Rigorosamente fra virgolette, dato che l’entità che per decenni ha pubblicato con questo vagamente aristocratico pseudonimo è in realtà una coppia. Nove anni fa, a dire il vero, la metà maschile del sodalizio ha pensato bene di defungere (sì, lo so, secondo lo Zingarelli e il Devoto-Oli non esiste, ma il post è mio e me lo gestisco io), ma la metà superstite ha proseguito imperterrita, con lo stesso pseudonimo, forse ignara del fatto che, come diceva la nota pubblicità, du gust is megl che one e quindi, per la proprietà transitiva dei vasi comunicanti nonché per la reversibilità del rasoio di Occam e la retroattività della spada di Damocle nel taglio dei nodi gordiani, one gust is pegg che du. Vabbè. Naturalmente non mi è mai passato per la testa di comprare un libro della suddetta entità, però è successo che ne ho ricevuto uno in omaggio per un acquisto di una certa consistenza, e dal momento che lo avevo, mi è venuta la curiosità di vedere come scrive “una delle firme più amate della narrativa contemporanea: i suoi romanzi sono tradotti in venti Paesi e hanno venduto oltre undici milioni di copie”. E dunque ecco, adesso lo so e lo posso dire: questa donna non sa scrivere. Non sa raccontare. Ha una prosa piatta, banale, senza slanci, senza personalità, monotona, monocorde, noiosa, non appassiona, non cattura. Sono arrivata alla fine del libro solo perché è smilzo smilzo, e una buona metà è occupata da una serie di ricette, che ho in parte saltato, ognuna accompagnata da un commentino che, per dirla in buon italiano, fa cascare le palle. L’unico aspetto che, se non fosse raccontato così male, potrebbe essere interessante in questo libro autobiografico, è il rapporto con la madre (quell’atteggiamento così incomprensibile, fino a quando, a portare uno squarcio di luce, non arriva il grido della nonna esasperata: “Tu questa bambina non l’hai mai voluta, speravi di abortirla come tutti gli altri!”), ma anche questo è abbastanza affogato nella melassa dei raccontini insulsi e sciapi, e l’interesse si risveglia giusto per lo spazio di mezza frase per poi riaddormentarsi. Buffo poi il fatto che, dopo avere ripetutamente, anche se bonariamente, preso in giro la madre per il suo snobismo estremo e il suo orrore per tutto ciò che ritiene “ordinario”, ci racconta che lei, “Sveva”, non si è mai sognata di usare la cipolla per fare il risotto (né per nessun’altra cosa, del resto), perché la cipolla è ordinaria e dà a tutti i cibi con cui viene a contatto un sapore ordinario (e lasci che glielo dica, cara signora: lei non sa cosa vuol dire mangiar bene!). Che poi a guardarla in fotografia, assomiglia precisa sputata alla mia ex vicina contadina quasi analfabeta quando si metteva un po’ in tiro per andare alla messa grande. Per dirla in tre parole: l’ordinarietà fatta persona.
Quello che volevo dire, comunque, a parte la faccenda della firma fra le più amate, che chi scrive per il risvolto di copertina è pagato apposta per fare panegirici e quindi è inutile stare a discuterne, è che mi resta da capire come possa farsi pubblicare e tradurre e vendere milioni di copie, e magari addirittura farsi leggere una simile fabbricatrice di ciofeche. Boh.
barbara