SEMPRE PIÙ A PECORINA

Niente bagnine a Jesolo. Gli islamici non vogliono

di Gianluca Veneziani

Avete presente le bagnine di Baywatch che correvano sulla sabbia dorata di Malibù, esibendo le loro generosissime forme strizzate in costumi rossi? Be’, dimenticatevele. A Jesolo il sindaco Valerio Zoggia, di comune accordo con la Federconsorzi, ha deciso che nella prossima stagione balneare gli steward sulla spiaggia locale saranno soltanto uomini. Niente donne, niente hostess, niente bagnine. La ragione? Le rappresentanti del gentil sesso, nella veste di controllori da litoranea, si farebbero rispettare poco da bagnanti e venditori abusivi di religione musulmana. Nella passata stagione addirittura alcuni immigrati islamici avrebbero offeso e sputato le ragazze del servizio d’ordine, che intimavano loro di rispettare le regole. «Ai loro occhi», ha spiegato il presidente della Federconsorzi Renato Cattai, «non godevano della necessaria autorità, perché i musulmani, per la loro cultura, non ascoltano le donne quando danno ordini o anche solo consigli. Anzi, si agitano e finiscono per offenderle». Quindi la morale è che, per tenere buoni i musulmani, tra l’altro venditori abusivi, il sindaco e la Federconsorzi hanno pensato bene di «far fuori» le donne. Un gran bell’esempio di democrazia e di rispetto. Della civiltà altrui, certo, mica della nostra.
La notizia appare ancor più irritante perché la spiaggia è uno dei luoghi dove si esprimono al meglio la civiltà di un popolo e la sua evoluzione nel tempo. Andare a mare in bikini, costume intero o velo integrale fa la differenza tra l’Occidente e molti Paesi musulmani e segna il discrimine tra il mondo contemporaneo e gli anni del Dopoguerra. L’esibizione del corpo in battigia e l’invenzione stessa del «due pezzi» sono stati un passaggio fondamentale nella crescita del nostro modo di considerare la donna, molto di più della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta. Dove non riuscì la liberazione dei costumi, poté la libertà di indossare il costume. Tornare a impedire alle donne di frequentare la spiaggia perché malviste dai musulmani, considerarle inadeguate al servizio d’ordine perché prive di autorità, come ha fatto il sindaco di Jesolo, ci sembra una regressione delirante, un conformarsi al pregiudizio altrui, nell’incapacità di segnare la differenza tra due civiltà, la nostra e la loro, peraltro in un luogo dove in passato si sono molte spesso scontrate: il mare.

L’ultimo paragrafo dell’articolo non l’ho riportato, perché fa vomitare (giusto per usare una delle espressioni care al femminismo storico, potrei dire che è un perfetto esempio del più becero veteromaschilismo d’accatto). Chi fosse comunque interessato a prenderne visione, potrà trovare qui l’articolo completo.

Chiarito questo, prendere a randellate sulle gengive sindaco e compagni di merende sarebbe ancora poco. E la logica è sempre la stessa: accontentare il coccodrillo, qualunque cosa chieda, nell’illusione che prima o poi sarà sazio e non chiederà più niente. Come hanno fatto con Hitler, regalandogli l’Austria, e poi un pezzo di Cecoslovacchia, e poi l’altro pezzo di Cecoslvacchia… e alla fine ci siamo ritrovati con l’Europa in macerie e decine di milioni di morti. E il primo che mi viene a dire che quella è un’altra storia, prendo a randellate sulle gengive anche lui.
Europes Future
E poi riguardati questo
Contrasti-culturali
(cliccare il link, cliccare “presentazione”, cliccare “dall’inizio”)

barbara

CARA ROSARIA APREA,

che qualcuno evidentemente deve considerare bella, dal momento che, leggo, sei una miss, anche se a me non sembrerebbe mica tanto
rosaria_aprea
(e qualcuno sicuramente dirà che la mia è tutta invidia. Lo dicono sempre, quindi non è il caso di badarci granché), avrei due parole da dirti. Ma prima, nel caso qualcuno dei miei lettori fosse stato distratto, o non avesse la memoria pronta, riporto l’articolo pubblicato dal Corriere della Sera di ieri.

CASERTA – Getta la spugna il legale che nelle ultime settimane ha assistito Rosaria Aprea, la ventenne della provincia di Caserta picchiata dal fidanzato tanto da rimetterci la milza, eppure convinta di volerlo perdonare e tornare con lui. Dopo aver ripetutamente cercato di convincere Rosaria che stava facendo la scelta sbagliata, l’avvocato Carmen Posillipo ha deciso di rinunciare al mandato. Perché il comportamento della Aprea, «collide con la mia etica professionale e con le mie strategie difensive», spiega. E per essere più chiara aggiunge: «Non voglio assistere all’anteprima di un omicidio».
Da quando la ragazza è finita in ospedale dopo essere stata presa a calci dal ventisettenne Antonio Caliendo (ora in carcere con l’accusa di lesioni gravissime e in attesa della decisione del Tribunale del riesame che proprio ieri ha affrontato il caso), l’avvocato Posillipo le è stato accanto come e più di una amica. È andata a trovarla ogni giorno, le ha parlato cercando di calmarla quando Rosaria cominciava ad agitarsi, e anche dopo che lei se n’è uscita con la storia che voleva tornare con Antonio («perché lui mi ama e cambierà sicuramente») ha continuato ad assisterla. E ha dovuto spiegarle molte cose. Per esempio che non bastava che Rosaria ritirasse la denuncia per far scarcerare Antonio, perché il reato era troppo grave e il magistrato decide autonomamente, non si basa sul perdono della vittima. Poi quando la ventenne le ha fatto capire che avrebbe rilasciato volentieri qualche intervista a pagamento in modo da avere i soldi per pagare la cauzione e far uscire il fidanzato, l’avvocato con pazienza le ha spiegato che le cose in Italia funzionano diversamente dai telefilm che Rosaria vede in tv. Ma alla fine, quando ha capito che l’intenzione della ragazza, dimessa ieri  dall’ospedale, era di andare a Casal di Principe, dove vivono i familiari di Antonio e dove c’è una casa pronta per lei, il fidanzato e il loro bambino di un anno, l’avvocato Posillipo non se l’è sentita più di continuare. (Fulvio Bufi)

Ecco, quello che voglio dirti, mia cara Rosaria, è che sono immensamente dispiaciuta. Mi dispiace veramente tantissimo che quell’impiastro del tuo fidanzato, dopo anni di allenamento a menarti, sia riuscito solo a spappolarti la milza, col bel risultato di far spendere a noi contribuenti un sacco di soldi per curarti e di condannare quella povera creatura innocente di tuo figlio a continuare a vivere con una criminale che, pur di continuare a farsi sbattere dall’energumeno, non si fa il minimo scrupolo a farlo vivere in un inferno e ad esporlo ad ogni sorta di violenze. Mi auguro con tutto il cuore che la prossima volta – perché NATURALMENTE ci sarà una prossima volta – il suo lavoro sia più accurato.

Poi, visto che ci sono, vorrei dire due parole anche alla madre di Fabiana Luzzi, 15 anni, colpita con venti coltellate e poi bruciata viva dal fidanzato, che ha dichiarato che «anche quel ragazzo è una povera vittima» (capisco che il dolore possa anche far impazzire, ma anche nel dolore dovrebbe esserci un limite all’indecenza), e all’avvocato della “povera vittima”, Giovanni Zagarese che ha provveduto a informare che il ragazzo «è molto provato»: egregi signori, sono alla ricerca di due piccoli razzi, diciamo dieci centimetri di diametro e una trentina di lunghezza. Dotati di una piccola testata nucleare. La vostra fantasia vi aiuterà sicuramente a indovinare dove ve lo dovete infilare.
fabiana-luzzi
barbara

SAHID

ovvero

L’arte della comunicazione

Un uomo d’affari deve recarsi per qualche giorno all’estero per un viaggio di lavoro.

Convoca il buon Sahid, suo fidato domestico e gli spiega la situazione:

«Vedi io devo andare all’estero per qualche giorno, mi raccomando che tutto fili liscio qui! e per qualsiasi problema chiamami!»

«Sì signore,  no preoccupare!»

 Dopo qualche giorno l’uomo d’affari, non sentendo notizie, chiama Sahid:

«Ciao, Sahid come va?»

«Tutto male!»

«Perchè cos’è successo?»

«Rotto manico di vanga.»

«Ma Sahid, mi hai quasi fatto prendere un colpo, mi dici che va male e poi si è solo rotto il manico della vanga!?»

Poi preso dal rimorso pensa che Sahid potrebbe prendersela a male e allora cerca di conciliare:

«Com’è successo?»

«Niente, sotterravo cane.»

«Ma come, il mio cane che amavo come un figlio, ma com’è successo?»

«Caduto piscina!»

«Ma Sahid: è un Terranova, il cane bagnino, come può essere annegato in piscina?»

«No acqua in piscina, e lui caduto morto.»

«Ma come, non c’era l’acqua in piscina, abbiamo fatto la settimana scorsa la pulizia e messo l’acqua per l’estate!»

«Sì ma acqua usata pompieri per spegnere incendio»

«Incendio, ma quale incendio Sahid?»

«Preso fuoco la casa!»

«La mia casa, ma com’è successo?»

«Camera ardente sua madre, c’era candela vicino tenda, tutto bruciato.»

«La camera ardente, è morta la mia mamma? Ma se abbiamo festeggiato l’altro giorno il suo 70° compleanno ed era piena di energia!»

«Sì, ma ieri notte sua madre no riuscire a dormire, andata a chiedere aiuto a sua moglie, ma l’ha vista in camera con suo migliore amigo ed è morta d’infarto.»

«Ma come Sahid mia moglie mi tradisce col mio migliore amico? Ma Sahid, resto via quattro giorni e la mia vita è sfasciata, ma non c’è proprio nulla di positivo?»

«Sì capo ricorda che altra settimana lei fatto test per AIDS?»

«Sì.»

«Ecco, … quello POSITIVO!» 

barbara

CON UN GIORNO DI RITARDO

(a causa della notizia della morte di George Moustaki)

Ricordiamo il sacrificio di Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992.
Ricordiamolo con la bellissima canzone a lui dedicata,

con un breve spezzone di un’intervista di Marcelle Padovani

e con questo video.

Non posso, infine, rinunciare a ricordare anche quel prete immondo, osceno, infame, che ha tentato in tutti i modi, per non si sa quale losco fine, di sfruttare il dolore di una vedova straziata:

barbara

EH SÌ, ERI GRANDE DAVVERO

moustaki
Quando nel febbraio del 1969 appare alla tivù francese nella trasmissione Discorama e intona Le Métèque, il brano che nella versione italiana prenderà il titolo di Lo straniero, nessuno si aspetta quanto sta per accadere. Nel giro di 48 ore la canzone sbanca gli ascolti e inizia una vertiginosa scalata alle classifiche di vendita di tutt’Europa. La casa discografica stenta a tenere dietro alle richieste, solo in Francia il brano vende 800 mila copie. Georges Moustaki è ormai una star di primo piano che per un decennio almeno incarna davvero l’immagine dello straniero. Uno straniero di gran fascino, artista e giramondo, affamato di vita e d’amori. Un personaggio che non è frutto di un accurato marketing ma rispecchia appieno la sua vocazione di cittadino del mondo. Nato ad Alessandria d’Egitto, da una famiglia ebraica originaria di Corfù il cui cognome originario è l’italianissimo Mustacchi, trapiantato a Parigi da ragazzo, Georges Moustaki è uno straniero che coniuga le sue identità in un mosaico colorato e privo di tormenti. “Sono ebreo, sono greco, sono francese, mi sento a casa in Italia: la mia è una pluridentità”, racconta nella sua bella casa parigina nel cuore dell’Ile Saint Louis nell’intervista che ha accettato di realizzare, malgrado le difficili condizioni di salute, nell’ambito della mostra Evraikì-Una diaspora mediterranea da Corfù a Trieste organizzata dalla Comunità ebraica di Trieste.
Il tema dell’identità domina molte delle sue canzoni. Per quale motivo?
Mio nonno paterno, Giuseppe, veniva dall’isola di Corfù mentre il nonno materno era di Zante. I miei parenti parlavano dunque italiano, perché quelle terre erano state sotto la dominazione veneziana. Noi vivevamo ad Alessandria d’Egitto dove sono cresciuto in un intreccio linguistico. Nelle riunioni di famiglia si usava il greco. I miei genitori conoscevano perfettamente il greco e a casa parlavano fra loro in italiano mentre noi bambini a scuola studiavamo il francese. Tra il greco e l’italiano ho scelto quest’ultimo, forse perché era più facile per via del francese.
Il metissage, l’intreccio di lingue e culture, oggi è entrato a pieno titolo nella letteratura e nella musica come nell’immaginario collettivo. Quarant’anni fa cantare quest’identità mista era invece una cosa molto nuova.
È vero, ed è il motivo per cui ha avuto successo. Per me non era affatto un problema. È la mia identità, sono così. Sono ebreo, sono egiziano, sono greco, sono francese e italiano perché parlo italiano e mi sento a casa quando vado in Italia. Tra l’altro il mio vero nome è Giuseppe … Non sono fissato con una parte sola della mia identità.
C’è voluto coraggio per dichiare di essere, come recitava il testo francese, un métèque, uno straniero, un ebreo errante e un pastore greco?
Per niente. La mia esperienza era proprio quella di essere straniero. Quando da giovane sono arrivato in Francia ho vissuto sulla mia pelle i problemi dell’immigrazione. Lavoravo illegalmente, sono stato un sans papiers per ben sette anni. Se mi avessero trovato sarei stato espulso. Per fortuna non mi è successo nulla di male, a un certo punto mi hanno fatto i documenti e tutto è andato a posto. Ma per tutto quel tempo ho avuto paura. Io parlavo francese, ero in buona salute, trovavo da lavorare. Ma penso a tutti quelli che non parlano correttamente la lingua che non hanno una protezione: è terribile trovarsi su un aereo e costretti ad andare via. Mi sento molto vicino a loro.
È mai stato in Israele?
Molte volte. Ho tenuto lì parecchi concerti e ho avuto anche una fidanzata israeliana.
Quali sono i suoi ricordi legati a Corfù?
Per me bambino era un paradiso perduto che tornava di continuo nei discorsi dei miei parenti che tra di loro parlavano anche il dialetto corfioto. Per questo a 32 anni ho deciso di andarci. Sono arrivato la mattina alle sei dall’Italia con la mia piccola macchina, mi sono fermato al porto, ho fatto colazione e quasi stavo per tornare indietro. Volevo dire ai miei genitori che ero stato lì e in fondo ci ero arrivato, no? Poi per fortuna ho incontrato una coppia di turisti greci. Li ho presi in macchina con me e abbiamo girato l’isola insieme. Sono andato nel quartiere ebraico, ho visto la casa del nonno e mi sono detto che ero arrivato a casa: per la prima volta mi sono sentito in patria. Potevo dire: ecco, da qui vengono i Mustacchi. Anni dopo sono diventato amico del sindaco e mi ha fatto vedere il registro comunale dove era iscritta tutta la famiglia. Da noi uno nasce in Grecia e muore in Egitto. L’altro nasce in Egitto e muore in Francia. Anche la morte ci trova in esilio, non si muore dove siamo nati.
Come i suoi antenati anche lei vive in un’isola, anche se un’isola assai particolare come l’Ile Saint Louis.
Abito qui da cinquant’anni. Ci ho messo dieci anni a trovare questa casa. Mi ha conquistato proprio il fatto che si trova su un’isola. Chissà, forse è la mia anima corfiota. L’importante è che sono circondato dall’acqua: ho la sensazione di trovarmi in un luogo che non fa parte della città. È come trovarsi su un battello. Da qui si può scappare ancora, con i sogni.
Ricorda della sua infanzia qualche particolare usanza ebraica?
Nella mia famiglia la parte ebraica era molto superficiale. Solo mia madre Sara andava in sinagoga, noi non eravamo molto praticanti, mio padre Nissim non lo era per nulla. Festeggiavamo solo qualche festa, di solito quelle divertenti, tipo Purim o Pesach, soprattutto con gli zii o con gli altri bambini.
Qual è il suo rapporto con l’ebraismo?
Per me essere ebreo è una ricchezza: è il senso dell’umorismo, una certa saggezza ludica. Mi piace ciò che è leggero della parte ebraica, non la lamentazione. Poi mi sono sempre interessato a quanto accade in Medio Oriente.
Nel 1969 lei ha scritto una canzone, En Méditerranée, in cui dipingeva la difficile situazione in quella parte del mondo. Cos’è cambiato da allora?
La situazione è diventata più rigida ma vedo che adesso la gioventù adesso si indigna. A Tel Aviv come in Spagna come nei paesi arabi, è una cosa che mi sembra molto sana.
Suona ancora?
Sì. Non posso più cantare. Con questa malattia ho appena fiato per parlare. Ascolto musica: la classica, Ravel, Bach, Satie e il jazz. Mi piace tutta la musica, tranne il rock’n roll.
E il rap?
Parlavo di musica, quello è parlato.
Ha sempre sognato di fare il musicista?
Io non volevo fare niente. Sognavo di fare un mestiere che non fosse un lavoro: volevo divertirmi. E cantare mi diverte, come disegnare o scrivere. Anche se faccio tutto seriamente. È un modo di raccontare la mia vita, parlare a me stesso.
Si è divertito?
Sì, per tutta la mia vita.
Ha dei rimpianti?
Direi di no. Forse quello di aver fumato. Ma magari fumando sono riuscito a scrivere belle canzoni.
Quando l’ho contattata per l’intervista mi ha scritto che Trieste le ricordava qualcosa. Di che si tratta?
Il nome di Trieste mi ha riportato alla mente una canzone di moda alla fine degli anni Quaranta. Ad Alessandria avevo imparato a suonarla al pianoforte per fare colpo sulla ragazzina che mi piaceva, una certa Vanna, forse Giovanna, un’italiana. Ho cercato di ritrovare quella canzone un sacco di volte ma non ci ero mai riuscito perché non sapevo come si chiamava. Quando mi ha scritto, ho pensato che potevo recuperarla attraverso di lei ed è stata un’emozione. Poi, quando mi ha detto il titolo, sono andato su internet e l’ho scaricata. Lo sa che oggi lì si può trovare quasi tutta la musica?

Daniela Gross, Pagine Ebraiche ottobre 2011

barbara

PER QUEL BUDINO DI RISO…

Il viaggio di ritorno lo feci con uno zio, fratello di mia madre, Marcus Yudkewicz, che stava cercando sua moglie Lotka. Prima passammo per Lódz, dove lui trovò una cognata da cui seppe che sua moglie era viva a Konin. Mi ricordo quando arrivammo in città e i miei zii si ritrovarono: fu come un miracolo. Lei viveva con tua cugina Felunia, a casa di Lola Birnbaum.
Mia zia, Lotka Blum, era di Konin; si erano sposati poco prima della guerra e avevano avuto una bambina, Renia, che allo scoppio del conflitto avevano affidato a una famiglia polacca. Dopo essersi ritrovati cominciarono a cercare Renia, ma invano: non sapevano se fosse viva o morta. Si rivolsero alla famiglia che l’aveva tenuta, ma nessuno aveva idea di cosa le fosse successo. Dissero che era stata portata via. Era sparita nel nulla.
Qualche tempo dopo i miei zii si trasferirono a Lódz, mentre io rimasi a Konin ancora un paio di mesi. Andai a vedere la nostra casa, però ebbi paura di entrare: alcuni ebrei erano stati uccisi per avere cercato di riprendersi le loro abitazioni. Non era certo un periodo tranquillo. Io abitavo con Chayim Czerwonka, che si era installato nel suo appartamento in un vecchio edificio sul Tepper Mark. Un giorno mi recai a Varsavia con lzzy Hahn per comprare un tamburo. A quell’epoca si viaggiava gratis dentro il Paese. Andammo anche alla mensa del JOINT, l’unico posto dove si poteva mangiare un budino di riso.
A tavola mi accorsi che una donna, seduta di fronte a me, non smetteva di guardarmi. Quando qualcuno ti fissa così, non riesci nemmeno a, mangiare. Alla fine le domandai seccato: “Se ha tanta fame, perché non mangia?” E lei rispose: “No, non è la fame: lei somiglia a una persona che conosco, una bambina.” Pensai subito alla figlia di mio zio, e le chiesi: “Dov’è questa bambina?” “Oh, molto lontano”.  Allora mi feci dare l’indirizzo e decisi di andarci immediatamente: era un convento di Poronin, un paese a circa seicento chilometri, non distante da Cracovia.
Lasciai a Izzy Hahn il compito di cercare il tamburo e partii da Varsavia. Arrivato a Cracovia, mi diressi affamato al JOINT, dove mi diedero da mangiare e le indicazioni per raggiungere Poronin. Era un paese di montagna; il convento stava arroccato in cima a un cocuzzolo. Alle sette del mattino seguente ero già arrivato. Aprii la porta per vedere se ci fosse qualcuno e mi trovai mia cugina davanti. La riconobbi subito, lei capì chi ero e scoppiammo a piangere tutti e due. Aveva solo sette anni e non sapeva più nulla dei suoi genitori. Rimasi al convento quella notte, e il giorno successivo ci lasciarono partire. Impiegammo dieci giorni per raggiungere Lódz. I suoi non sapevano ancora niente. Quando entrammo in casa, la feci aspettare giù nell’androne non volendo provocare uno shock troppo forte nei genitori. Era mattina presto, e mio zio aprì la porta preoccupato: “Cosa ci fai qui a quest`ora?” Risposi: “Non ti allarmare: vi ho riportato Renia.” La bambina salì e trovò i suoi genitori. È una storia vera, merito di quella sconosciuta che continuava a fissarmi mentre mangiavo il budino di riso. (Konin)

barbara

E C’È CHI A 94 ANNI

איך װיל ביי אייך אַ קאַשע פֿרעגען, זאָגט מיר װער עס קען, מיט װעלכע טײַערע פּאַרמעגען בענטשט ג־ט אַלעמען, מ’קױפֿט דאָס נישט פֿאַר קײַנע געלט, דאָס גיט מען נאָר אומזיסט, און דאָך אַז מען פֿאַרלירט דאָס אױ, װי טרערן מען פֿערגיסט, אַ צװײטען גיט מען קײנעם ניט’ עס העלפֿט נישט קײַן געװײַן, אױ, װער עס האָט פֿאַרלױרען, דער װײס שױן װאָס איך מײַן

אַ ייִדישע מאַמע, עס גיבט נישט בעסער אױף דער װעלט, אַ ייִדישע מאַמע, אױ װײַ װי ביטער װען זי פֿעלט, װי שײַן און ליכטיג איז אין הױז װען די מאַמע איז דאָ, װי טרױעריג פֿינסטער װערט װען גאָט, נעמט איר אױף עולם הבאַ

אין װאַסער אין פֿײַער װאָלט זי געלאָפֿן פֿאַר איר קינד נישט האַלטן איר טײַער, דאָס איז געװיס די גרעסטע זינד, אױ װי גליקליך און רײַך איז דער מענטש װאָס האָט, אַזאַ שײַנע מתנה געשײַנקט פֿון ג־ט, נאָר אײן אַלטיטשקע ייִדישע מאַמע, אױ מאַמע מײַן

Ikh vil bay aykh a kashe fregen, zogt mir ver es ken
Mit velkhe tayere farmegen bentcht got alemen?
Men koyft dos nisht fir kayne gelt, dos git men nor umzist
Oon dokh az men ferlirt dos, oy vi treren men fargist
A Tzvayten git men kaynem nit, es helft nisht kayn gevayn
Oy, ver es hot farloyrn, der vays shoyn vos ikh mayn.

A Yiddishe Mame,
Es gibt nisht besser oif der velt
A Yiddish Mame,
Oy vey vi bitter ven zi felt
Vi shayn in likhtig iz in hoiz ven di mame iz do
Vi troyerig finster vert ven Got nemt ir oif Olam Haboh

In vasser in fayer volt zi gelofn far ihr kind
nisht halten ihr tayer, dos iz gevis di gresten zind
Oy, vi gliklekh un raykh iz der mentsh vos hot
Aza shayne matuneh geshenkt foon G-t,
Nor ayn altichke Yiddishe Mame,
Oy, Mame Mayn!

Vorrei farvi una domanda, mi dica chi lo sa
Con quale bene prezioso D.o ha benedetto tutti?
Non si compra con denaro, si riceve solo in cambio di niente
E quando si è perso, quante lacrime cadono.
Un secondo è dato a nessuno, piangere non serve,
Oy, colui che l’ha perduto, sa già cosa intendo.

Una Yiddishe Mame
Non c’è meglio su questa terra
Una Yiddishe Mame,
Com’è amaro quando lei è manca.
Che bello e luminoso è a casa, quando c’è la Mamma
Come diventa triste e scuro, quando D.o porta a Olam Haba (mondo a venire)

In acqua, attraverso il fuoco, sarebbe corsa per suo figlio
Non amarla è sicuramente il peccato più grande,
Com’è fortunato e ricco è colui che l’ha
Che bel regalo donato da D.o
Solo una vecchia Yiddishe Mame
Mia Yiddishe Mame!

Già, qualcuno è sfuggito alle grinfie di Hitler, e a novantaquattro anni ci allieta, cantando a voce piena.

barbara