È scesa da poco la notte, sono ancora da mio genero e mia figlia, devono essere le diciannove. Shabbat finisce. Ève, Déborah e David sono insieme in salotto, mentre io sono con Noa nella sua stanza. Le racconto un’ultima storia prima di andare a casa. I suoi grandi occhi mi divorano, attenti a non perdere una sola delle parole che le sussurro quando, all’improvviso, urla atroci invadono l’intero appartamento. Sono le mie figlie, mandano grida come non ne ho mai sentite prima, grida di spavento, grida violente come se si stesse strappando loro il cuore. Il mio si ferma. Noa, spaventata, scoppia a sua volta in singhiozzi, e io la stringo istintivamente fra le braccia come per proteggerla da un incubo… ma niente riesce a calmarle, né la mia nipotina, né le mie figlie. Allora lascio la bambina e mi precipito nel salotto. Déborah ed Ève stanno ancora gridando, entrambe per terra davanti a David, che se ne sta lì con le braccia ciondoloni, senza dire una parola per fermarle. Mi metto a gridare anch’io senza sapere perché, c’è un tale terrore nei loro occhi… E in questo panico, realizzo che mio figlio non c’è. Mi rendo conto che è l’unico a non essere lì, il peggio s’impone. Penso che Ilan è morto: ha avuto un incidente d’auto ed è morto sul colpo. Che altro?
David viene verso di me, mi prende le mani nelle sue. Le urla finalmente cessano.
– Ilan è stato rapito. (24 giorni, La verità sulla morte di Ilan Halimi, pp. 29-30)
Inizia così, in un fredda sera di gennaio, il martirio di Ilan Halimi e l’incubo dei suoi familiari. Che si protrarrà per ventiquattro interminabili giorni. Ventiquattro giorni in cui gli inquirenti metteranno in campo tutte le loro risorse per impedire la soluzione della tragedia, per evitare di mettere le mani sui criminali, per rifiutare di chiamare crimine antisemita di matrice islamica un crimine inequivocabilmente antisemita di matrice islamica. E alla fine, tanto zelante impegno arriverà a dare i suoi frutti.
È un lunedì mattina grigio e piovoso, uno di quei lunedì di febbraio che si preferirebbe trascorrere a letto piuttosto che in macchina, ma Patricia G. deve andare a lavorare, è al volante della sua Citroën. Come me, fa la segretaria. Non so se sia sposata, se abbia figli. So semplicemente che è una giovane donna di trentotto anni, nera e francese, che percorre quotidianamente la strada da Longpont a Sainte-Geneviève-des-Bois per andare in ufficio. E allora, su questo tragitto così familiare, mentre i tergicristalli spazzano via la pioggia incessante, immagino che pensi al sole del suo Camerun natale. Alla serata precedente, o a quella del giorno dopo, o alla spesa, al bucato, sì, immagino che Patricia G. sia immersa nei propri pensieri quando vede sulla sua destra, giusto prima del cartello di entrata dell’abitato di Villemoisson-sur-Orge, una forma che assomiglia ad un corpo. Per un istante pensa di stare delirando, viaggia a cinquanta all’ora, potrebbe aver visto male… La scena è così sconvolgente che guarda una seconda volta per essere sicura; sì, ciò che vede lungo la linea della RER C è effettivamente un essere umano. L’uomo – o la donna, non sa – sembra nudo e accasciato. Patricia G. non aspetta di arrivare in ufficio per telefonare: chiama subito la polizia dal suo cellulare.
Grazie alla telefonata di questa automobilista, Ilan è stato rinvenuto lunedì 13 febbraio alle otto e cinquantacinque da due poliziotti di quartiere: un uomo e una giovane tirocinante, poco più grande di lui. I due agenti lo hanno trovato nudo, ammanettato, il corpo interamente bruciato, addossato alla rete metallica che impedisce l’accesso alle rotaie. La barriera era troppo alta per essere scavalcata, si sono dovuti allontanare per trovare un accesso più facile e ritornare fino a lui da una parte più agevole. Allora hanno visto che aveva del nastro adesivo intorno alla fronte e al collo. Hanno visto che era coperto di ematomi, di bruciature, che era ferito al tendine di Achille e alla gola. Alla gola la piaga formava un buco.
Ilan respirava ancora. Debolmente, ma respirava. Non si era arreso alle fiamme. Aveva cercato di vivere. Dopo l’inferno del sequestro, dopo la paura, il freddo, la fame e il dolore, dopo i colpi di taglierino e di coltello, dopo che gli hanno dato fuoco come una torcia, ha subito il calvario «dell’ultima marcia»… Il calvario di migliaia di ebrei prima di lui.
Il poliziotto è salito sul binario per ispezionare il luogo. La giovane tirocinante è rimasta vicino a mio figlio. È rimasta con lui fino all’arrivo dei pompieri alle nove e quindici, non era ancora morto e forse poteva sentirla, sì, è quello che mi ripeto per non diventare pazza, Ilan non è morto come un cane, ha sentito la voce di questa ragazza prima di morire, una voce dolce e fraterna, è tutto ciò che posso dirmi.
Dopo parecchi arresti, il suo cuore ha cessato di battere definitivamente, e il suo decesso è stato constatato a mezzogiorno all’ospedale Cochin. «X è deceduto», ha scritto il medico, perché in quel momento nessuno conosceva la sua identità. (ibidem, pp. 86-87)
E un anno fa la ragazza che lo aveva adescato, condannata a nove anni per il suo ruolo nel sequestro, è stata liberata dopo avere scontato poco più di un anno di prigione: eh già, Adolf Hitler ce l’ha insegnato, ammazzare un ebreo non è reato.
Riposa in pace, dolce Ilan e ti accompagnino le parole che una mamma ha scritto, dopo la tua morte, alla tua mamma:
Signora Halimi, ero incinta di mio figlio quando il suo caro amore l’ha lasciata. In suo onore ho chiamato mio figlio Ilan. Mi hanno detto che in ebraico significa piccolo albero. Anche se sono musulmana, volevo mostrarle che per quanto si strappino le foglie, il tronco sarà sempre lì.
Ylan (ibidem, p.96)
E intorno a quel tronco resterà saldamente attaccato il nostro ricordo, e aleggeranno le note scritte per te.
barbara
La straziante storia di ilan Halimi dovrebbe essere studiata a scuola, sopratutto in Francia, per non dimenticare fino a dove può portare il fanatismo islamico. Invece anno dopo anno passa sempre più nel dimenticatoio. E’ una VERGOGNA!
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E invece proprio in Francia si continuano ad avere fra le peggiori manifestazioni di antisemitismo dell’intera Europa.
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Perdonami se non commento, non ce la faccio neanche a pensarle queste cose. Sono sempre stata sconvolta da come gli uomini riescano ad essere crudeli, esaltati, delirante. Sono cose che fanno vacillare anche la Fede, per chi ce l’ha.
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In effetti non è che ci sia molto da poter dire. L’unica cosa che è doveroso fare è ricordare e testimoniare.
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Come tante altre volte, Diemme ha detto la sola cosa che avrei potuto dire anch’io..
Perciò non ho letto il libro.. ma sto leggendone uno, come sai, non meno pregnante: ogni sera un capitolo.. soffro pensando a tutte le vittime della violenza, dell’odio, della crudeltà, ma arriverò in fondo, per ricordare, condividendo le testimonianze.
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Sì, certe letture rischiano di far ammalare, bisogna assumerle a piccole dosi, ma bisogna andare avanti.
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Grazie Barbara per le tue parole. La ferita della morte di Ilan resterà sempre aperta.
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La mia di ferita, non per la morte, ma per quello come ce l’hanno portato, sarà una ferita che sanguinerà in eterno.
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Sì, è quello. Se l’uccidere può avere una – sia pur perversa e sicuramente non condivisibile – parvenza di logica (sono convinta che tu sia ricca, ti rapisco per chiedere riscatto, se non pagano ti uccido così quando rapirò il prossimo i suoi parenti si guarderanno bene dal rifiutarsi di pagare), dov’è la logica nel lasciarlo nudo in uno scantinato non riscaldato in pieno inverno? Tagliuzzarlo? Bruciacchiarlo? Spaccargli le ossa? E che dire dei coinquilini che andavano ad assistere allo spettacolo? Lì c’è solo il piacere del fare soffrire, e bisogna una volta di più ricordare le parole di Mordekhay Horowitz: «Gli arabi amano i loro massacri caldi e ben conditi… e se un giorno riusciranno a “realizzarsi”, noi ebrei rimpiangeremo le buone camere a gas pulite e sterili dei tedeschi….».
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Per noi appartenenti – almeno finora – alla parte dei salvati, il dovere della memoria è il minimo che dobbiamo ai fratelli sommersi.
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Penso che per ridurre una persona in quelle condizioni bisogna essere ben preparati nel senso che o si deumanizza pensando che di fronte ci sia un essere indegno altrimenti si odia visceralmente (a livello DNA).In entrambi i casi conosciamo un “gruppo” che si è fatto proprie le due strategie (che bello essere antisemiti)
Non avendo figli non posso sapere cosa abbiano provato i genitori di Ilan ma mi viene una domanda,come possono non sentirsi autorizzati a togliere di mezzo questa feccia che gli ha portato via il figlio in quel modo?
Vendetta?………La chiamerei giustizia
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La chiamerei tutela.
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E’, e rasta come una ferita aperta per la madre,i familgliari…Una morte assurda preceduta da lunghi 24 giorni di torture accanite.
Fatti da ricordare senza giustificazioni assurde se non per quello che sono , solo terroristi assassini della peggiore feccia.
Un’ altra vittima fra tante, troppe di questo assurdo antisemitismo.
Vanno ricordati nel tempo è troppo labile e superficiale la mente di troppa gente.
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