AFGHANISTAN

Un vecchio articolo per riportare un po’ di equilibrio, rispondendo a chi temerariamente afferma che, in fondo, fra la mercificazione della donna nella nostra società occidentale e il burqa non c’è poi tutta questa gran differenza.
burqa
New York. La bambina tira giù il velo e scopre la faccia sfregiata, un occhio chiuso, l’hanno frustata con una catena da bicicletta, aveva le scarpe bianche, è un colore proibito. La donna è zoppa per le botte, per la strada un sasso le ha fatto perdere l’equilibrio, si è intravista una caviglia, l’hanno picchiata in cinque, lasciata per morta. Nello stadio la ragazza viene fatta inginocchiare, il burka le impedisce di vedere e lo tiene ben tirato, un colpo di pistola alla tempia la uccide, aveva un libro di matematica nascosto nella borsa. Anime belle del pacifismo italiano, ispirati sostenitori del relativismo culturale, femministe contro la guerra, quelli che “non abbiamo le prove”, quelli che “le donne stanno meglio lì che in questa società che che le mercifica”, quelli che “tutte le civiltà vanno rispettate”,  andate a vedere, come ho fatto io, “Beneath the veil”, dietro il velo, un documentario scarno scarno che una giornalista mezza inglese mezza afgana, Saira Shah, è riuscita a girare in cinque giorni passati in Afghanistan. Lei ha rischiato la vita a nobilitazione del nostro mestiere tanto mal ridotto, le donne afgane che l’hanno aiutata e accompagnata, che quando lei aveva troppa paura si sono prese loro la piccola telecamera, l’hanno nascosta sotto al burka,  hanno fatto un buco e sono andate a girare la loro vita quotidiana, forse non rischiano niente, sono già morte. Chiedete alle donne del Rawa, l’associazione femminile che combatte i talebani, duemila temerarie fra Afghanistan e Pakistan, che cosa pensano del pacifismo, se come donne sono per principio contrarie alla violenza, che cosa farebbero a uno dei loro torturatori se lo avessero tra le mani, che cosa farebbero se avessero delle armi.  Chiedete loro, come ho fatto io con Fatima, se odiano gli americani e li considererebbero invasori. Avrete le risposte che meritate, forse vi vergognerete.
“Beneath the veil”, dietro il velo, è prodotto dalla inglese BBC, l’americana Cnn ne ha mostrato una parte in questi giorni, andrebbe proiettato nelle nostre scuole, un sano schiaffone prima che vincano tanti cattivi maestri. La regista , accompagnata da una donna del Rawa, entra dal Pakistan, trascorre quattro giorni a Kabul, ne esce per filmare un percorso quotidiano di vita femminile. Indossa il burka, una enorme tovaglia che ti soffoca, impedisce di respirare, mette a rischio qualunque movimento. Niente più degli occhi dev’essere mostrato, le scarpe non devono emettere il minimo rumore, non si può uscire di casa se non scortate da un parente maschio. Non si può parlare a un uomo se non è strettamente obbligatorio; una donna non può lavorare, non deve studiare, non può essere visitata da medici maschi, ma non riesce più a trovare medici donne se non clandestinamente. La famiglia che la ospita è legata al Rawa, anche il capofamiglia è con loro. Faceva l’ingegnere, ora si arrangia come sarto, lavora tra le due e le cinque del mattino, unico periodo di tempo in cui c’è l’elettricità e può usare una rudimentale macchina da cucire. Il ricavato serve per comprare un po’ di cibo, niente di più. L’ospite e un accompagnatore vanno a visitare una scuola clandestina, quattro panchetti nella cantina di una casa. Gli studenti, ragazzi e ragazze, arrivano uno alla volta, a distanza di dieci quindici minuti, nel tentativo di non essere notati. Sudiano storia dell’Afganistan e geografia, scienze e matematica, tutto proibito dai talebani; le ragazze si dedicano al persiano e alla matematica, quel che serve per sopravvivere. In  ottomila andavano all’università, quarantamila a scuola, quando arrivarono i talebani, i contadini illetterati che odiavano la città, la televisione, il cinema, le risate. Sulla strada verso l’ospedale la regista e i suoi accompagnatori vengono fermati due volte, ma nessuno tocca la donna, frasi di disprezzo l’accompagnano mentre si allontana. Normale disprezzo per le donne, le spiegano, e le mostrano donne che piangono in terra, negli angoli delle strade, le hanno picchiate per qualche sconosciuta ragione. All’ospedale la camera arriva sotto i letti e nei gabinetti invasi di escrementi, sporcizia dappertutto, i malati buttati come stracci. C’è una donna anziana medico, l’unica ammessa a lavorare ai parti, gli occhi si riempiono di lacrime quando racconta com’era un tempo la città, le fontane e i giardini, le famiglie che la sera mangiavano al ristorante. La regista sta talmente male che il primo girato è inutilizzabile, deve vomitare ma come si fa con il burka; ci tornerà una ragazza del Rawa a filmare, il giorno seguente, rischiando ancora di più. Riesce bene invece il filmato allo stadio, pubblica esecuzione di prostituta. Le vedove della guerra lavorare non possono, se chiedono l’elemosina per strada vengono arrestate o picchiate a sangue, se si prostituiscono vengono messe a morte. Impiccate o, come in questo caso, un colpo alla testa davanti alle figlie, perché ricordino che una donna è impura e portatrice di peccato, l’unica sua possibilità è essere invisibile. Le bambine si vedono in giro fino ai sette otto anni, poi scompaiono, già a nove vengono vendute a un marito che le mantenga, chiuse in casa. Quando la regista torna finalmente a Islamabad, il burka se lo sente addosso per giorni e giorni, come lo sguardo dei soldati di Allah.
Fatima è in giro con il documentario per raccogliere un po’ di soldi. Le donne del Rawa che lavorano nei campi profughi in Pakistan non riescono più a stare in contatto con quelle rimaste dentro, la polizia pakistana le perseguita, le carica quando manifestano contro il regime dei talebani. Non si fidano della Northern Alliance, sono integralisti come gli altri, spiegano, l’unica possibilità di ritorno a una parvenza di civiltà, l’unica speranza di un po’ di libertà sta nel vecchio re. (Maria Giovanna Maglie ottobre 2001)
Taliban_execute_Zarmeena_in_Kabul_in1999_RAWA
Poi magari, per completare il quadro, vai a rileggere anche questo e questo.

barbara

  1. “Chiedete loro… vi vergognerete”
    Ne è passato di tempo. Non chiedono, o già sanno ma non si vergognano. Perché non sono spinti né dalla ragioone né dal cuore, ma da una serie di sordi rancori covatie non detti, e che perciò cercano solo un capro espiatorio, e che c’è di meglio per questo della lurida occidentale? Forse i più giovani, se li fai ragionare: ma presto, molto presto, o la vita rafforza la funzione in fondo consolatoria di questo nemico posticcio, come fosse fonte di ogni male, anche del più personale.

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    • Non chiedono perché non ne hanno bisogno: possiedono tutta la verità: sanno che cristianesimo uguale oscurantismo, ebraismo uguale oscurantismo, islam uguale sol dell’avvenir. Sanno che le nostre ragazze con chiappe e tette di fuori sono schiave di mode dettate dall’esterno mentre le donne in burqa massacrate se scivolando mostrano una caviglia sono l’emblema della libertà. Sanno che tutto ciò che facciamo noi è sbagliato e tutto ciò che fanno “loro” è giusto. Ora e sempre nei secoli dei secoli.

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