilità della loro morte, non beneficeranno mai del riconoscimento di un campo sportivo, di una imbarcazione, di un monumento ad esse dedicato. Forse perché ebree. Fossero state palestinesi, fossero state fiancheggiatrici del terrorismo, avrebbero beneficiato di ben diversa sorte.

– Rachel Levy (17 anni, saltata in aria in un negozio di alimentari);
– Rachel Levi (19 anni, colpita mentre attendeva un autobus);
– Rachel Gavish (uccisa con suo marito, figlio e padre mentre celebrava il pranzo di Pasqua);
– Rachel Charhi (esplosa in aria mentre era in un caffè a Tel Aviv. Ha lasciato tre figli);
– Rachel Shabo (uccisa nella sua abitazione assieme ai suoi tre figli di 5, 13 e 16 anni);
                         
– Rachel Ben Abu (16 anni, morta in una esplosione all’ingresso di un centro commerciale di Netanya);
– Rachel Kol, 53 anni, impiegata di un ospedale di Gerusalemme, uccisa assieme al marito in un attentato terroristico palestinese a luglio 2005 pochi giorni dopo l’attentato di Londra;
– Rachel Sela, 82 anni, uccisa il giorno prima della festività del Purim il 4 marzo 1996, quando un attentatore suicida palestinese si fece esplodere al Dizingoff Center, Tel Aviv;
– Rachel Tajgatrio, 83 anni, rimasta vittima dell’esplosione di due bombe al mercato “Machaneh Yehuda” di Gerusalemme il 30 luglio 1997;
– Rachel Thaler, 16 anni, di Ginot Shomron, morta in seguito alle ferite riportate dopo l’attentato terroristico palestinese del 27 febbraio 2002, che fece 3 vittime e 30 feriti;
– Rachel Tamari, 61 anni, uccisa il 24 luglio 1995 dalla bomba palestinese piazzata sulla linea numero 2 del bus di Ramat Gan. assieme a 6 israeliani, mentre diverse diecine rimasero feriti;
– Rachel Drouk, 35 anni, madre di sette figli della comunità di Shilo, uccisa da un cecchino palestinese mentre partecipava ad una manifestazione il 28 ottobre 1991;
– Rachel Weiss, 26 anni, incinta e madre di tre bambini, uccisi tutti da un terrorista palestinese che scagliò contro la loro abitazione una bomba molotov il 31 ottobre 1988;
– Rachel Weiss, 69 anni, accoltellata a morte da un terrorista palestinese inviato presso la sua abitazione dallo sceicco Ahmed Yassin come prova di coraggio per l’ingresso in Hamas (3 agosto 1988);
– Rachel Munk, 24 anni, sposata da sei settimane, uccisa con il marito mentre erano in auto in un attacco terroristico il 26 luglio 1996;
– Rachel Stern, 8 anni, accoltellata a morte assieme alla madre, mentre consumavano una colazione nella loro casa di Kiryat Shmona l’11 aprile 1974. In quell’attacco per mano palestinese perirono 16 persone;

– Rachel Afita, 16 anni, uccisa da terroristi palestinesi nell’Israele settentrionale il 15 maggio 1974;
– Rachel Lev, 50 anni, uccisa da un attentato terroristico palestinese il 23 ottobre 1969, quando cinque bombe furono fatte esplodere ad Haifa, uccidendo sette persone, fra cui il marito e il figlio;
– Rachel Mizrachi, 38 anni, accoltellata a morte da terroristi arabi nella sua casa a Tiberiade il 2 ottobre 1939.

Fonte: Muqata Blog

(sono riportati i link ai siti che descrivono ogni assassinio)

http://ilborghesino.blogspot.it/2012/08/le-rachel-dimenticate.html

Mentre pacifisti e anime belle del pianeta levano alti lai per la complice dei terroristi che ha cercato la morte, noi, anime brutte e guerrafondai, preferiamo ricordare le vittime innocenti, che cercavano la vita.

barbara