NON FINITO

Ogni mattina preparo i miei abiti. Li distendo sul letto come si fa con i morti. Gli abiti di sempre, camicia bianca, giacca e pantaloni neri, cravatta nera. Un fazzoletto, bianco. Calze nere. Una kippà, nera. Fuori dai vetri intanto corrono via i mesi, se ne vanno lentamente le stagioni. Giorni di pioggia, giorni rotolati di vento ma questi abiti mi rimangono addosso come la pelle al soldato. Modè, berakot, ogni mattina. Sul letto rimane un fazzoletto bianco. Mi servirebbe, per certo, ma io sono un uomo in parte, inconcluso. Forse ogni ebreo lo è o meglio forse, lo dovrebbe essere.

Se mi dimenticherò di te Gerusalemme, possa la mia destra rimanere paralizzata, possa la mia lingua attaccarsi al palato. Ogni giorno della vita mi sono privato, impoverito, completato appunto; mi sono reso incompiuto, di lutto e nel pianto.
C’è un aneddoto hassidita che ricordo spesso a me stesso; racconta di un vecchio che lamentava straziandosi, e piangeva come chi non sa riannodarsi alla vita, ed a questo aggiungeva una figura miserevole, cencioso, polveroso, e senza denti. – Di che piangi- gli chiese un rabbino che passava di lì. – Piango per la distruzione del Tempio – rispose il gemebondo. – Meglio sarebbe tu piangessi peri tuoi denti! –
Ah, ben lo so, ma a me cosa manca? Ho ancora tutti i denti io. Io lavoro, mi considero di discreta salute, non mi lamento certo; sono stato sposato ho avuto una figlia ora lontana, nascosta in una vita altrove. Fuori dalla finestra spio la gente camminare e mi figgo nei loro pensieri. Leggo le loro miserevoli commedie del quotidiano, il daffare del sopravvivere, la fatica di una vita scomposta perché lontana dalla nostra legge; e continuano. Continuano a vivere. Anche senza D-o, lontani da D-o o scivolati nelle esecrabili eresie dei millenni.
Io ogni mattina abbandono quel fazzoletto sul letto, testimone muto del dolore antico, della yod mancante; e porto sulle spalle quest’abbozzo che ho chiamato vita e che presto avrà compimento.
Da sempre lascio sul desco un cibo; domani lo mangerò con altro cibo ed altro lascerò al giorno successivo. Ch’io mai mi alzi da tavola col piacere della sazietà. Così sono io, non finito. Né mai ho voluto condividere con altri questo mio segreto proposito di manchevolezza; serbato anche alla famiglia, quando famiglia c’era fra queste mura. La bambina rideva da una stanza all’altra correndo e Rachele custodiva il suo giuoco. Rachele.
Se ne è andata molti anni fa. Chiese il divorzio ed io lo concessi. – Non voglio trascinare la mia vita con quest’uomo triste, come un apostrofo. – disse; ed io che pur compresi il senso del suo lamentare, non ne feci altra creanza, anzi la lasciai andare, la scorsi camminare seguendo il muro della cantoria verso il giardino dove partivano i treni e lì partì con loro.
Mi sentii mutilato nel profondo di questo sudario che ostinatamente continuo a chiamare anima e resi al profondo la porzione di me.
Da questa finestra vedo ancora il muro della cantoria, ricordo si fermò a calzare una scarpa appoggiando la mano destra alle pietre. In quel momento si voltò, per un attimo, sembrava triste, proprio come me.
Mia figlia è lontana, oltremare, – Meglio frangere i sogni su qualche scoglio, che contare il porfido che dalla casa porta alla piazza e dalla piazza al Tempio -, mi diceva.
Così sono questi tigli, nessun legame con la tradizione.
– Non credo, semplicemente non credo. – e in quel suo vociare mi confusi e non ebbi risposte da dare, se non un ostinato silenzio.
Così quel giorno accompagnai la sua corsa con la mia preghiera. Per quanto possa servire correre. Quando vidi lontano il suo profilo disfarsi nel caldo della strada salii il fresco delle scale. Spezzai una fetta di pane in due parti, una per mia figlia infelice d’esilio, l’altra per me. Mia figlia che dall’esilio non ha mai fatto ritorno. Io no davvero, non sono come loro. Io tornerò a Sion, da dove sono venuto.
Senza occhi né mani, portatore umile di pietre e di calce. Ogni mattina preparo i miei abiti. Talled, tefillin. Mi ricongiungo con le vene al sacro, con il cuoio mi lego al Signore. E se questa carcassa fu abituro al dolore ebbene io del dolore me ne privai, ricacciandolo nel profondo, da dove emerse come materia infetta per sottomettermi. Rachele! Rachele, ti ho mutilata dalle mie giornate, rescissa come uno stolone, lasciata a fecondare altre terre, senza nemmeno bagnarti della mia rugiada.
Brindo col mio vino, in silenzio, alla tua vita gloriosa nel mondo nuovo, mentre qui gli anni trascorrono senza mutamenti.
Io sono qui mancante a me di me, riparo vetri con carta pergamina e forse oggi sembreresti anche tu una ulcerata e stanca oleografia.
A volte mancano i giorni, lasciati a macerare altrove, che qualcuno viva d’avanzo al mio ritrarsi. Così mi faccio povero di vanto, ricco d’ogni lascito.
E figlia senti, tu che da lontano, pensi tuo padre grigio mestatore di pagine, sopravvissuto per celia ai secoli, considera ora ciò che tornerai, quando le ventidue lettere di te avranno compiuto loro scrittura.
Io per mestiere traduco. Trasformo la parola viva in lingue morte. Mi faccio interprete di un futuro tetro, il solco nero nella neve e guardo il muro della cantoria e la finestra con le colonnette ritorte, dove fuggiva il coro per l’aria grigia d’autunno. E scrivo, e colo questo miele nero che mi fa dolce ed aspro e qui deliro, privato a volte della mia ragione.
Eppure a volte, nelle ore quiete, quando la luce del giorno si spegne sulle carte, sugli inchiostri luccicanti, mi rannicchio nel manto, e lascio che i fantasmi vengano a vegliare il mio riposo; e chiedo loro dei paesi lontani, e delle frenesie dei loro piccoli mondi, delle attese che concedono alla pace, dell’anime sospese, e con pietà, come si conviene, mostro loro l’immutabile tenacia del cosmo.

Israel Eliahu

Questo fa parte di quelli che io chiamo i suoi racconti onirici. Che non sono da penetrare con i neuroni, ma da lasciar penetrare nelle proprie cellule, a poco a poco, rilettura dopo rilettura, fino a farne parte integrante di sé. E allora sarà tutto chiaro. Perché è con la pelle, con la carne, con il sangue, con le ossa, e non con le circonvoluzioni cerebrali, che possiamo percepire il dolore altrui.
Shabbat shalom

barbara

PAPÀ PEDOFILO, MA È COLPA DELLA MAMMA

Bambini contesi: padre indagato per pedofilia, ma è colpa della mamma

Inserito da CCDU Minori
il 17 ottobre 2012

(Comunicato stampa)

Padova. Scoppia oggi il terzo caso a Padova di una mamma che rischia l’allontanamento del figlio con l’accusa di alienazione genitoriale sebbene il padre sia indagato per pedofilia e accusato di abusi sessuali dal figlio della donna, da una sorellastra e da una cuginetta. Dopo un lungo incidente probatorio le accuse sarebbero “precise e circostanziate”, eppure il tribunale dei minorenni prospetta la possibilità di un riavvicinamento al padre con possibilità di collocazione in una casa famiglia. E qui l’avvocato della mamma, Francesco Miraglia, attacca ritenendo vergognoso il fatto che si prospettino queste soluzioni senza il necessario approfondimento.
Questo è il terzo caso nell’area di Padova, dopo quello del bambino di Cittadella e quello della mamma di Camposampiero, due casi che incredibilmente vedono coinvolto lo stesso psichiatra. Ci auguriamo che lo psichiatra venga denunciato per i reati che ha commesso nei confronti del bambino partecipando attivamente alla sottrazione violenta. Ricordiamo per inciso che questo psichiatra è già noto come il consulente di parte che ha dichiarato incapace di intendere e volere un uomo che aveva ucciso la moglie a badilate.
E questi casi sono solo la punta dell’iceberg. Da anni denunciamo che 4 su 5 dei 32.000 bambini ospitati nelle case famiglia con una spesa per bambino dai 100 ai 300 euro al giorno, sono stati sottratti senza motivazioni gravi o accertate e sono orfani di genitori in vita. E da anni denunciamo che circa 950.000 bambini sono “orfani” di uno dei due genitori a causa dell’impedimento doloso della cura filiale posto in essere da uno degli ex coniugi. Ma sono anche anni che denunciamo questi episodi di “deportazione” violenta dei bambini che sono ormai all’ordine del giorno. Ricordiamo tutti il caso di Basiglio, ma per esempio nella Provincia di Trento due anni fa un caso era salito all’onore delle cronache per i metodi violenti dell’allontanamento, e nessuno è stato punito per quei reati. Ora solo un mese fa due genitori hanno riferito al Garante per l’infanzia di Trento della sottrazione violenta da parte delle autorità di tre dei loro figli. Purtroppo questi crimini e ingiustizie occorrono con troppa frequenza ed è ora di dire basta.
È ora di mettere l’attenzione sul sistema della giustizia minorile italiana. Il Tribunale dei minorenni è stato istituito da un Regio decreto del 1934 e viola le leggi costituzionali del diritto alla difesa e al contraddittorio. La giustizia è delegata alle perizie degli psichiatri e degli psicologi che, come nei tre casi di Padova, spesso non sono in grado di accertare la verità e non sanno proporre soluzioni che non siano invasive e irrispettose dei diritti umani. Ed è persino inutile parlare dei servizi sociali. Centinaia e migliaia di casi dimostrano che è necessaria una riforma urgente.
Ebbene alla Camera e al Senato queste riforme ci sono. C’è un DDL che richiede un vero affido condiviso, vari disegni di legge per l’abolizione del Tribunale dei minorenni e l’istituzione di Sezioni specializzate per la famiglia che prevedono la rimozione dei giudici onorari (psichiatri e psicologi) dai tribunali. C’è persino un DDL che chiede di affidare le funzioni giudiziarie alla polizia minorile togliendo qualsiasi funzione giuridica ai servizi sociali che tornerebbero alla loro originale funzione di assistenza sociale. Molti studiosi, giuristi, attivisti dei diritti umani hanno partecipato alla stesura di queste leggi che possono essere migliorate ulteriormente, ma che devono essere approvate velocemente. I bambini non possono più aspettare. Basta parole e proclami elettorali, la politica deve rimboccarsi le maniche e approvare velocemente le riforme. (qui)

Ricevo e pubblico senza commenti, perché non credo proprio che siano necessari.

barbara