I RACCONTI DELLA KOLYMA

Questo invece non è un romanzo: è una raccolta di ricordi personali di chi nell’inferno della Kolyma ci è stato per diciassette anni: lavorare a quaranta, a quarantacinque, a cinquanta gradi sottozero – perché la Kolyma è oltre il circolo polare artico, dove è normale vedere, in pieno luglio, paesaggi così:
Kolyma 5.7
–  vedere i propri compagni morire, uno dopo l’altro, di fame, di freddo, di malattia, o assassinati per capriccio; con due consapevolezze: che il prossimo potresti essere tu, e che la tua condanna, senza formalità e senza spiegazioni, può essere aumentata, raddoppiata, prorogata all’infinito fino alla pura e semplice cancellazione della scadenza – cosa che, senza il provvidenziale aiuto di una persona che aveva un favore da ricambiargli, sarebbe accaduta anche a Šalamov.
Credo che la cosa migliore, per dare un’idea, sia riportare alcuni passi della postfazione.

Varlam Tichonovic Šalamov nacque nel 1907 a Vologda. A Mosca, dal 1924, lavorò per due anni come conciatore; si iscrisse poi alla facoltà di Diritto Sovietico ma continuò a coltivare il suo vivo, precoce interesse per la letteratura. Il 19 febbraio 1929 fu arrestato per aver diffuso la «Lettera al Congresso» di Lenin e condannato a tre anni di reclusione in un campo di concentramento degli Urali Settentrionali. Nel 1932 tornò a Mosca. Sei anni più tardi comparve sulla rivista «Oktjabr’» il suo primo racconto. La notte tra il 1936 e il 1937 fu nuovamente arrestato – «per attività controrivoluzionaria trockista» – e condannato a cinque anni di lavori forzati nelle miniere della Kolyma, la vasta e impervia regione che il fiume omonimo attraversa prima di sfociare nel Mare Siberiano Orientale. Nel 1942 la condanna gli venne prolungata «fino alla fine della guerra»; l’anno seguente, questa volta per aver sostenuto che Bunin era un classico russo, venne condannato ad altri dieci anni nell’«inferno» (così nel racconto «Il treno») della Kolyma. Ma la Kolyma – ha scritto Michail Geller nella prefazione alla prima edizione unitaria e pressoché integrale dei Kolymskie rasskazy apparsa in Occidente (1978, «Overseas Publications Interchange») – «non era un inferno. Era un’industria sovietica, una fabbrica che dava al paese oro, carbone, stagno, uranio, nutrendo la terra di cadaveri. Era una gigantesca impresa schiavista che si distingueva da tutte quelle conosciute della storia per il fatto che la forza-lavoro fornita dagli schiavi era assolutamente gratuita. Un cavallo alla Kolyma costava infinitamente di più di uno schiavo-detenuto. Una vanga costava di più». «L’esperienza di Šalamov nei lager» ha testimoniato Solženicyn «è stata più amara e più lunga della mia, e con rispetto riconosco che proprio a lui e non a me è stato dato in sorte di toccare il fondo di abbrutimento e disperazione verso cui ci spingeva tutta l’esistenza quotidiana nei lager». Non a caso, leggendo Una giornata di Ivan Denisovíc’, Šalamov scrisse a Solženicyn: «E come mai lì da voi va in giro un gatto nell’ospedale? Come mai non l’hanno ancora ammazzato e mangiato?». Per un reduce della Kolyma anche un gatto vivo era assurdo, impensabile. E a Pasternak, dopo averlo brevemente messo a parte di alcuni episodi della vita quotidiana alla Kolyma, Šalamov scrisse: «L’essenziale non è qui, ma nella corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore né senso del dovere. Tutto viene a nudo, e l’ultimo denudamento è tremendo. La mente sconvolta, già attaccata dalla follia, si aggrappa all’idea di “salvare la vita” grazie al geniale sistema di ricompense e sanzioni che le viene proposto. Questo sistema è stato concepito in modo empirico, giacché è impossibile credere all’esistenza di un genio capace di inventarlo da solo e d’un sol colpo.  Perdonatemi se vi parlo di cose così tristi ma vorrei che aveste un’idea più o meno corretta di questo fenomeno capitale e singolare che ha fatto la gloria di quasi vent’anni di piani quinquennali e dei grandi cantieri che vengono definiti “audaci realizzazioni”. Giacche non v’è una sola costruzione importante che sia stata portata a termine senza detenuti, persone la cui vita non è che un’ininterrotta catena di umiliazioni, la nostra epoca è riuscita a far dimenticare all’uomo che è un essere umano…». Fu un medico detenuto, A.M. Pantjuchov, che salvò la vita a Šalamov: nel 1946, rischiando la propria carriera, lo destinò ai corsi di addestramento per infermieri che si tenevano nell’Ospedale centrale, sulla «riva sinistra» del Kolyma. Liberato dal lager nel 1951, lo scrittore poté tornare a Mosca solo nel dicembre 1953 e per due giorni soltanto (come ex detenuto gli era vietato di risiedere nelle città con più di mille abitanti). Nella capitale rivide la moglie e la figlia, da cui era però destinato ad essere diviso per sempre; incontrò Boris Pasternak, con cui era entrato in corrispondenza nel marzo 1952. Stabilitosi nella regione di Kalinin, iniziò a scrivere I racconti della Kolyma. Nel luglio 1956, riabilitato, poté far ritorno nella capitale. Dal 1961 al 1967 videro la luce tre sue raccolte di poesie, ma i racconti sulla Kolyma gli venivano puntualmente restituiti dalle redazioni di riviste e case editrici. Altrettanto dolore provocò in lui il destino dei suoi racconti all’estero, dove per lunghi anni vennero pubblicati in modo sparso e frammentario, secondo approssimativi criteri filologici, come ai tempi del samizdat avveniva di frequente per gli scritti che riuscivano a filtrare dalle ferree maglie della cortina di ferro. L’interesse che l’Occidente manifestò subito per la sconvolgente testimonianza artistica di Šalamov impensierì le autorità sovietiche, che nel 1972 costrinsero lo scrittore in disgrazia a sconfessare i Racconti della Kolyma con un documento in cui tra l’altro affermava che «la loro problematica era stata superata dalla vita», dal XX Congresso del Pcus. Gravemente provato nel fisico dagli anni di lager e nello spirito dagli anni di «libertà», Šalamov non smise di scrivere. […] Nel 1973 terminò il lavoro sulla vasta e agghiacciante epopea della Kolyma, […] I racconti della Kolyma, titolo divenuto canonico per l’intero corpus dei racconti. […] Varlam Šalamov morì il 17 gennaio 1982 nella casa di riposo in cui il Litfond lo aveva fatto ricoverare nel 1979. Nel suo paese una scelta dei Kolymskie rasskazy comparve per la prima volta nel 1988, sulle pagine della rivista «Novyj Mir». Il testo integrale russo ha visto la luce a Mosca nel 1992, per le edizioni Russkaja Kniga, in due volumi. La traduzione italiana si basa su quest’ultima pubblicazione e presenta un’ampia scelta dai quattro «libri» che costituiscono il nucleo fondamentale dei Racconti della Kolyma.

I Racconti della Kolyma sono davvero agghiaccianti: per la durezza delle condizioni di vita, per l’efferatezza dei carnefici, per la disumanizzazione del sistema, e davvero non hanno niente da “invidiare” ai più noti campi di concentramento e di sterminio nazisti. E tuttavia questo libro, giustamente da più d’uno definito capolavoro, è talmente bello che si può e si deve leggere.

Varlam Šalamov, I racconti della Kolyma, Adelphi
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barbara

DEDICATO AL SIGNOR ABBADO CLAUDIO, NEOSENATORE A VITA DELLA REPUBBLICA ITALIANA

Premessa

Nel 2005 un accorato appello ha chiesto al mondo intero di intervenire contro la possibilità che la Commissione per i diritti umani dell’Onu si permettesse di giudicare Cuba, faro di luce e di civiltà. L’appello è questo:

BISOGNA FERMARE LA NUOVA MANOVRA CONTRO CUBA

Dal 14 marzo al 22 aprile 2005 avrà luogo a Ginevra la 61ma sessione della Commissione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, dove, ancora una volta, il governo degli Stati Uniti, esercitando la pressione sugli stati membri, tenterà di far votare una risoluzione contro Cuba. Si tratta di una manipolazione finalizzata a giustificare la recrudescenza della politica del “blocco” e di aggressione che, in violazione del diritto internazionale, esercita la maggiore potenza mondiale nei confronti di un piccolo paese. La Commissione deve rappresentare tutti i popoli delle Nazioni Unite e sorvegliare sul rispetto dei diritti di tutti gli uomini e di tutte le donne del mondo intero. Tuttavia, bisogna rimarcare che in seno alla Commissione, durante la sessione dello scorso anno, non è stato possibile valutare, anche solamente per provocare un dibattito, sulle atroci violazioni dei diritti dell’uomo nelle prigioni di Abu Ghraib e Guantanamo.
Il Governo degli Stati Uniti non ha l’autorità morale per erigersi giudice sulla violazione dei diritti dell’uomo a Cuba, dove non c’è stato un solo caso di sparizione, di tortura o di esecuzione extragiudiziaria [carina questa, vero? ndb] e malgrado l’embargo non abbia danneggiato la sanità, l’informazione e la cultura, notoriamente a livelli internazionali.
Noi chiediamo ai paesi che rappresentano la Commissione di non permettere che questa sia utilizzata per legittimare l’aggressione che subisce Cuba da parte dell’Amministrazione Bush in un momento come l’attuale, dove la  politica aggressiva di Washington potrebbe avere un’escalation dalle gravissime conseguenze.
Inoltre, facciamo appello ai giornalisti, agli scrittori, agli artisti, ai professori, agli insegnanti e alle insegnanti e agli attivisti sociali a premere sui propri governi con tutti i mezzi possibili affinché si fermi questa manovra pericolosa.

L’appello è stato firmato da molte migliaia di persone, fra cui il nostro neosenatore, signor Abbado Claudio. Quello che segue è il post che ho scritto all’epoca, otto anni e mezzo fa.

L’appello era giusto, rivendica il Nostro, e ce ne spiega il perché:

Conosco Cuba, ci sono stato più volte e ci tornerò.
Visto? Lui ci è stato: serve altro?
Stranamente delle cose più valide che ci sono a Cuba non si parla mai. Cominciamo dalla ricerca medica, che a Cuba è all’avanguardia. C’è un dottore, Gregorio Martinez Sanchez, che sta lavorando alla ricerca per debellare il cancro e che ha «scoperto» una nuova e, a quanto pare, importante cura.
Sentito? C’è un dottore! Sta lavorando! “Pare” anche che abbia fatto una scoperta! A parte questo, che cosa ha a che fare il dottore col rispetto dei diritti umani?
L’ho fatto sapere al professor Umberto Veronesi, che qualche settimana fa mi ha scritto una lettera, in cui dice che appoggerà il progetto di questo medico cubano.
Grandioso! Adesso lo sappiamo per certo: quel medico è il nuovo Pasteur, il nuovo Jenner, il nuovo Sabin!
A Cuba, forse i potenti se lo dimenticano, non esiste l’analfabetismo, che è invece assai diffuso in molte altri parti del mondo.
QUALI altre parti del mondo, esattamente? Potrebbe cortesemente precisare? A parte questo, che cosa ha a che fare l’alfabetizzazione col rispetto dei diritti umani?
A Cuba con un po’ di terra libera, non ci si mette a speculare: loro preferiscono fare degli orti enormi,
momento: con UN PO’ di terra ci fanno degli orti ENORMI? Tipo moltiplicazione dei pani e dei pesci? Cazzarola, questa sì che è forte! A parte questo, che cosa hanno a che fare gli orti col rispetto dei diritti umani?
che serviranno poi a tutti (esempio che è stato ripreso poi da altre nazioni).
Sarebbe a dire che prima che Cuba lo insegnasse, nessuno al mondo faceva gli orti? Forte!
A dicembre ho portato la Mahler Chamber Orchestra per dei concerti, a gennaio l’Orchestra Giovanile Simon Bolivar, di cui facevano parte anche 44 cubani.
Ciò ci fa molto piacere, ma che cosa hanno a che fare i 44 orchestrali cubani in fila per sei con resto di due col rispetto dei diritti umani?
Il fatto poi che ho portato quei 44 musicisti cubani a Caracas e che l’anno prossimo li porterò con tutta l’orchestra in Europa, smentisce che i cubani non possono uscire.
Giusto! Se 44 cubani possono uscire, ciò significa che tutti i cubani possono uscire. E i condannati a morte per aver tentato di fuggire ce li siamo sognati noi.
C’è poi un gruppo di bravissimi musicisti cubani, ‘Ars Longa’, che ho voluto sostenere e che vengono regolarmente invitati al Festival Gesualdo in Basilicata. Li abbiamo fatti conoscere l’anno scorso attraverso una tournée che ha toccato anche Bari, Matera, Roma e Bologna.
Ciò ci fa molto piacere, ma che cosa ha a che fare il gruppo “Ars Longa” col rispetto dei diritti umani?
Mi chiedo anche perché non si parla quasi mai di nuove idee e realtà italiane, a mio avviso, molto importanti per l’ecologia e per l’ambiente, come i treni con nuovi locomotori che trasportano i Tir, o altri camion, attraverso il Brennero, da Monaco di Baviera a Innsbruck, Bolzano, Trento, Verona con nuovo innesto dal Veneto all’Emilia Romagna. Oppure di quella cittadina vicino a Trento che sta realizzando un progetto impostato sul traffico e riscaldamento totale con l’utilizzo di energie naturali (pannelli solari, idrogeno). Questa cittadina ha vinto fra l’altro il primo premio per il miglior progetto in Europa.
Ah, beh, allora, a questo punto non possiamo più avere dubbi: se ci sono treni con nuovi locomotori che attraversano il Brennero, e vicino a Trento usano i pannelli solari, allora vuol proprio dire che a Cuba i diritti umani vengono rigorosamente rispettati e loro hanno fatto benissimo a firmare l’appello!
abbado
E pensare che qualcuno aveva avuto da ridire quando era stata nominata Rita Levi Montalcini!

barbara

I HAVE A DREAM – CINQUANT’ANNI DOPO

Sono passati cinquant’anni dalla giornata in cui 250mila persone si trovarono a Washington per chiedere uguaglianza, rispetto, un’America nuova, nella “Marcia per il lavoro e per le libertà”. Sono passati cinquant’anni da quando il pastore Martin Luther King, pronunciò quelle parole “I have a dream”, “Io ho un sogno”, capaci di plasmare il corso degli Stati Uniti d’America, e non soltanto. Sono numerose in questi giorni le celebrazioni di quel mercoledì 28 agosto 1963. Il Washington Post per esempio, ha pubblicato un editoriale dell’allora stagista, oggi direttore associato, Robert G. Kaiser, in cui viene riconosciuto il clamoroso “buco” preso dal giornale, che impiegò decine di reporter, talmente convinti di essere lì per documentare scontri e discorsi radicali, da non capire cosa stesse realmente accadendo: la frase “I have a dream” non comparì sul quotidiano del 29 agosto 1963, brevi stralci del discorso furono pubblicati solo nel quinto paragrafo di pagina 15. “Eravamo preparati a disordini, tumulti, eventi inaspettati. Ma non a coprire una pagina di storia” ha scritto Kaiser. Chi invece ha ricordato con orgoglio il proprio lavoro giornalistico durante quelle giornate è la stampa ebraica newyorkese. E così il Forward, versione in inglese dell’allora quotidiano yiddish Forverts, ha riproposto alcuni degli articoli pubblicati in quell’occasione. “La marcia verrà ricordata nella storia come la più potente dimostrazione di ascesa morale e virtù umana – scrisse il giornalista Moishe Crystal – Il lato ebraico è stato inoltre molto evidente e di impatto nella partecipazione a Washington”. Già perché furono tanti, più o meno noti, gli attivisti ebrei e i rappresentanti dalla comunità ebraica americana a fianco di Martin Luther King in quei giorni. Al presidente del Synagogue Council of America, il rabbino Uri Miller, fu affidata la formulazione della preghiera di apertura dell’evento “Signore D-o nostro, invochiamo la Tua benedizione per questo raduno di cittadini che si sono ritrovati qui a dimostrare per la libertà, il pane e la dignità degli uomini. Tu che hai messo in risalto che tutti gli individui sono uguali nel loro diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, rendici capaci attraverso questa manifestazione, di sensibilizzare tutta l’America, e specialmente coloro che si trovano in posizione di potere e autorità, al concetto dell’uguaglianza” invocò Miller.

E subito prima di Martin Luther King, a prendere la parola fu anche il presidente del Congresso ebraico americano, Joachim Prinz, già rabbino a Berlino e poi esule in America dalla Germania nazista “Mi rivolgo a voi come ebreo americano. Come americani, condividiamo la profonda preoccupazione di milioni di persone verso la vergogna e la disgrazia dell’ineguaglianza e dell’ingiustizia che insultano la grande idea americana. Come ebrei, portiamo a questa manifestazione, dove migliaia di noi orgogliosamente partecipano, una duplice esperienza: quella del nostro spirito e quella della nostra storia – sottolineò Prinz – Quando ero rabbino a Berlino, sotto il regime di Hitler, imparai molte cose. Soprattutto che non sono intolleranza e odio il problema più grave, ma il silenzio. L’America non deve rimanere in silenzio. Non solo l’America nera, ma tutta l’America” (ascolta il discorso). Non fu invece invitato alla Marcia del 28 agosto il rabbino Abraham Joshua Heschel, che di lì a poco sarebbe diventato un caro amico di Martin Luther King e una figura fondamentale nella lotta per i diritti civili, mentre essenziale fu, dietro le quinte, il ruolo di Arnie Aronson: a casa sua, in segreto, si tennero le riunioni per organizzare la Marcia. Oggi gli Stati Uniti hanno eletto il primo presidente di colore e l’utilizzo del termine “negro” non viene più considerato accettabile. Una rivoluzione diversa e più dirompente dei tumulti che temeva il Washington Post in quel 1963, ma che ha ancora tanti passi da compiere, se è vero che un giovane afro-americano ha una percentuale di probabilità di finire in prigione infinitamente superiore a quella di un coetaneo bianco. Passi per i quali la Marcia per il lavoro e per la libertà continua a rappresentare un punto di riferimento. “Il discorso di King è stato talmente potente che nel tempo diventerà chiaro che ogni volta che qualcuno userà la frase ‘Io ho un sogno’ starà facendo riferimento a lui” concluse Crystal sul Forverts. Affermazione a dir poco profetica.
Rossella Tercatin (28 agosto 2013)

Ecco, ora la rievocazione di quello storico momento è completa (o almeno più completa di prima)

barbara

IL 28 AGOSTO DI 50 ANNI FA

He had a dream

Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.
Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.
Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un “pagherò” del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo “pagherò” permetteva che tutti gli uomini, sì, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.
È ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo “pagherò” per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: “fondi insufficienti”. Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.
Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.
Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.
Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.
Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.
Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.
E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: “Quando vi riterrete soddisfatti?” Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono: “Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.
Non ho dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.
Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.
E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.
Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.
Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.
Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.
Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.
Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.
Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.
Ma non soltanto.
Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.
Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.
E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”.

Capita, a volte, che sulla via della realizzazione di un sogno, occorra essere pronti a morire – morire, NON uccidere. Martin Luther King ce lo ha insegnato.

barbara

E ADESSO VI FACCIO FARE UN GIRO PER IL MEDIO ORIENTE

Per prima cosa vi mando a prendere qualche lezione di etica matrimoniale, in cui vi verrà spiegato che il modo migliore per castigare una moglie che fa cose abominevoli, tipo uscire per strada con la faccia scoperta, è di tagliarla in dieci pezzi, o yes. E poi vediamo se la prossima volta avrà ancora voglia di disobbedirvi e mostrare spudoratamente in giro la sua faccia (qui).
Poi vi faccio scoprire qual è il quarto luogo santo dell’islam (voi ne conoscete solo tre, vero?)
Poi vi informo che, incredibile ma vero, c’è qualcuno che si preoccupa delle vittime palestinesi anche quando non sono vittime degli israeliani, ed è una tale mosca bianca che ritengo doveroso dargli il giusto spazio e la giusta visibilità.
Se desiderate dare alla vostra cultura, o a quella dei vostri figli, un tocco di internazionalità, vi suggerisco caldamente di prendere in considerazione
Londra; per la precisione, la City University.
Imprescindibile poi un aggiornamento sul grillopensiero e dintorni (cliccare sul quadratino in caratteri microscopici per leggerlo in caratteri umani. Dovete assolutamente leggerlo).
Infine un aggiornamento sul giovane blogger iraniano che sta morendo in carcere.
E mi raccomando, ricordate sempre quali sono le priorità.
I_problemi_del_mondo
barbara

AMMAZZARE GLI EBREI UNA VOLTA SOLA È TROPPO POCO

Argentina 23/08/2013

Decapitato il monumento ad Anna Frank
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Cordoba – il monumento a Anna Frank situato di fronte a Piazza Spagna nella città di Cordoba città da alcuni giorni appare senza testa.
La statua mostra la giovane appoggiata su un baule con il suo diario, che ha raccontato al mondo l’orrore nazista, visto dai suoi occhi di bambina.
La filiale di Cordoba della delegazione delle associazioni ebraiche Argentine (Daia) ha condannato l’atto di vandalismo.
“La distruzione di parte della scultura rappresenta l’intolleranza che dobbiamo superare per continuare la lotta per una società giusta, plurale e lontana da ogni tipo di discriminazione,” ha detto Daia. E ha chiesto che si trovino i responsabili. (qui, traduzione mia)
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barbara