LE BAMBINE SILENZIOSE

Silenziose prima, perché chiuse nell’appartamento del pedofilo che le ha rapite, e impossibilitate a comunicare col mondo mentre lui le stupra a turno, ripetutamente, e le terrorizza raccontando loro di un vicino tanto cattivo che sicuramente salterebbe loro addosso se tentassero di scappare, mentre lui è tanto buono, tanto gentile (“credete forse che un altro si prenderebbe la briga di usare il lubrificante?”)
E silenziose dopo, per il tremendo trauma subito, silenziose perché anche dagli psicologi che sono stati ingaggiati per aiutarle si sentono violentate in questa continua richiesta di parlare, di raccontare, di rivivere. Silenziose perché non tutto si può raccontare, non tutto si riesce a tirare fuori, non tutto si riesce a guardare in faccia. E silenziose anche fra di loro, ad un certo punto, perché la tragedia vissuta riesce, sia pure solo temporaneamente, a spezzare anche la loro meravigliosa amicizia, a guastare quella straordinaria complicità che aveva permesso loro di trovare la forza di resistere durante i terribili giorni del sequestro.
Questo, a differenza del precedente, non è un romanzo: è la storia vera di due bambine inglesi di dieci anni, rapite mentre stanno andando a scuola da uno dei tanti, troppi immondi esseri subumani che infestano il nostro pianeta. È la storia del loro mondo, delle loro famiglie, del loro rapimento, del difficile, dolorosissimo ritorno alla vita, della rottura, altrettanto dolorosa, del loro legame e del successivo riannodare i fili spezzati.
charlene e lisa
È una storia purtroppo simile a infinite altre – e tante altre storie si sono concluse con delle piccole bare bianche, o con una scomparsa senza ritorno. Si sta male, a leggere queste storie, eppure bisogna farlo, ché non si aggiunga, al loro silenzio innocente, anche il nostro silenzio colpevole e complice.
lebambinesilenziose
Charlene Lunnon – Lisa Hoodless, Le bambine silenziose, Newton Compton

barbara

AMABILI RESTI

Che poi, se vogliamo essere precisi, dovrebbe intitolarsi “Amabile resto” perché il resto in effetti è uno solo: un gomito, per la precisione, scappato fuori dal sacco del pedofilo assassino che l’aveva violentata, uccisa e poi fatta a pezzi, per meglio liberarsi delle ingombranti prove del delitto.
A raccontare la storia è Susie, la vittima: ci narra di come è stata intrappolata e tutto il resto, e poi continua a raccontarci quello che è successo dopo la sua morte, le reazioni dei suoi familiari, le indagini, che nonostante le prove che via via emergono non arrivano a incastrare l’assassino, la decisione del padre di farsi allora giustizia da solo. Parla anche di se stessa, del posto provvisorio in cui si trova, e dal quale, per il momento, può vedere ciò che accade sulla terra, e nel quale incontra anche tutte le altre vittime del suo assassino.
Potremmo aspettarci qualcosa di macabro, da una storia così, o di greve, e invece non lo è, neanche un po’. È una storia bella, avvincente, un po’ triste ma neanche poi tanto; ed è profonda indagine psicologica delle reazioni di persone normali di fronte a una vicenda che di normale non ha nulla, ed è descrizione e racconto di relazioni umane, di sentimenti, ed è anche un cercare di entrare nella mente dell’assassino – e questa è una cosa che Alice Sebold conosce bene, vittima, al tempo dell’università, di un brutale stupro. Che potrebbe sembrare un pleonasmo, perché come potrebbe mai uno stupro non essere brutale? E invece ci vuole, perché il suo è stato davvero uno stupro eccezionalmente brutale, al punto che il libro autobiografico in cui narra la vicenda si intitola Lucky, fortunata: fortunata ad essere uscita viva da una cosa come quella, come le dice anche l’agente di polizia che raccoglie la denuncia. E insomma è un libro bello, che si legge bene, che non crea incubi né crampi allo stomaco, e vale davvero la pena di leggerlo (ma la copertina dell’edizione italiana, lasciatemelo dire, è veramente orrenda).

Alice Sebold, Amabili resti, edizioni e/o
amabiliresti
barbara