Il tempo è diverso, per i sopravvissuti. Il presente è sempre un dopo. La violenza – inaudita, insensata, improvvisa – spezza l’ordine naturale delle cose. Quando c’è la morte non ci siamo noi, diceva il filosofo. Fin quando non accade accanto a te, oppure qualcuno prova a distruggerti, o, addirittura, entrambe le cose. Dopo, la morte siede al tavolo e non si alza più. Il sopravvissuto abita un mondo retto da una teoria della relatività speciale. Il tempo della distruzione è per sempre adesso, il resto è dopo. Dopo non sarà mai più come prima. Un mondo governato dalle logiche non classiche degli incubi – è accaduto dunque accadrà ancora – o del senso di colpa – potevo evitarlo, potevo salvarti, potevo… È lungo e periglioso il viaggio per tornare nell’universo governato dall’ordine apollineo delle vere catene causali. Se pure riesci a tornarci da sveglio, se riesci a tornare a dormire, ecco, non sei al sicuro nel mondo dei sogni. La superficie dell’anima è un vaso ricomposto dai cocci. Per quanto accurato il lavoro di ricostruzione, passandoci il dito senti la traccia di crepe invisibili, le irregolarità dei punti di sutura che fanno male nei giorni di pioggia. Il sopravvissuto le nasconde con molta cura. Talvolta persino a se stesso. Il dopo è sapere l’orrore creato da mani umane. Da chi? Perché? il sopravvissuto ha bisogno di saperlo. Domande antiche si levano contro il cielo, sempre le stesse, sin dalle pagine dei Salmi. Perché il malvagio prospera e l’innocente è ucciso? Perché il male? Perché? Solo la verità può ristabilire un ordine nelle cose, dove il senso è stato distrutto. Il sopravvissuto abita il tempo negato a un altro essere umano. Dopo, custodisce in segreto domande impronunciabili. Perché sono vivo? Perché lui, lei, loro, e non io? Perché io? Occupiamo come abusivi uno spazio pieno di assenza. L’orologio col vetro rotto si ferma, mentre altre lancette continuano a segnare il tempo. Tu vivi ancora – lui, lei, loro no. Dopo, nel fondo più oscuro, infiniti sensi di colpa. Colpa di esistere. È accaduto a te. Ma è successo anche a qualcun altro.
Lo sa bene lei, Benedetta Tobagi, che cos’è un dopo. Ma non è di suo padre che si occupa questo bellissimo libro, bensì di un’altra tragedia italiana: la strage fascista di Piazza della Loggia, otto morti, oltre cento feriti. È un libro fatto di intense ricerche, di scavi inesausti, di studi approfonditi, di incontri con chi c’era – i sopravvissuti – e con chi sapeva, affrontando tutti gli aspetti della vicenda: storico, politico, sociale, culturale, ma soprattutto umano: è un amoroso ricomporre quei corpi smembrati dalla bomba, ridare loro un nome, un volto, una storia, un restituirli, il più possibile intatti, alla memoria, con una dedizione, con una passione, con una delicatezza davvero commoventi. Ma non solo le vittime: anche i nemici tenta di ri-umanizzare: c’è la “galassia nera” che ha disseminato di stragi l’Italia, ma dentro quella galassia ci sono pur sempre degli esseri umani, ed è importante, soprattutto per i più giovani, cercare di capire quando e perché degli ideali che potevano anche essere validi hanno imboccato la strada dello stragismo. E nel corso di queste accurate ricostruzioni reincontriamo – noi che abbiamo un po’ di anni sulle spalle e queste storie le abbiamo vissute dal vivo – molte delle vicende e dei nomi che hanno segnato la nostra storia: Piazza Fontana, l’Italicus, Bologna, Gelli, Sindona, Sogno, Falcone e Borsellino, Pasolini, Servizi deviati, P2, La Zanzara (sì, quella), la legge sul divorzio, i primi consultori, l’entusiasmo politico e la convinzione di poter cambiare il mondo, il Sessantotto, le grandi manifestazioni, l’autunno caldo, la battaglia di Valle Giulia, trame eversive, SID, golpe Borghese, Piano Solo, La Rosa dei Venti, brigate rosse, terrorismo palestinese, Signorelli, giudice Occorsio, Concutelli, Stefano delle Chiaie, Casa Pound, la delusione dei comunisti che scoprivano che la libertà di pensiero, all’interno del partito, non era contemplata… Il tutto narrato come lo può narrare una giornalista di razza e una scrittrice di razza.
Giusto perché questo non sembri, più che una recensione, un panegirico, voglio segnalare la presenza di una svista (Terezìn era un campo di concentramento, non di sterminio), e la presenza del famigerato “l’eccezione che conferma la regola”, che usato in modo improprio – ossia il 99,9 periodico fisso per cento delle volte che viene usato – è una mastodontica bestialità, e a me fa l’effetto di carta vetrata sfregata direttamente sui nervi. Poi, volendo proprio proprio pignoleggiare, potrei aggiungere che di tanto in tanto vi si sente aleggiare qua e là un lieve sentore di manicheismo. Ma proprio lieve lieve, ecco. E il libro resta un libro che si deve assolutamente leggere. Anche perché una discreta quantità delle cose che troviamo qui dentro non le abbiamo mica trovate, a suo tempo, nei giornali. E dunque se le volete sapere non avete scelta: dovete proprio leggerlo.
Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio, Einaudi
barbara