E arriva Ze’ev Tibi Ram, uno dei due sopravvissuti alla Shoah che hanno combattuto in tutte le guerre di Israele. Tibi è il perfetto simbolo del “Shoah ve Tkuma”, Shoah e rinascita. Proprio in quanto sopravvissuto alla Shoah – in cui ha perso tutta la famiglia – Tibi comprende meglio di chiunque altro l’importanza di difendere lo stato ebraico.
Ora è l’orgoglioso nonno di un soldato dell’esercito israeliano.
Due piccole precisazioni:
Nassi aveva assicurato al Presidente di Italia-Israele di Roma che avrebbe potuto leggere un breve discorso in ricordo della Brigata.
Quando Nassi è tornato indietro è stato per recuperare il gruppo di “Free Palestine” come viene correttamente accennato nella descrizione del video.
C’è anche da ricordare che:
anche l’anno scorso è stato impedito allo stesso Presidente di parlare,
qualche anno prima (2010?) poté farlo, ma fra mille difficoltà perché venne più volte interrotto da urla, fischi e aggressioni verbali
qualche anno ancora prima vennero aggrediti fisicamente due ex deportati (Alberto e Piero Terracina) perché portavano lo striscione (nessuna bandiera) della Brigata Ebraica.
A voi le conclusioni…
Elena
Ai manifestanti: “Su richiesta della polizia abbiamo dovuto sospendere questi interventi, e noi non possiamo fare niente, non possiamo fare niente.” Al giornalista: “No, più che disposizione è stato un consiglio, per onestà, un consiglio… E non ho altro da aggiungere.
Per la serie: una buona causa finita in pessime mani. La buona causa è quella a cui il libro è dedicato: il Cuamm, Collegio universitario aspiranti e medici missionari. Un’associazione di cui nessuno o quasi ha sentito parlare perché loro non si fanno pubblicità, non fanno comparsate televisive, non spendono tre quarti del loro budget in public relation: loro agiscono e basta, dove c’è bisogno prendono e vanno, senza tanti clamori, e fanno quello che c’è da fare.
Mi misero davanti cifre stupefacenti. Milletrecentotrenta uomini e donne, per un totale di quattromilatrecento anni di servizio, si sono mossi su duecentoundici ospedali tra il Sudan e il confine settentrionale del Sudafrica. Un esercito. Una bandiera. Millecentoventitré medici e altri operatori più duecentosette coniugi al loro seguito, la maggioranza del Centronord, molti veneti e lombardi, ma anche tanti meridionali; da diciannove regioni su venti e novantatré province su centodieci. Milletrecentotrenta storie che in silenzio hanno cambiato il mondo della sanità pubblica nel Continente nero. E poi una solidissima reputazione di affidabilità, costruita con i fatti e non con la comunicazione, perché sono convinti che non si devono strumentalizzare i malati per la pubblicità. C’era l’Africa, in mezzo a quella gente. La scelta, nel 2008, di nominare direttore del Cuamm don Dante Carraro, veneto anche lui, lasciava trasparire l’idea di un’operatività ancora più spinta. Difatti viaggiava come un matto su e giù per l’Africa, da un Tropico all’altro, per verificare, controllare, incoraggiare, risolvere problemi in ciascuno dei sette paesi dove opera l’organizzazione. Diplomato in servizi sanitari e nella gestione delle risorse umane, mi fece capire che il Cuamm non è un pachiderma che sostenta se stesso, ma, nella massima trasparenza, riesce a contenere al 9,3 per cento i costi amministrativi e a dedicare il 90,7 per cento delle uscite del bilancio ai progetti in Africa. Solo nel 2009 sono state fatte 437.492 visite ambulatoriali, 50.497 visite pre e post natali, 108.442 ricoveri, 123.016 vaccinazioni, 19.491 parti.
Storia di un’organizzazione, di un ideale, di un impegno, e storie di uomini e donne che in questo impegno hanno creduto, e ancora storie di lotte contro una burocrazia ottusa, in mezzo al tiro incrociato dei giochi di potere, il tutto splendidamente narrato, col ritmo incalzante di un film d’azione.
Qual è dunque il neo? Sono i giudizi che Rumiz dissemina a piene mani, e per i quali non troverei inadeguato parlare di vero e proprio razzismo: gli africani sono belli e gli europei sono brutti, gli africani sono eleganti e gli europei sono goffi, gli africani sono intelligenti e gli europei sono stupidi, gli africani sono generosi e gli europei sono avidi, gli africani sono onesti e gli europei sono disonesti, gli africani sono sinceri e gli europei sono falsi, gli africani sono riconoscenti e gli europei sono ingrati, gli africani hanno dei valori in cui credono e gli europei si sono persi nel consumismo, gli africani sono aperti e gli europei sono gretti… Peccato, davvero. Vale comunque la pena di superare il pur non modesto fastidio, e leggere il libro.
Paolo Rumiz, Il bene ostinato, Feltrinelli
POST SCRIPTUM: poi, volendo, di bene ostinato se ne trova anche qui.
La croce assassina è esattamente come la montagna assassina, la curva assassina, la nebbia killer: non esiste (e ogni volta che sento le suddette espressioni, la mano mi corre, come si suol dire, alla pistola). Esistono dei pazzi criminali che affrontano a 120 curve che ne tollerano sì e no 60. Esistono pazzi criminali che si buttano a 100 all’ora con una nebbia che non ci si vede a due metri. Esistono dei coglioni che affrontano la montagna senza conoscerla e senza esservi preparati. Ed esiste un coglione criminale che si immagina di poter sfidare la forza di gravità, e una banda mastodontici coglioni criminali che danno tutte le autorizzazioni necessarie (in un Paese in cui ti occorrono decine di scartoffie e anni di attesa per essere autorizzato a modificare di due centimetri il balcone di casa) e non ritengono neppure necessario recintare quella spada di Damocle sospesa sugli innocenti. Quando poi un sedicente giornalista ritiene di dover aggiungere e per una tragica coincidenza residente in via Papa Giovanni XXIII (che infatti se la vittima avesse abitato in via Massimo D’Azeglio, la famiglia ne sarebbe stata di molto ma di molto racconsolata, e lui molto meno dispiaciuto di dover morire), e il titolista, fulminato sulla via di Damasco da questa geniale osservazione, decide di riprenderla nel sottotitolo Per un’assurda coincidenza la vittima abitava in via Papa Giovanni XXIII, ecco, forse ripristinare la pena di morte sarebbe un pelino eccessivo, ma la tortura dell’olio bollente secondo me ci starebbe tutta. Ma proprio tutta. E ogni volta che qualcuno pronuncia o scrive le suddette espressioni che attribuiscono a cose inanimate e innocenti l’umana criminalità, una robusta martellata sull’alluce.
Lettera aperta al Colonnello Gheddafi letta a New York in occasione del 10′ Convegno Internazionale degli Ebrei di Libia
Ci sono paesi disamati dalla storia. Incapaci di offrire ai loro popoli, contro un misero presente, la consolazione di un glorioso passato. Incapaci perfino di trarre profitto dalle loro disgrazie, di trasformare gli oltraggi subiti in leggende esportabili. Paesi che, privi di un fiume per benedire le loro terre, di un eroe per difenderle, di un poeta per cantarle, sono affetti da anonimato cronico.
Il paese in cui son nato è fra questi. Prima che il suo nome fosse propulso nel cielo dei media, dai capricci congiunti del petrolio e di un tiranno, quest’immenso territorio non è stato, per 2.000 anni, che una fabbrica di dune. Uno zero, un’amnesia, un sacco di sabbia sventrato e disperso su 1.759.000 chilometri quadrati di mancanza d’ispirazione del Creatore, una sala d’aspetto immemorabile dove non ha mai degnato fermarsi il treno di un’epopea, un vuoto, soffocante e torrido che separava, come una punizione, l’Egitto della Tunisia. Oggi ancora, benché l’afflusso di petrodollari gli abbia permesso di passare dall’oscurità all’oscurantismo, questo paese resta, agli occhi del mondo, l’anticamera delle Piramidi, il retrobottega dei gelsomini. Culturalmente parlando: il parente povero dell’Islam.
Il Colonnello lo sa. Anzi ne è così conscio che dopo aver importato i migliori architetti d’Occidente per tracciare audaci prospettive in questo gigantesco piatto di couscous spazzato dai venti e centinaia di artigiani dall’Oriente per ornarne i volumi ancora freschi di bassorilievi, rosoni, mosaici e vetrate – ha tentato di appropriarsi della storia dei suoi vicini, con proposte di matrimonio di un’insistenza patetica, generalmente rifiutate, o seguite da immediati divorzi.
Arrenditi all’evidenza, Colonnello. Né la tua bella faccia da antagonista, né il pennacchio dei tuoi pozzi, né le scie dei tuoi “mirage” in cieli non tuoi, né il tuo vivaio di terroristi riescono a trattenere a lungo l’attenzione del nostro mondo distratto. Una forza centrifuga maledetta fa svaporare il beneficio dei tuoi misfatti, come l’acqua dei tuoi “wadi”, impedendo alla tua periferia di trasformarsi in centro. Malgrado i tuoi sforzi, questo paese resta senza viso, come i tuoi sicari, e senza voce, come in passato.
A volte, quando il tuo sorriso gallonato mi sorprende, appeso ad un’edicola, mi congratulo con te, da lontano, per aver saputo una volta ancora risorgere dal sabbioso oblio al quale ti condanna il destino. E, forse per smussare il tuo perforante sguardo, o l’interminabile diga dei tuoi denti, mentre mi compro con 2.000 lire la tua testa da adulto, ti immagino bambino, sì, m’invento nostalgie da fratello maggiore e ti vedo, lupacchiotto di quattordici anni, disteso, la sera nella tua stanzetta, con l’orecchio al transistor, che ascolti esaltato la voce di Nasser, il cui carisma saturato ti arrivava dal Cairo, e ti sento esclamare, fra due incitazioni del Rais alla guerra santa “anch’io, un giorno, come lui!”
Il tuo sogno: aggiungere un nuovo capitolo, a tuo nome, nel Grande Libro dell’Islam. Ma Allah è grande, caro cugino, e nella sua immensa saggezza, deve aver deciso che era meglio riservare al tuo paese, che fu un tempo il mio, il ruolo esaltante di “antiporta”, cioè la pagina bianca che precede il testo, e che tale resta, se una dedica non viene ad abitarla
L’unico inconveniente è che tutte le popolazioni che vi hanno vissuto, nei secoli, hanno subito lo stesso destino di “cancellazione”. Cominciando dalle minoranze etniche o religiose, berbere, cristiane ed ebraiche, che chiamaste “dhimmi”, cioè cittadini “protetti”. Delicato eufemismo per dire ostaggi in attesa di conversione. Essere l’oppresso di un potente offre a volte vantaggi culturali: catene d’oro, tempo per piangere, ecc. Essere l’oppresso di un oppresso, nessuno. Ebrei di un paese senza luce, fummo gli ebrei più spenti del Mediterraneo.
Privi di quel prestigio di riflesso di cui godono, di solito, i domestici dei grandi Principi, e di cui godettero, almeno una volta durante il loro esilio, tutte le altre comunità. La nostra storia fu così negata, sepolta, per tanti secoli, che senza il libro dello storico Renzo De Felice, Ebrei in un paese arabo, un libro splendido, voluto con tenacia quasi mistica da un fratello della nostra comunità, di questa non resterebbe più, oggi, traccia, né, domani, ricordo. Infatti, dopo aver assaggiato come tutte le consorelle un menù di umiliazioni di una varietà squisita: massacro alla romana, alla mussulmana, alla spagnola, segregazione alla maltese, all’ottomana, leggi razziali nazi-fasciste, e per finire, pogrom post-bellici, compiuti dai nostri fratelli arabi sotto l’occhio dei nostri tanto attesi liberatori britannici, la mia comunità fu pregata di lasciare il paese l’indomani della Guerra dei sei giorni, meno i suoi morti, trattenuti per portare il loro contributo alla Rivoluzione, mediante ossa e lapidi le quali, debitamente frantumate dai bulldozer, sono servite da base a un’importantissima autostrada costruita d’urgenza per collegare il nulla al nulla, e a due giganteschi alberghi per un turismo tuttora inesistente. Così, io, Ebreo senza più radici né memoria, ho aperto il libro ed ho scoperto
che la nostra presenza in Libia risaliva a più di 2.170 anni;
che precedeva quindi non solo l’invasione araba, ma anche quella romana;
che, bellicosi e fedeli al nostro Dio, contro l’esercito romano ci eravamo sollevati, appena avuta notizia della caduta del tempio di Gerusalemme;
che quella sommossa ci era valsa decine di migliaia di vittime, ma anche una lapide in latino che riferisce il fatto, e senza la quale non sapremmo che fummo una così antica e coraggiosa comunità
Ma questa è storia, dicevo girando le pagine, storia che fonda la mia legittimità, ma non basta, io voglio di più, io… io non sapevo cosa volessi, ma lo trovai. A pagina 41.
Un censimento della popolazione ebraica di Tripoli.
Il primo della nostra storia. Effettuato da Giuseppe Toledano, capo della comunità, nel 1861, e miracolosamente scampato ai falò del Colonnello. E cominciarono a sfilare sotto i miei occhi, debitamente numerati:
1 Rabbino capo
17 Rabbini
11 Studenti, e poi tornitori, droghieri, tavernieri, sterratori, sarti, macellai, scrivani, chiromanti, levatrici, facchini, donne e bambine, malati e mendicanti, in tutto: 4.500 abitanti.
Che il professar De Felice sia ringraziato per questo documento. Avevo finalmente sotto gli occhi la prova, inconfutabile che gente del mio sangue era effettivamente vissuta, lì, fra le dune e il mare, colmando, di generazione in generazione, la mitica voragine che separava nostro padre Abramo da mio nonno, Abramo anche lui. Certo non erano i poeti matematici filosofi e medici che fiorivano i giardini della Spagna mussulmana, e curavano i mal di testa dei califfi illuminati, ma era pur sempre la mia famiglia, o perlomeno il perimetro sociale entro il quale senza dubbio alcuno, si era mossa. Mi misi dunque a trascrivere questa lista a mano, sicuro che uno dei miei sarebbe passato, presto o tardi, sotto la mia penna. E questo modesto rito bastò a far sì che il vapore dei ricordi si condensasse dietro ai miei occhiali, che si mettesse a piovere, a distanza, su quella striscia di asfalto dove i miei morti giacevano prigionieri, che questa scoppiasse, che un albero ne uscisse, coronato di foglie, popolato di uccelli.
Il mio albero genealogico, per approssimazione.
Chi potrà più dire l’odore delle pelli e la loro lucentezza, ai tempi in cui il sapone si chiamava olio di mandorle? La magrezza indiana dei bambini, il carbone dei loro sguardi, quel modo così arabo di essere ebrei che avevano gli ebrei di Trablous. Donne prosperose o gracili, vestite di sete rigate, cangianti, la vita cinta in quadroni d’argento, le teste avvolte nei foulards i quali, scivolando cento volte al giorno sulle loro spalle, scoprivano capigliature corvine o rosso hanna, e ondulate come il mare visto dai terrazzi Odore di cammun, di felfel, di atar e gelsomino, fiori e febbri, spezie e sudori, correnti d’aria fritta o di orina nei cortiletti di quel dedalo scalcinato che era la Hara, il nostro ghetto [Hara, in arabo, significa merda, ndb]. E i turbini di mosche intorno agli occhi degli asini fatalisti, la polvere di loukhoum sul naso dei bambini buoni, e i capretti appesi nei giorni di mercato, le montagne di cipolle viola, di datteri lucenti, di peperoni dai colori fluorescenti; e i polli che venivano comprati vivi, e portati via tenuti dalle zampe, come mazzi di fiori, per essere uccisi in casa, secondo le regole, in fondo ai giardinetti miseri, – due gerani, un ramoscello di menta, un oleandro, la cui acida linfa, ad ogni fiore colto, vi si attaccava alle dita
Chi potrà più raccontare la severità, la misericordia, dei nostri vecchi barbuti, in turbante, Fez, Bertila o Arrakyia, secondo l’epoca, dottori della legge dalle mani nodose, dalle unghie di corno, dalla pelle scavata dal tempo, ceppi della fede giudaica ancorati, loro malgrado, in questa terra tanto più amata e tanto più esiliante che somigliava troppo alla patria perduta: come una lacrima a una goccia di pioggia.
Divina monotonia del cielo azzurro; stesse palme trionfali cariche di munizioni d’oro, stessi tramonti rapidi, che insanguinavano di sole morente i talleth dei nostri padri, riuniti a dieci per la preghiera della sera, sui balconi; stesse notti crivellate di stelle, stelle così vicine che il canto dei grilli sembrava la loro voce; notti di rugiada, che facevano gonfiare i cocomeri a scatti, imitando il gracidare dei ranocchi; albe di madreperla che li vedevano già in piedi, i nostri vecchi, con gli occhi di uva passa, a volte di uva verde, volti a Gerusalemme, per rendere grazie al Signore di questo nuovo giorno, che autorizzava loro a sperarne un altro e un altro ancora fino al giorno tanto atteso del ritorno alla Terra promessa; sposando, giudicando, benedicendo e morendo in quell’attesa, – mai completamente però, perché i loro figli, messi al mondo in quantità prodigiose (se non sono io, saranno loro, se sono tanti, uno vivrà, se sopravvive avrà dei figli e dagli occhi di uno di loro, finalmente, vedrò il muro. Paradossalmente, questa razza di individualisti non si considera come alberi di una foresta, ma come foglie di un medesimo albero, e, precisamente, la palma: ogni foglia è figlia e madre del tronco, ed è grazie a quelle che muoiono che l’albero cresce) perché i loro figli, dicevo, messi al mondo in quantità prodigiose, davano loro il cambio, prendevano cioè lo scialle e il Libro e si mettevano a vivere, pregare, procreare e morire a loro volta in attesa della partenza. Ma di cosa si lamenta? Dirà il Colonnello sotto la sua tenda. Voleva partire, l’abbiamo lasciato partire. Certo, ci hai perfino incoraggiati a farlo, spogliando i pochi pazzi, ancora attaccati alla loro terra, dei loro beni e dei loro diritti. Ma stai tranquillo, non è per nostalgia che ti scrivo. Non faccio parte di quei poveri infelici che per rivivere la loro infanzia tripolina vanno a passare le vacanze a Tunisi. Perché se c’è qualcosa che rifiuto di assumere, è proprio la catastrofica illusione della somiglianza, cioè, quella distanza, infima eppur vertiginosa, che separa la lacrima dalla goccia di pioggia, esattamente come quando, perduto in un souk, cerchi tua madre, la vedi, urli il suo nome, si gira e non è lei. lo, quando la chiamo, si gira ed è sempre lei: Gerusalemme, e quando voglio, ci vado.
Se ti scrivo, è per dirti che la nostra comunità è viva, che cresce e prospera, che si è rifatta, hamdullah. Perché avendo perso tutto non aveva altra scelta se non avanzare. Noi siamo come le api, Colonnello, se il padrone del campo ci ruba il miele a Settembre, lo rifacciamo in fretta, prima dell’inverno, e se continuiamo a punzecchiarti con le nostre richieste di risarcimenti è meno per interesse che per dignità, per ricordarti il tuo debito ma soprattutto la tua perdita. Siamo produttori di beni, materiali e morali, lo siamo sempre stati e tu lo sai, perché il lavoro non ci fa paura, perché il lavoro per noi non è mai stato punizione, bensì espressione, anzi, benedizione. La prova, dopo un mese nei campi-profughi di Latina e Capua, i nostri hanno abbandonato le baracche e sono partiti in cerca di lavoro, e l’Italia, che dandoci rifugio e cittadinanza ha creduto di farci la carità, si è ben presto accorta di aver fatto un investimento. Tu invece, come tutti i governanti del nuovo mondo arabo, hai voluto lavar via gli ebrei dal tuo tessuto sociale. Ne hai corroso le fibre: commercio, artigianato, agricoltura, professioni liberali, tutto si è dissolto, è volato via come sabbia nel Ghibli e tutta l’esperienza che comprate all’Occidente non potrà sostituire l’esperienza antica che avevamo noi di voi, noi, la cui vocazione è stata, da sempre, la comunicazione: fra gli esseri, i gruppi, le etnie, le discipline, i principi, gli stati, le civiltà. Vocazione che fu indispensabile alla grandezza dell’islam, dell’impero russo, di quello ottomano, della Germania prenazista, e che avrebbe potuto fare la tua, se tu l’avessi voluto. Pensa, cugino, era nato perfino un trovatore su questo pezzo d’inferno che governi. Con l’amore inspiegabile, quasi perverso degli ebrei per le terre matrigne che li hanno adottati, avrebbe potuto fabbricare ali ai tuoi re, ai tuoi eroi, ai tuoi santi e martiri per mandarli a dire al mondo che il tuo paese esiste. Avrebbe potuto cantarlo, il tuo deserto, con parole che avrebbero fatto cadere in petali questa rosa delle sabbie che hai al posto del cuore.
Ma Allah, che è grande e vede lontano, ha voluto, per tua mano, farci partire, affinché io andassi a cantare i miei canti sotto altri cieli, e che la tua nazione potesse proseguire, come in passato, il suo esaltante compito: essere la pagina vuota del Grande Libro dell’Islam.
Shalom ve Salam
Herbert Avraham Haggiag Pagani
E infine la Lettera ai fratelli, ultimo suo atto pubblico prima della morte.
La bambina. Mamma bianca, papà nero, lei mulattina, sui due anni, un bijou. Veniva verso di me mentre stavo andando a fare colazione; in questi casi io mi fermo, per non mettere il bambino in condizione di venirmi a sbattere addosso, o di dover bruscamente scartare. Arrivata davanti a me si è fermata anche lei, con la testa in su per guardarmi in faccia. Ho allungato le braccia, lei ha alzato le sue e l’ho presa in braccio. Le ho fatto un po’ di coccole e poi l’ho rimessa giù, le ho fatto ciao ciao e mi sono riavviata verso il ristorante. Dopo qualche passo, sentendo i genitori parlottare e ridacchiare, mi sono girata: si era di nuovo allontanata da loro e mi stava seguendo. Allora le ho teso la mano e lei me l’ha saldamente afferrata; ho fatto ancora qualche passo, poi sono tornata indietro fino a suo padre, a cui ha dato l’altra mano, e lentamente ho staccato la mia (con bambini e animali, innocenti e senza malizia, in effetti, sono sempre in perfetta sintonia. È con gli adulti che mi capita, a volte, di avere problemi).
L’acquazzone. Un vero, autentico acquazzone tropicale. Sì, lo so che roba così c’è anche da noi, ne ricordo uno a Roma, nel luglio dell’86, che gli acquazzoni tropicali gli facevano una pippa, e un nubifragio, sempre a Roma nel dicembre dello stesso anno, che ha bloccato Fiumicino per un’ora intera, per non parlare di questo, ma insomma ragazzi, un acquazzone tropicale è pur sempre un acquazzone tropicale, e io me lo sono proprio goduto.
Che poi anche lì mi è andata bene da tutti i punti di vista: avevo visto in internet che la media, in quel periodo, è di 7-8 giorni di pioggia al mese, e quindi per due settimane avevo calcolato tre o quattro giorni, e invece ne ho avuti solo due, giusto quello che ci vuole per prendersi un momento di pausa e prendere un paio di foto da esibire.
Le cicatrici. Su raccomandazione della fisioterapista, ci ho schiaffato sopra una tonnellata di sunblock; ciononostante mi sono diventate di un bel color vinaccia. Quella sul ginocchio destro è praticamente un bassorilievo di un cavalluccio marino in grandezza naturale.
Il mistero del WC. Il buco di scarico era molto piccolo, direi meno della metà del nostro, e lo scroscio dello sciacquone durava circa due secondi per la mandata completa e circa uno e mezzo per quella ridotta, e la ricarica non durava più di una dozzina di secondi, a riprova del fatto che l’acqua usata era davvero poca. E, incredibile ma vero, era sufficiente. Anche in un paio di occasioni in cui mi sono resa protagonista di una produzione decisamente sovrabbondante, è stato ugualmente sufficiente. All’arrivo avevo notato con un certo disappunto l’assenza dello scopettino, ma in effetti in due settimane non mi è mai accaduto di sentirne la mancanza.
Poi ho beccato anche un matrimonio
con una sposa che faceva concorrenza a Jennifer Lopez
E poi il mare, col suo oro
e col suo argento.
barbara