SI PUÒ DIRE “BALDRACCA EBREA”?

Si può dire “baldracca ebrea” senza essere antisemiti? Io direi di sì: se una signora si trova ad essere contemporaneamente ebrea e baldracca, ed esercita la propria baldracchitudine proprio in qualità di ebrea, direi che è pienamente legittimo dirlo. Se poi della suddetta signora si pretende anche di fare un santino, una donna “coraggiosamente controcorrente”, un’intellettuale dal pensiero profondo da citare a destra e a manca, allora dimostrarne e documentarne la baldracchitudine e farla il più possibile conoscere è un vero e proprio dovere morale e io, credo che questo sia noto, ai miei doveri non mi sottraggo mai. E per documentare quanto sopra detto, nessuno – come spesso accade – meglio di Ugo Volli in una sua recente cartolina pubblicata su Informazione Corretta.

Il santino della Arendt, no!

Cari amici,
lo sfruttamento della memoria della Shoà contro Israele è ormai un classico, ci hanno provato con Primo Levi attribuendogli parole che non aveva mai scritto, l’hanno rifatto con infiniti assurdi paragoni fra Auschwitz e Gaza, fra la stella di Davide che campeggia nella bandiera ebraica e la svastica, parodiando la celebre fotografia che ritrae un bambino ebreo minacciato con un fucile da un soldato nazista, mettendo elmetti e divise naziste ai leader di Israele, magari disegnando una vignetta in cui la faccia di una nota ebrea appaia deformata come un mostro con tratti razzisti e sull’abito compaiano appaiati una stella di Davide e un fascio littorio… insomma questo paragone insultante viene propagandato  in mille modi.
Se riescono nell’impresa paradossale e violentissima di saldare l’immagine di Israele a quella del nazismo, gli antisemiti ottengono almeno due vantaggi evidenti: da un lato dirottano la solidarietà per le vittime della Shoà agli arabi nemici di Israele  (e l’operazione non è danneggiata dal fatto ben noto che questi abbiano avuto complicità con la Shoà stessa settant’anni fa e oggi esibiscano spesso e volentieri simboli nazisti, inneggino a Hitler e diffondano “Mein Kampf”). Dall’altro scusano la Shoà stessa e diminuiscono la responsabilità dei popoli europei che in larga maggioranza la realizzarono la favorirono, o almeno non vi si opposero.
Naturalmente non occorre pensare che vi sia una centrale propagandistica e una strategia precisa; basta pensare a un luogo comune che si diffonde, un umore anti-israeliano e dunque antisemita che vi si esprime; una di quelle forme espressive che passano quasi inavvertite e tradiscono però un modo di pensare, come quando si fa uso di stereotipi razzisti.  Ora questo gesto comunicativo ha trovato la sua realizzazione più sofisticata in un film – tanto sofisticata da riuscire nell’impresa che il film fosse proiettato in occasione della Giornata della Memoria e fosse accolto bene da un pubblico che non vuole certo considerarsi antisemita. Alludo naturalmente al film su Hannah Arendt della von Trotta.
Non intendo discutere qui del film come opera, dei suoi meriti estetici e della sua semplificazione contenutistica. Per evitare di fare una polemica personale, mi limito a citare un brano dalla critica di una delle più accreditate riviste ebraiche americane online: “Nella sequenza più strana, quasi surreale, del film, Arendt viene fermata su un vicolo deserto da un trio di agenti del Mossad. Essi cercano di intimidirla riguardo alla pubblicazione del suo libro “La banalità del male”, insistendo sulla sua potenziale nocività. “Volete bruciare i libri,” Arendt li canzona “e mi fate lezione.” Il riferimento è chiaro e voluto: gli israeliani sono i nuovi nazisti, capaci di chiedere acquiescenza dai loro nemici con la forza. La sequenza fa eco alla prima scena di “Hannah Arendt”, in cui Eichmann viene rapito da una simile strada deserta in Argentina. Sono Arendt e Eichmann entrambi vittime della stessa spinta alla violenza? Come Arendt, il film sembra confondere nazisti ed ebrei, assassini e vittime, così a fondo che non sa su quale lato situarsi. Questo è, a dir poco, profondamente inquietante. Il trionfo intellettuale della Arendt sembra richiedere l’immolazione retorica di tutti i rivali, compreso lo Stato di Israele.” (http://mosaicmagazine.com/picks/2013/06/idolizing-hannah-arendt/) La confusione fra vittime e assassini del resto è una specialità della Von Trotta, per esempio nel suo film più fortunato (“Anni di piombo”), in cui la simpatia per i terroristi era travolgente…
Ma, ripeto, non voglio parlare qui del film; meglio affrontare direttamente Hannah Arendt, perché la confusione qui viene direttamente da lei. Dopo un amore clandestino con Heidegger, che non smetterà mai di ammirare, e dopo una tesi di dottorato con Jaspers, Arendt scappa in Francia, dove lavora un po’ come segretaria in organizzazioni di soccorso sioniste. Questa vicinanza al sionismo viene meno dopo una fuga tutto sommato abbastanza facile in America. A partire dai primi anni Quaranta, Arendt si costruisce una carriera giornalistica a New York sulla base del suo antisionismo. Accusa i sionisti di essere troppo morbidi con gli inglesi, di fare compromessi coi nazisti per tirar fuori gli ebrei dalla Germania, di volere uno stato ebraico. Nella polemica trascende spesso e scrive cose che oggi troviamo solo in bocca ai nemici più violenti del popolo ebraico. Sostiene che la rivolta del Ghetto di Varsavia inizia contro la polizia ebraica, che i sionisti imbrogliano il popolo ebraico, che per certi versi sono come i nazisti. Tratta da fascisti i comitati del sionismo revisionista per la costituzione di quella che poi sarà la Brigata Ebraica, e afferma che i “sionisti generali” come li chiama, non sono affatto diversi da loro. Li accusa in particolare di prendersela inutilmente con gli arabi, di non volere la pace, di aspirare per una sorta di follia al suicidio collettivo del popolo ebraico. Le sue previsioni politiche sono tutte sbagliate, ma affermate con un’alterigia e una violenza che spaventano e indignano tutti i suoi amici. Si schiera pubblicamente contro la fondazione dello stato di Israele, fa propaganda in questo senso appoggia i tentativi di sostituirlo con un protettorato dell’Onu. Afferma trionfante che gli americani hanno capito che in verità non c’è stata colpa della Germania o del popolo tedesco, ma solo di Hitler. Nel ’48 se la prende con Ben Gurion affermando che abbia scelto l’Urss contro l’America, il che è assai bizzarro; ma altrove dice che l’Unione Sovietica è la sola ad aver abolito l’antisemitismo senza perseguitare gli ebrei, naturalmente alla vigilia delle epurazioni antisemite di Stalin. Insomma le sue tesi sul processo Eichmann sono semplicemente la conseguenza di un punto di vista anti-israeliano e antisionista molto estremo, che ha già ripetutamente espresso per tutto il corso degli anni Quaranta e Cinquanta.
Le tesi principali sul processo, che sono illustrate dal film, sono due, entrambe insostenibili. La prima è quella che si usa chiamare “banalità del male”, che non è altro se non l’accettazione alla lettera della difesa standard dei criminali nazisti (e di tutti i genocidi dopo di loro, in Ruanda, in Bosnia, dappertutto): non siamo colpevoli perché abbiamo ubbidito agli ordini. Questo palesemente non è vero. Eichmann faceva parte di un’élite che fece con competenza, entusiasmo e ferocia la sua parte. Il loro odio contro gli ebrei era antico e si era indurito in mille azioni squadristiche: nessuno li obbligava ad essere dov’erano e a comportarsi come fecero. Essi erano entusiasti e spesso andarono ben oltre il loro dovere sindacale. Ci sono parecchi testi in cui questi assassini parlano senza il contesto di un processo: interviste, conversazioni in carcere e così via. In tutti si vantano della loro azione, come le loro vittime lamentano la ferocia barbara del loro comportamento. Definire “banale” questi boia è un  insulto non solo alle vittime, ma anche alla verità e all’intelligenza, e non è comunque una tesi innocente. Infatti essa viene sviluppata nell’idea che i colpevoli della Shoà fossero tali (o in fondo fossero innocenti in quanto incapaci di intendere e di volere), perché “non pensavano”. Ora questa tesi lascia fuori dall’ambito della responsabilità non solo tali pretesi automi, ma anche gli intellettuali del nazismo, giuristi come Carl Schmitt, scrittori come Céline, poeti come Pound e mille altri fra cui in prima fila Heidegger, che era stato l’amante di Arendt e lei sempre difese. Al di là degli aspetti personali, la tesi rappresenta il nazismo come qualcosa di estraneo alle dinamiche storiche e di pensiero della Germania e dell’Europa, ne fa un’eccezione, lo rende inspiegabile. Del resto era ciò che la stessa Arendt aveva sostenuto nel brano che ho già citato: solo Hitler era il colpevole. O, aggiungo io, neppure lui, prontamente coperto dall’attenuante di una comoda follia.
Nessun colpevole, dunque? No, qui interviene la seconda tesi di Arendt, la più ignobile. Colpevoli sono stati gli ebrei. Già, perché invece di dissolversi in una totale disorganizzazione, seguirono la loro antica esperienza storica, accettarono di costituire delle dirigenze anche sotto l’assalto nazista (che peraltro le richiedeva o se non c’erano, le costituiva d’autorità). Come ha spiegato in un libro breve ma importante lo storico Yerushalmi, gli ebrei nei secoli hanno sempre cercato di reggere le persecuzioni negoziando col potere, accettando i suoi ricatti di denaro, piegandosi ben oltre la dignità fino al limite della propria identità, rifiutando solo di tradire la propria identità religiosa e collettiva. Si comportarono così anche le persone che nell’immane tragedia della Shoà si trovarono a reggere delle comunità. Alcuni impazzirono fino a fare i piccoli tiranni, altri cercarono dei profitti personali, non c’è dubbio. Ma erano una minoranza. I più cercarono di fare il possibile per salvare delle vite, per protrarre la sopravvivenza, talvolta per ribellarsi. Molti si uccisero, prima o poi. Arendt, che assolve Eichmann, per mancanza di pensiero, se la prende con le sue vittime, che invece secondo lei che pensava comodamente nel suo studio dalle parti di New York, avevano il torto di voler fare dei compromessi con lo stesso Eichmann. Come i sionisti, altra bestia nera della Arendt. Mi è difficile stare calmo pensando a questa signora presuntuosa, che non capisce nulla di politica e di umanità ma pretende di insegnarla, resta amica per tutto la vita di Heidegger e condanna sdegnosa le vittime dei campi, i membri dei consigli ebraici e anche gli altri che li accettavano. Quando qualcuno le chiese se non sentiva un minimo di solidarietà coi suoi fratelli, diede una risposta di agghiacciante altezzosità: io non amo in particolare nessun popolo (o proprio nessuno, la parola è people), non vedo perché dovrei trovare simpatia per il popolo ebraico (o per gli ebrei: Jewish people).
La Arendt è una giornalista confusa e pasticciona, sommamente ideologica, ma di un’ideologia bizzarra e fumosa, che non è né comunista né liberale, né socialista né democratica, ma vagamente cooperativa e federale. E’ diventata famosa per via di un paio di libri (quello sul totalitarismo e quello sulla “condizione umana”) che riprendevano tesi altrui, per esempio di Strauss, con infinita arroganza. Non si è detta filosofa ma teorica della politica; in verità non è stata una cosa né l’altra. Tutto ciò è scusabile, la sua carriera non ha né più né meno valore di quella di tanti intellettuali di successo. Ma per favore non facciamone un santino, non presentiamola come una che resiste a chissà quali pressioni. I suoi amici che le tolsero il saluto in seguito all’operazione pubblicitaria di presentare il processo ad Eichmann come un processo di stato staliniano (fra l’altro, mi dicono, avendo seguito assai poco le udienze), non le fecero del male, lo subirono. Se oggi c’è la Giornata della Memoria e se si ricorda la Shoà come quell’abominio che fu, il merito non è degli storici o del processo di Norimberga, che non si incentrava su questo, ma della grande analisi, del lavoro di liberazione della memoria voluto da Ben Gurion. Contro cui Arendt esercitò liberamente tutta la sua opposizione  e il suo sarcasmo. Farne oggi un’icona della memoria ebraica è veramente troppo.

Ecco: un’ebrea che si fa sbattere da un nazista e poi col culo al caldo si permette di giudicare chi del nazismo fu vittima, va chiamata con nome e cognome: baldracca ebrea.

barbara

  1. tu puoi scrivere ciò che vuoi ,ma per me sono due insulti uno razzista e l’altro maschilista. E proprio da te che ti definisci una femminista e che quindi dovresti aborrire
    Cosa vuol dire”si è fatta sbattere da un nazista?” è un delitto ,per caso?
    Un’ebrea non può innamorarsi,o anche solo provare attrazione per un nazista?I tedeschi non hanno un’anima?Tutte quelle ragazze uccise e rasate perché andavano con i tedeschi se lo sono meritato? Dovevano fare lo stesso con lei?
    per quanto riguarda il fatto che abbia definito alcuni ebrei collaborazionisti dei nazisti,è la verità. Certo,lei trincia giudizi,ma la polizia ebraica ,i kapò e gentaglia simile esisteva,eccome. Alcuni lo facevano per paura,ma altri erano davvero dei bastardi,ed erano più odiati dei tedeschi
    Tu dici che lei è stata con il culo al caldo a giudicare,ma tu in un certo senso fai lo stesso: se fossi stata nel ghetto e avessi avuto a che fare con un collaborazionista ebreo di certo non avresti pensato”E poverino,lo fa per paura”,piuttosto gli avresti augurato di morire
    Non piace neanche a me la definizione del male che ne dà,però è innegabile che a volte una persone che sembra insignificante è capace di atti orrendi

    "Mi piace"

    • Primo: non mi sono mai sognata di definirmi femminista in vita mia, quindi non venire a dire stronzate frutto della tua fantasia.
      Secondo: sì, farsi sbattere da un nazista mentre il tuo popolo viene sterminato dai nazisti e continuare a difendere il nazista dopo che tutto è finito È un delitto.
      Terzo: io non sono stata in un ghetto, tu non sei stata in un ghetto, Hannah Arendt non è stata in un ghetto, e chiunque non sia stato in un ghetto non ha il minimo diritto di giudicare i comportamenti e le scelte di chi ci si è trovato.
      Quarto: io faccio lo stesso di lei? No: io non mi sono mai fatta sbattere dai nazisti.
      Quinto: se ti fa piacere difendere una lurida baldracca nazista sei liberissima di farlo, ma non qui dentro.

      "Mi piace"

  2. eh,ma se era innamorata,scusami….e poi lui non aveva fatto niente di male,è ovvio che lo difendesse. Non hai risposto a ciò che ti ho detto sulla sorte delle ragazze che andavano con i tedeschi,proprio come lei
    Meritavano?
    Io non sono mai stata nel ghetto,ma Aharon Applefield che queste cose invece le ha vissute,ha detto di non voler perdonare i kapò e gli ebrei collaboratori dei nazisti
    Io ho espresso un’opinione,diversa dalla tua,ma siamo in democrazia

    "Mi piace"

  3. Scusami ma non riesco a definire la Arendt una baldracca ebrea. Puoi contestarle la sua visione del processo Eichmann, ma da qui a lla tua definizione cene corre e tanto. La Arendt non difese mai Eichmann, quello che spiegò era la pochezza dell’uomo sotto processo. E nel libro non dà la colpa agli ebrei, ma racconta anche il dramma delle comunità.No non era una baldracca ebrea

    "Mi piace"

    • Sei sicuro/a di avere letto il testo? Qui non si sta parlando del processo Eichmann bensì di TUTTA la sua vita.
      Interessante poi il fatto che parti dicendo che tu non riesci a definirla una baldracca ebrea, ossia hai un’opinione diversa dalla mia, e chiudi dicendo che NON ERA una baldracca ebrea, ossia decretando una verità assoluta. E a questo punto non posso fare altro che ribadire che SÌ, ERA UNA BALDRACCA EBREA.

      "Mi piace"

  4. La cosa bizzarra è che si continua – in commenti che non vengono pubblicati, perché non siamo all’asilo e due avvertimenti possono bastare – a proporre come attenuante il fatto che “era innamorata”. Quando io, con tutta la buona volontà, non riuscirei a immaginare un’aggravante peggiore: perché per innamorarsi di un nazista una deve essere tanto ma proprio tanto tanto baldracca inside.

    "Mi piace"

  5. Baldracca è chi fa sesso per soldi o altri favori economici, se pensi che abbia scritto falsità, sarebbe meglio chiamarla BUGIARDA EBREA, OPPURE STRONZA EBREA, ma baldracca no!
    Mi pare anche ingiusto verso chi pratica il mestiere più antico del mondo, senza far del male o dare fastidio a nessuno

    "Mi piace"

      • Anche se la vogliamo intendere in maniera diversa, di solito per troia o baldracca, ci si riferisce a una donna sessualmente molto “generosa”, tipo la “bocca di rosa” di De André, una che la dà a tanti uomini contemporaneamente

        "Mi piace"

      • A meno che per baldracca non si intenda “infedele”, traditrice nei confronti del popolo ebraico. Ma bisogna anche considerare che l’essere ebrei non è una libera scelta, ma una fatalità, e il volersi dissociare dal pensiero dominante e/o dal sentimento d’appartenenza alla comunità in cui si è nati, non è proprio tradimento, ma al massimo potrebbe essere considerato “ingratitudine”

        "Mi piace"

  6. Io la penso come te Barbara, senza tanto attardarmi a fare sofismi sul più corretto significato della parola baldracca. Quando ho letto il titolo del post ho immaginato subito a chi il post fosse riferito, perché giusto qualche giorno prima avevo letto la cartolina di Ugo Volli e ne ero rimasto molto impressionato, anzi di più. Inconcepibile a mio modo di vedere.

    "Mi piace"

  7. Se proprio mi chiedi, secondo me non si può dire, ma per un altro motivo: perché non è vero. Questo per quello che ne so io.
    Il film invece non l’ho visto, volevo vederlo con mia figlia, poi lei l’ha visto con la classe e mi ha detto che è noiosissimo e ho rinunciato (anche le recensioni confermavano questa opinione).
    Che fanno le zampe? Ho letto più giù l’avventura sulle strisce e ho lanciato una mezza dozzina di ESSU!!! ma il mio commento non è apparso. A parte le ginocchia, non sei rimasta un po’ traumatizzata?

    "Mi piace"

    • Naturalmente era una domanda retorica, perché la risposta è assolutamente scontata. Naturalmente se per baldracca intendi signora dai costumi sessuali eccessivamente liberi (“eccessivamente” poi non si sa a giudizio di chi), non so se lo sia e neppure mi interessa; se invece si intende, come lo intendo io, baldracca nell’anima, allora lei della baldracchitudine è la quintessenza.
      Di commenti tuoi non ne ho trovati né in sospeso, né in spam: sei sicura di avere inviato?
      Le zampe stanno come possono, il ginocchio sinistro migliora, il destro è ancora in carne viva, ho ematomi dappertutto e vari altri accidenti. Traumatizzata un po’ sì, ma non è quello il sentimento prevalente. Al momento dell’impatto il sentimento prevalente è stato il terrore; una frazione di secondo prima, ossia nel momento in cui ho visto questo che non stava frenando e mi stava arrivando addosso, l’unica cosa che sono riuscita a provare è stata l’incredulità. E’ durato appunto una frazione di secondo, poiché immediatamente dopo c’è stato il botto, però nella testa ce l’ho proprio ben chiara questa sensazione di incredulità. Poi è subentrato una sorta di fatalismo, anche quando sotto la mia faccia ho visto la pozza di sangue: non c’è più niente che io possa fare, quindi prendiamo quello che viene. Non mi sono agitata, non mi sono arrabbiata, non mi sono innervosita in attesa dell’ambulanza, niente. Questa è una mia caratteristica da sempre: nella routine non valgo più di qualunque imbecille, ma nelle emergenze, di qualunque tipo, riesco a dare il meglio di me.

      "Mi piace"

  8. Dimenticavo, un off topic importante:
    Non è che hai qualche buona lista di libri che un (‘) adolescente dovrebbe leggere? (Se riesco a sottrarre a mia figlia lo smartphone, potrebbe essere utile)

    "Mi piace"

      • Non provo nemmeno a dare consigli di lettura, il confronto con Barbara sarebbe impietoso (per me ovviamente) ma poichè ho superato da poco l’età di tua figlia mi permetto di dirti come la penso.
        Io ho iniziato a leggere all’incirca quattro cinque anni fa per motivi assolutamente contingenti (di vulva precisamente). Mi frequentavo con una tipa che leggeva libri ad un ritmo mostruoso (che poi non ne avesse capito mezzo di quelli letti è un altro paio di maniche…) e così anche io, un po’ per sostenere le discussioni, un po’ perché già leggevo molto di mio su internet, iniziai a diventare un discreto lettore allontanandomi poi dai futili motivi iniziali.
        Con sincerità e franchezza, credo che il modo migliore che hai per fare rimanere incollata tua figlia allo smartphone sia proprio regalarle un libro. Se vuoi iniziarla alla lettura (ma è necessario?) non farle mai alcun riferimento esplicito al fatto che ti farebbe piacere che lei iniziasse a leggere, frasi del tipo “ora ti dimostro che è utile leggere” o “leggere è bellissimo” perché avrebbero lo stesso successo che riscuotono presso il grande pubblico celebri massime come “pagare le tasse è bellissimo” “il posto fisso è monotono” etc.
        Se un giorno volessi iniziare io mia figlia alla lettura proverei in maniera indiretta, portandola al cinema a vedere un film tratto da un libro che ho letto, dicendole all’uscita che il libro è molto più interessante e poi cercherei di passare in una libreria vicina – utilizzando motivi che non c’entrano nulla con un suo coinvolgimento diretto– e solo lì le chiederei se è interessata a leggere il libro (del quale non chiederei poi il parere). E se tutto ciò non funzionasse poco male, vuol dire che la lettura non sarà in quel momento il suo forte. Non mi pare un dramma.
        Trovo più produttivo provare a trasmetterle vibrazioni positive senza puntare ad una passione tanto impegnativa che richiede concentrazione e moltissimo tempo. I rischi di un’introduzione precoce alla lettura sono la possibilità che i figli prendano la strada di quelle noiosissime creature che leggono solo per i vaniloqui di fronte agli adulti o la ripulsa(perché inconsciamente si crede che il “non saper leggere” implichi un difetto di capacità) o il completo disinteresse. Per spiegarmi meglio ti dico una cosa che è mi è capitata. Un giorno, quando avevo otto anni, mio padre prese una scacchiera e decise che voleva spiegarmi le regole del gioco degli scacchi, io volevo giocare a dama di cui già conoscevo le regole e degli scacchi proprio non me ne fregava nulla. Mio padre però aveva avuto questa idea e avevo capito che non avrebbe giocato con me se non lo avessi ascoltato. Già da piccolo ero testardo come un asino, e così pensai ad un compromesso: io l’avrei ascoltato mentre mi spiegava le regole e solo successivamente avremmo giocato a dama. Sai cosa successe? Che dopo quell’oretta per sei anni non pensai minimamente ad una scacchiera. E sai che succede oggi? Che se solo mi fosse possibile, abbandonerei tutto per continuare a fare tornei di scacchi, la mia grande passione.
        Non mi riferisco ovviamente a te ma anche se con intenti assolutamente amorevoli, sbaglia il genitore che vuole che il proprio bambino, adolescente, ragazzo, insomma il proprio figlio di prendere una determinata direzione. Se perfino io, con una predisposizione di quel tipo ho rifiutato di imparare le regole, immagina chi invece non è interessato per nulla!
        Io nel tuo caso punterei sul cinema o sul teatro: attività coinvolgenti, culturalmente stimolanti e che non richiedono alti livelli di concentrazione. Regalale due abbonamenti, uno per lei e un altro per un’altra persona che desidera e magari vedi che alla fine le nasce il tarlo.

        "Mi piace"

        • Grazie Rasko per i tuoi consigli. Lo so anch’io che se vuoi raggiungere qualcosa, in particolare dai tuoi figli, devi usare metodi subliminali. 🙂
          Il problema dalla mia figlia non è iniziarla alla lettura (si è autoiniziata all’età di quattro anni ed è stata una grande lettrice fino a un paio di anni fa), ma riportarcela.
          Ma forse dovrei cominciare da me. Anche io da quando uso lo smartphone non riesco più a leggere un libro!!!

          "Mi piace"

        • I miei scolari erano di madrelingua tedesca, quindi quello che potrebbe andar bene per loro come contenuto è inarrivabile dal punto di vista linguistico, e quello che è adeguato dal punto di vista linguistico non lo è per il contenuto, di conseguenza di letture integrali con loro non ne ho fatte molte.
          Così sui due piedi mi viene in mente il Diario di Zlata, di Zlata Filipovic, adolescente durante la guerra in Jugoslavia, Come siamo fortunati, di Carl Friedman in cui l’autrice, nata dopo la guerra, rievoca quello che il padre deportato raccontava a lei e ai suoi fratelli quando erano bambini (fortunati in quanto nati dopo, quando tutto era finito), se per caso apprezza il fantasy ci sarebbe tutta la saga di Silvana De Mari, che è un fantasy piuttosto particolare. Se poi vuoi seguire il suggerimento di Rasko, suggerisco Il cacciatore di aquiloni.

          "Mi piace"

  9. Il tedesco lo sa bene o forse un tocco meglio dell’italiano: è bilingue (aggiungerei perfettamente bilingue a parte che parla italiano con una cantilena tipo Ratzinger!). Se penso a libri in italiano è proprio perché ho paura che se lo dimentichi…

    Grazie per i consigli, i primi due non li conoscevo. Gli aquiloni invece possono aspettare (io lo vieterei ai minori di VENTUN ANNI).

    "Mi piace"

    • Una mia scolara ne è stata talmente affascinata che ci ha fatto persino la tesina per gli esami di terza media – ne ho postato un tema, a suo tempo, con una storia ambientata nell’Afghanistan dei talebani, ispirata proprio da questa lettura.

      "Mi piace"

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...