MI HAI CAMBIATO LA VITA

La storia, credo, è nota: un delinquentello di strada immigrato si ritrova, per una serie di fatti fortuiti, a far da badante a un ricchissimo, colto e aristocratico tetraplegico, e l’incontro fra due personalità tanto diverse, contrariamente a quanto chiunque si sarebbe potuto aspettare, dà vita a un sodalizio destinato a durare nel tempo e a cambiare radicalmente la vita a entrambi. Il libro non è granché, penso che sia stato messo in cantiere unicamente per sfruttare economicamente il successo del film, e tuttavia vale la pena di parlarne per alcune acutissime e lucide analisi che Abdel ci offre della società francese – ma estendibili più o meno a tutta la società “occidentale” – e del come e perché si è arrivati al disastro attuale.

Abbiamo capito molto presto come gira il mondo. A Parigi, a Villiers-le-Bel o a Saint-Troufignon-de-la-Creuse è la stessa lotta: ovunque vivessimo eravamo noi, i selvaggi, contro il popolo civile di Francia. Non dovevamo nemmeno combattere per difendere i nostri privilegi, poiché agli occhi della legge, qualunque cosa facessimo, eravamo solo dei bambini. Qui, un bambino è considerato per forza irresponsabile. Si accampano tutte le scuse del mondo. Troppo protetto, o non abbastanza, troppo viziato, la povertà… Nel mio caso, cito testualmente, «il trauma dell’abbandono».

Prima media al Guillaume-Apollinaire, 15° arrondissement, e primo giro dallo psicologo. Quello della scuola, ovviamente. Il quale, allertato da una pratica già fitta di espulsioni motivate e altri apprezzamenti poco lusinghieri da parte dei professori, desiderava conoscermi.
«Abdel, tu non vivi con i tuoi genitori naturali, giusto?»
«Vivo con gli zii. Ma adesso sono loro i miei genitori».
«Lo sono diventati dopo che i tuoi genitori naturali ti hanno abbandonato, giusto?»
«Non mi hanno abbandonato».
«Abdel, quando due genitori smettono di occuparsi di un figlio lo abbandonano, giusto?»
La smette o no con questi ‘giusto’?
«Le dico che non mi hanno abbandonato. Mi hanno affidato a due genitori diversi, tutto qui».
«Si chiama abbandono».
«Da noi no. Da noi si fa così».
Sospiro dello psicologo davanti alla mia ostinazione. Mi addolcisco un po’, sperando che mi lasci andare.
«Signor psicologo, non si preoccupi per me, va tutto bene. Non sono traumatizzato».
«E invece sì, Abdel, è inevitabile».
«Se lo dice lei…»
Quel che è certo è che noi figli dei sobborghi vivevamo tutti nell’incoscienza. Non c’era mai stato un segnale forte, che ci facesse capire che avevamo preso una cattiva strada. I genitori non dicevano niente perché non sapevano cosa dire e perché, malgrado non approvassero il nostro comportamento, non avevano i mezzi per correggere il tiro. Presso la maggior parte dei magrebini e degli africani un bambino fa tutte le esperienze che vuole, per quanto rischiose. Funziona così.

In realtà non è male, questa faccenda del giudice minorile. Visto che non incasso più i soldi della borsa di studio, mi dà una specie di sussidio. Di che pagare un kebab o i biglietti della metropolitana. Ogni settimana passo in ufficio da lei, che mi allunga la busta. E aggiunge qualche banconota se mi vede con un paio di scarpe diventate troppo piccole per i miei piedi. Non ha capito che più è gentile, più gliene chiedo. E funziona! Se proprio va male mi fa un predicozzo.
«Abdel Yamine, non ruberai niente, voglio sperare?»
«Ma no, signora».
«Quella felpa ha l’aria di essere nuova. È carina, tra l’altro».
«Me l’ha comprata mio padre. Lui lavora, ha i soldi».
«Lo so che tuo padre è una persona seria, Abdel Yamine… E tu, l’hai trovata una strada che ti interessa?»
«Non ancora».
«Ma allora cosa combini tutto il giorno? Vedo che porti la tuta e le scarpe da ginnastica: fai sport?»
«Be’, diciamo così».
[Lo “sport”, naturalmente, è quello di correre a perdifiato per scappare dai poliziotti dopo ogni furto o scippo]

Dato che mi muovo sempre nello stesso quartiere, finisco per imbattermi regolarmente negli stessi ispettori (o meglio sono loro che incappano di continuo in me). A lungo andare ci si conosce, siamo quasi in confidenza. Capita perfino che mi mettano in guardia.
«Stai all’occhio, Sellou, il tempo passa… Sai che dopo il tuo prossimo compleanno potremmo sbatterti dentro sul serio».
Io ci rido su. E non perché non gli creda: se lo dicono, dev’essere vero. Ma se da una parte non ho paura di ciò che non conosco, dall’altra ho tutte le ragioni di pensare che la prigione non abbia niente di terrificante. E che se ne esca in fretta. Vedo cosa succede ai Mendy, quei gruppi di senegalesi che se la spassano con le ragazze. Li mettono dentro per stupro di gruppo: al massimo si beccano sei mesi, escono con qualche chilo di più sulla pancia, un taglio di capelli appena fatto e immediatamente ricominciano a trafficare, si comprano una tipa nuova. Uno di loro ha preso tre anni, una volta, ma solo perché aveva cavato un occhio a una donna con una sbarra. È proprio brutto quello che ha fatto, ciò non toglie che lo rivedremo presto. Quindi, in tutta onestà, la prigione non mi spaventa. Se fosse davvero così atroce, tutti quelli che ci sono andati una volta metterebbero la testa a posto pur di non tornarci. Per quanto mi riguarda posso mangiarmi tranquillamente il panino, perché non credo che sia il caso di tremare. Domani esco, sta arrivando la bella stagione, fra non molto le donne si metteranno i vestiti leggeri e io ricomincerò a rimorchiare, ad andare in giro coi miei soci.

Quando ho accettato di scrivere questo libro, pensavo ingenuamente di poter continuare sulla stessa strada di sempre: stavolta non c’erano telecamere o microfoni. Dirò quel che voglio, e se voglio me ne starò zitto! Prima di lanciarmi nel racconto non sapevo di essere disposto a parlare. A chiarire agli altri, in questo caso ai lettori, ciò che non avevo ancora chiarito a me stesso. E dico chiarire, anche in questo caso, non «giustificare». Ormai sarà chiaro che cado volentieri nell’autocompiacimento, ma non nell’autocommiserazione. Mi fa orrore la mania dei francesi di analizzare tutto, di perdonare tutto, perfino l’imperdonabile, con il pretesto di una cultura diversa, della mancanza di istruzione, di un’infanzia infelice. Io non ho avuto un’infanzia infelice, tutt’altro! Sono cresciuto come un leone nella savana. Io ero il re. Ero il più forte, il più intelligente, il più affascinante. Se lasciavo che la gazzella si abbeverasse alla fonte era perché non avevo più fame. Ma quando ne avevo le piombavo addosso. Da bambino non venivo rimproverato per la mia violenza più spesso di quanto si rimproveri a un leoncino il suo istinto di caccia. E questa sarebbe un’infanzia infelice? Era soltanto un’infanzia che non preparava all’età adulta. Io non me ne rendevo conto, e i miei genitori nemmeno.

Indulgenza, “comprensione” (è solo ignoranza, è la loro cultura, chi siamo noi per giudicare?), errori di valutazione (non dobbiamo irrigidirci, se andiamo incontro alla loro cultura si integreranno meglio), relativismo (tutte le culture hanno pari dignità e meritano pari rispetto), superficialità (diamo tempo al tempo, le cose si aggiusteranno da sole) hanno portato a un disastro sociale da cui non si sa se e quando riusciremo a sollevarci, come leggiamo in questa vecchia cartolina di Ugo Volli.
VOGLIAMO TUTTO E SUBITO
E in questo ambito mi sembra davvero che questo avanzo di galera, poco meno che analfabeta, con le sue analisi possa dare robuste lezioni a fior di sociologi e psicologi che infestano i nostri giornali e i nostri schermi.
Solo in un caso sembrerebbe avere mancato il bersaglio:

A Creil tre ragazzine sono andate a scuola coperte dal velo integrale, e già i francesi si credono in Iran. Sono letteralmente terrorizzati. Le notizie fanno così pena che tanto vale buttarla sul ridere.
Era la fine degli anni Ottanta. Da allora è passato circa un quarto di secolo. Adesso non ride più nessuno.
sellou-pozzo-di-borgo

barbara

  1. Indulgenza, comprensione. relativismo
    Ho letto una sintetica definizione di questo approccio terzomondista: The Racism (Bigotry) of Low Exceptations.
    Classico esempio: il diverso standard morale applicato dai “liberali” ad Israele e agli arabi di Palestina. Se fossi un arabo di Palestina mi arrabbierei.

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  2. Pingback: MI SA CHE È ARRIVATO DI NUOVO IL MOMENTO | ilblogdibarbara

  3. L’ha ribloggato su Cavolate in libertàe ha commentato:
    Interessanti queste riflessioni di Abdel Sellou, sono molto simili a quanto avevo letto nel libro di Ayaan Hirsi Ali. La carità pelosa ed il giustificazionismo ad oltranza di comportamenti che, se fatti da un occidentale sarebbero stati considerati inaccettabili, hanno portato a questo. A non far “crescere” le persone ed a convincerle, come lo sono i bambini, di avere solo diritti e di poter ottenere tutto facendo i capricci. E come capita con i bambini questi continuano ad aumentare i capricci finquando non sentono un “NO!” deciso.
    Solo che qui non abbiamo bambini che vogliono giocare con forbici o fiammiferi, abbiamo bambini che giocano con i kalashnikov.

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