La savana. Terra calda, a perdita d’occhio, ocra rossastro come i cespugli, le acacie e i baobab all’orizzonte. Ci ero nata, l’avevo percorsa centinaia di volte, la savana, sempre così, a piedi nudi, ma quella mattina mi sembrava di non riconoscerla. Nel mio cuore la sentivo estranea, ostile, come tutto quello che mi era stato familiare, il mondo dove mi sentivo al sicuro, la gente che consideravo amica. Quel mondo e quella gente avevano scelto per me il peggiore dei destini. Una fine atroce che da due giorni cercavo di fuggire.
Il mio destino… Impossibile non pensarci. Stava là, al margine dei miei pensieri, come un’ombra malvagia in agguato, pronto a balzare fuori per terrorizzarmi ogni volta che i miei occhi si posavano su una pietra, una delle tante sparse sulla terra polverosa. Le pietre mi avrebbero straziata e uccisa. Il mio destino era la lapidazione. Mi vedevo sepolta fino alle spalle nella terra, la testa coperta da una tela di sacco e poi sentivo le pietre, a pioggia, scagliate con forza contro di me, sulla mia testa fino a quando io non avrei esalato l’ultimo respiro… sentivo il dolore, sentivo il sangue che mi colava sul viso e mi chiedevo quanto sarebbe durato, quel supplizio, prima che venisse la morte a liberarmi.
In un certo senso ero già morta, pensavo mentre avanzavo a fatica nell’afa soffocante. Con la fuga non mi ero lasciata dietro solo il mio villaggio, Tungar Tudu, ma le mie stesse radici. Dietro di me avevo tutto, davanti a me solo il buio, la paura e la morte. Ma anche l’unica certezza, l’unica cosa per cui sentivo di dover lottare e sopravvivere: Adama, la mia bambina. Lei era con me, la sentivo sulla mia schiena, fagottino morbido e caldo. Adama, causa inconsapevole del mio dramma…
Avevo paura, più di quanta ne avessi mai avuta in tutta la mia vita. Era la paura dell’animale braccato, una paura così forte da farmi avanzare senza meta in quel paesaggio infuocato. Ero allo stremo delle forze. Quanto avrei resistito ancora? E Adama, così fragile e piccola, per quanto tempo sarebbe sopravvissuta? Le poche scorte di viveri che avevo portato con me al momento della fuga si erano rapidamente esaurite. Niente più carne secca né farina e nemmeno latte. Restava un po’ d’acqua, ma volevo conservarla per quando Adama si fosse svegliata.
Il sole adesso era alto nel cielo. Se avessi proseguito, sarei morta con la mia bambina. Dovevo trovare un riparo e aspettare il tramonto per riprendere la marcia. Poco distante da me, c’era un albero. Lo raggiunsi a fatica, ma quando stavo per stendere a terra la stuoia vidi in lontananza delle sagome in movimento. Cammelli e, dietro di loro, un pastore… Se lo avessi raggiunto avrebbe potuto darmi del cibo, dell’acqua! Raccolsi le forze per gridare e attirare la sua attenzione, ma qualcosa me lo impedì. No! Non chiamarlo! Stai nascosta! Ormai in tutti i villaggi sapranno della tua condanna e chi ti vedrà lo dirà alla polizia…
Disperata, mi lasciai cadere lungo il tronco, gli occhi fissi sul pastore fino a quando scomparve, inghiottito dalla foschia giallastra. A quel punto piansi, per la prima volta da quando avevo lasciato il villaggio. Adesso ce l’avevo davvero di fronte, l’immensità della mia solitudine. Nessun essere umano avrebbe potuto aiutarmi. Che cosa sarebbe stato di me e della mia bambina? Guardai Adama. Ignara di tutto, si era addormentata sulla stuoia. Io rimasi sveglia, ad attendere che il sole scendesse. Avevo sempre amato quel particolare momento della giornata. Mi piaceva lasciare ogni attività per fantasticare e sognare, osservando i cambiamenti dei colori e i bizzarri disegni che le ombre allungate tracciavano sul terreno. Ma quel pomeriggio, quando finalmente il sole incominciò a calare all’orizzonte, non provai nessuna sensazione piacevole. Indifferente all’aria che rinfrescava, svuotata di ogni energia, nel corpo e nello spirito, mi rimisi stancamente la piccola sulle spalle. Il pastore doveva senz’altro essere diretto a un pozzo per abbeverare i cammelli. Sarei andata anch’io da quella parte. L’acqua era più importante del cibo, se volevo sopravvivere.
Mi avviai. Avevo la gola riarsa, la bocca secca. Tutto sembrava sfumato, non capivo se per la calura o per la mia debolezza. Ormai strascicavo i piedi, ogni passo mi costava sempre più fatica.
Adama incominciò a piagnucolare. Non faceva un pasto vero da due giorni, povera piccolina, doveva sentirsi ancora peggio di me. Mi fermai per farle bere le ultime gocce d’acqua. La bambina le inghiottì avidamente e io mi chiesi angosciata che cosa sarebbe successo se non avessi trovato al più presto il pozzo, poi ripresi il cammino. Il paesaggio ormai si confondeva, vacillavo, di tanto in tanto incespicavo. Camminai e camminai, fino a quando scese la sera e ancora, fino a notte fonda, quando mi resi conto che nell’oscurità assoluta proseguire non aveva senso. Non avevo trovato il pozzo, forse avevo addirittura sbagliato strada. Forse Dio voleva veramente che fossi lapidata, perché avevo davvero commesso una colpa gravissima che la mia incoscienza mi impediva di comprendere…
Stesi la stuoia ai piedi di un albero, vi deposi Adama e mi lasciai cadere vicino a lei, la schiena contro il tronco. Come temevo, la bambina si svegliò. Il suo pianto disperato mi strinse il cuore. Era terribile sapere che aveva fame e sete e non poterle offrire altro che il mio affetto. La presi in braccio, la accarezzai, le parlai sottovoce. Adama si calmò. Poco dopo il suo respiro regolare mi disse che si era riaddormentata.
Sotto quell’albero, nel buio, il pensiero del mio destino fu libero di riassalirmi. Le pietre, il dolore, il sangue. Il mio sangue… La morte… A poco a poco scivolai nel sonno, in preda agli incubi.
Mi svegliai all’alba. La terza alba dalla fuga.
Adama dormiva ancora, ma da un momento all’altro si sarebbe svegliata. La sete e la fame l’avrebbero fatta piangere di nuovo, senza che io potessi aiutarla.
Non svegliarti, piccolina, continua a dormire, pensavo. È meglio, non sentirai la fame, la sete, il dolore…
Nella tristezza di quel momento, guardandola, capii che non c’era niente che contasse più di lei, nemmeno la mia sopravvivenza. Era la sua, quella importante. Pur di salvarla ero pronta a perdere me stessa. Se fossi riuscita ad arrivare a un villaggio, mi sarei consegnata alla polizia e Adama sarebbe stata salva. Lì nella savana invece saremmo morte entrambe. Ormai anche il pensiero della lapidazione mi sembrava preferibile alla fine in quel luogo. Meglio morire fra gli uomini, uccisa dagli uomini, che soccombere così, proprio come le bestie braccate.

Safiya con il corpo del reato
Conosciamo tutti Safiya e la sua drammatica storia. Tutti abbiamo seguito con trepidazione la sua vicenda. Tutti abbiamo firmato gli appelli inviati alle autorità del suo Paese per invocare la sua salvezza. Ora, in questo libro, possiamo conoscere la sua storia nei dettagli.
In una Nigeria sempre più succube dell’islamismo più fanatico, Safiya viene condannata alla lapidazione per “adulterio”: ripudiata dal marito per volontà della famiglia di lui, finisce per cedere all’implacabile corteggiamento di un uomo che continua a prometterle di andare dal padre di lei a chiederla in moglie. Rimasta incinta, resiste strenuamente ai tentativi dell’uomo di farla abortire e in tal modo la sua “colpa” diventa evidente, e da vicenda individuale finisce per assurgere a strumento politico: i fautori dell’islamismo più radicale vogliono la sua morte come segno tangibile della vittoria della sharia, i loro avversari ne vogliono la salvezza, oltre che per ragioni umanitarie, anche per dare un segnale forte ai fanatici, per dimostrare che la nazione non è disposta ad arrendersi alla loro follia senza combattere con tutte le proprie forze. Le consuetudini locali, però, sono tutte contro Safiya: al processo il suo seduttore dapprima ammette di avere avuto rapporti sessuali con lei, poi, su consiglio del fratello, ritratta tutto, arrivando a negare di averla mai conosciuta. Il giudice stesso, avendo notato che la bambina è praticamente la fotocopia del padre, invita il pubblico ad osservare quella straordinaria somiglianza, ma lui rimane fermo sulla ritrattazione, e quindi (è un uomo!) quella diventa l’unica verità accettata e messa a verbale.
La salvezza arriverà proprio dalla diffusione della sua vicenda a livello mondiale e dalle conseguenti pressioni internazionali. Servirà tuttavia, perché i giudici possano permettersi di assolverla senza perdere la faccia, che l’avvocato scovi tra i meandri delle norme islamiche un cavillo di ordine religioso da opporre ai giudici stessi, ossia che l’assoluzione avvenga nel pieno rispetto delle più rigide norme islamiche. E il cavillo che riesce alla fine a trovare, è veramente il più assurdo che si possa immaginare: il Profeta ha affermato che il seme del marito può dimorare nel grembo della donna fino a tre anni in una sorta di “letargo” per poi svegliarsi e fecondare. E dato che la gravidanza è iniziata entro i tre anni dal divorzio di Safiya, non è possibile escludere che la bimba sia figlia del marito.
Il libro, in cui Raffaele Masto raccoglie il racconto di Safiya, è molto bello e coinvolgente, e soprattutto utile a comprendere situazioni e risvolti che difficilmente trovano spazio nelle cronache dei giornali. Certo, se il coautore si fosse risparmiato di impartirci la lezioncina su quanto la civiltà islamica sia superiore alla nostra sul piano etico e morale (è vero, ci sono la lapidazione, la poligamia, il ripudio, però ai matrimoni loro preparano anche un tavolo per i poveri affinché possano mangiare anche loro) staremmo meglio tutti, ma insomma, non si può avere tutto dalla vita. Ecco, io sono contenta di averlo letto, e lo suggerisco anche a voi.
P.S.: certo che fa abbastanza impressione pensare che questa vecchia

è una donna di trentacinque anni.
Safiya Hussaini Tungar Tudu con Raffaele Masto, Io Safiya, Sperling Paperback

barbara