IL FOTOGRAFO DI AUSCHWITZ

Ho guardato la morte negli occhi. L’ho fatto cinquantamila volte.

È polacco, Wilhelm Brasse: nato in Polonia, da madre polacca, di madrelingua polacca. Ma suo padre era austriaco; per questo, all’indomani dell’invasione della Polonia, le SS gli propongono di giurare fedeltà a Hitler e arruolarsi nella Wehrmacht. Ma il giovane Brasse non intende tradire la sua patria, e paga il suo rifiuto con l’internamento ad Auschwitz, dove verrà scoperta e messa a frutto la sua competenza e abilità di fotografo. Le foto di Auschwitz che conosciamo, quelle degli internati in triplice posa (di fronte, di profilo, di tre quarti), le file dei deportati appena scesi dal treno, le quattro bambine nude e scheletrite in piedi contro un muro… sono tutte sue.

Le fotografie dell’Oberscharführer Walter raccontavano una normale giornata di deportazione ad Auschwitz. Fino all’ultima: lo sguardo di donna che tanto aveva impressionato Brasse in camera oscura. Quegli occhi erano ancora lì, aggrappati alla vita, a fissarlo implacabili. Notò che le SS avevano istruito Wladyslaw perché infilasse l’immagine in fondo all’album. Allora il fotografo aveva intuito giusto: quello della donna era il passo finale verso la morte, la sua occhiata ultima al mondo, prima del buio. Wladyslaw non aveva ancora scritto la didascalia, ma lì c’erano le istruzioni di Walter. Dicevano: Ebrea va alla camera a gas. Auschwitz, 30 settembre 1941, ore 16.30.
Brasse chiuse gli occhi e depose l’album sul tavolo.
Era terrorizzato e brividi convulsi gli correvano lungo la schiena.
Per quanto provasse a sottrarvisi, il mondo continuava a bussare alla sua porta.
Lui si sforzava di isolarsi, e più ci provava più la realtà invadeva la sua vita.
Sapeva che nascondersi era inutile.
Lui voleva stare da solo, ma ad Auschwitz non era possibile.
Prima o poi, ne era sicuro, la realtà gli avrebbe chiesto il conto. E lui avrebbe dovuto pagarlo tutto in una volta.

Dopo l’interminabile serie di foto identificative, viene deciso che non ha senso continuare, dal momento che ebrei, zingari e altri simili “Untermenschen” sono tutti destinati al mattatoio e non vale la pena di stare a fotografarli, e lo mettono a disposizione dei medici che si occupano degli “esperimenti”. È così costretto a fotografare corpi morti e uteri appena estratti dai corpi vivi, e ogni sorta di altri orrori. E ad un certo punto arriva la svolta: sopravvivere non basta, occorre dare un senso alla propria sopravvivenza.

Una sera si trovò nel laboratorio, solo, a valutare la resa dei particolari in una foto scattata a un enorme mucchio di cadaveri nudi avvolti dalle fiamme. Erano cento? No, così magri dovevano essere molti di più. E mentre faceva scorrere lo sguardo sui dettagli di quella scena raccapricciante sentiva agitarsi le parti del suo cuore che ancora erano vive e sensibili. La mente no, quella cercava come sempre di tenerla a bada. Ma lei lavorava senza il suo permesso e immagazzinava in una stanza segreta pensieri e immagini che poi lo assalivano non appena abbassava la guardia. All’alba, per esempio, le volte in cui commetteva l’errore di svegliarsi anche solo qualche minuto prima del gong. Osservando l’immagine del rogo, Brasse sapeva che prima o poi si sarebbe chiesto se anche per lui si preparasse una fine così. E, come al solito, più che chiederselo se lo sarebbe immaginato: si sarebbe visto nudo, morto, freddo, scaldato per l’ultima volta dalle fiamme che lo avrebbero definitivamente cancellato.
Le foto delle cataste di cadaveri bruciati a cielo aperto per fare più in fretta, perché i forni crematori non bastavano più, le avevano scattate Walter e Hofmann e sarebbero entrate a far parte della loro collezione personale. Ma lui aveva già visto quelle immagini, perché pochi giorni prima aveva sviluppato e stampato di nascosto altre foto dello stesso soggetto, opera di mani innocenti e non della sanguinaria passione dei suoi superiori. Erano stati alcuni prigionieri del blocco 17 a scattarle, con la complicità di Mieczyslaw, il suo amico che lavorava al crematorio, quello che lo aveva avvisato della morte di suo zio. Loro volevano che fosse fissato il ricordo di quell’orrore e Mieczyslaw aveva fatto sapere ai suoi amici del Servizio Identificazioni che avevano bisogno di una macchina portatile con cui fotografare i roghi dalla finestra del blocco.
Era stata un’operazione pericolosa ma giusta. Brasse e gli altri compagni erano stati contenti di dare una mano, senza poi correre troppi rischi. Ora quelle foto, dicevano i prigionieri che le avevano volute, sarebbero state inviate fuori dal campo e diffuse nel mondo.
Dunque c’erano ancora dei resistenti, ad Auschwitz, uomini che non pensavano solo a sopravvivere.

Il suo coinvolgimento nella resistenza, il suo aiuto a far uscire le immagini di quell’inferno, diventano sempre più intensi e sempre più rischiosi, ma ormai Brasse ha scelto la sua strada, ed è deciso a percorrerla fino in fondo, fino al salvataggio finale di tutto l’archivio, disobbedendo al tassativo ordine dei tedeschi ormai in rotta di distruggere tutto. È grazie a lui che conosciamo l’inferno di Auschwitz; è grazie a lui che possiamo permetterci di sputare in faccia a tutti i negazionisti del mondo.

Questo che segue è il trailer del film dedicato alla sua vicenda

e qui, per chi ha tempo e voglia, c’è il documentario completo.

Luca Crippa – Maurizio Onnis, Il fotografo di Auschwitz, Piemme
Il fotografo di Auschwitz

barbara

Una risposta

  1. Tra i negazionisti ci sono anche tanti neo-nazi (quelli che riempiono i loro blog con banner con su la svastica nazista). Secondo me sono persone di indole violenta (altrimenti non sarebbero nazisti) ma che in fondo si vergognano degli orrori che il loro beniamino ha commesso, ed allora rifiutano l’esistenza dell’olocausto in toto.
    Poi ci sono i complottisti da quattro soldi (Marcianò Bros – uno dei due pure nazista – and company).
    Proprio perchè in giro c’è sempre più gente simile, fai doppiamente bene a ricordare l’olocausto.

    OT: non ho capito una cosa, ma vivi in italia o in Israele?

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    • C’è un libro interessante, Neonazisti di Michael Schmidt: giornalista tedesco, è riuscito a farsi accettare da un’organizzazione neonazista presentandosi come uno che, avendo sentito tanto parlare male di loro, voleva verificare di persona se fossero davvero come venivano raccontati. E loro hanno accettato di farsi seguire per un certo tempo da lui, in parte perché, credendo alla storiella che gli aveva propinato, volevano dimostrargli che in fondo erano delle brave persone, in parte perché erano interessati a procurarsi, per quando sarebbero giunti al potere, una documentazione sul percorso compiuto per arrivarci. Libro sconvolgente che, oltre a dimostrare che il prefisso “neo” non è corretto, dato che non è un nazismo nuovo bensì una continuazione, senza interruzioni, di quello hitleriano (all’epoca, inizio anni Novanta, fra i suoi dirigenti c’erano ancora alcuni vecchi ufficiali nazisti), documenta tutte le complicità in seno alla polizia e all’esercito. Ad un certo punto gli capita l’occasione di incontrare l’inventore del negazionismo. Gli viene presentato in fretta da uno dell’organizzazione che poi deve scappare via di corsa, e quello pensa che il giornalista sia uno dei loro; lui se ne rende conto e decide di sfruttare la cosa giocandosi tutto per tutto: dando per scontato che il tizio sappia perfettamente che l’Olocausto c’è stato, i campi di sterminio hanno funzionato a pieno ritmo, i sei milioni di morti ci sono stati ecc., in tono confidenziale gli chiede: ma dimmi un po’, come ti è venuto in mente di dire che non è vero niente? E quello gli spiega: del nazismo ci sono tante cose che piacciono a un sacco di gente: patria, ordine, disciplina ecc., ma con quella macchia dei sei milioni di morti chi è che ha il coraggio di presentarsi pubblicamente come nazista? E allora ecco la soluzione: dire che non è vero niente, che è una balla che si sono inventati gli ebrei, negare fino all’inverosimile contando sull’allocchitudine congenita di tanta gente. E i fatti gli hanno dato ragione, gli allocchi che si bevono questa puttanata sono ormai diventati legione.
      Vivo in Italia.

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  2. Conoscere per capire e rinnovare la memoria. Perchè la ” memoria ” non deve durare solo… Il Giorno della memoria.
    Grazie Barbara per il tuo prezioso impegno tutto l’ anno.

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    • Immagino che anche nel CD, come a Yad Vashem, siano state inserite solo quelle “guardabili”. Resta comunque tremendo guardare gli occhi di persone strappate alle loro case all’unico scopo di ucciderle facendole prima soffrire il più possibile, persone vive che, quelli che le avevano condotte fin lì, sapevano che dopo brevissimo tempo non lo sarebbero state più.

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  3. Che schifo Barbara, un putrido sito negazionista si fa beffe di questo articolo, vorrei commentare, ma non è permesso (se le cantano e se le suonano da soli), ti prego, smentisci quello che quei bastardi scrivono, non è giusto che in rete circolino tali e tante nefandezze. Un abbraccio da chi ti segue sempre con interesse.

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    • Spero che non ti offenderai se ho tolto il link: non ho la minima intenzione di fargli pubblicità. Li conosco bene, so chi sono, so che cosa fanno. E l’unica cosa da fare con quella feccia è ignorarli. Davvero, credimi, ad avere a che fare con loro c’è solo da sporcarsi di merda, e nessuno di noi merita di insozzarsi a quel modo.
      Grazie comunque per l’interesse.

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  4. Barbara, fai bene a non pubblicare il link a quel sito immondo, nessuno spazio a chi nega la Shoah, ma tanto la pacchia per quegli schifosi durerà ancora poco, la legge anti-negazionismo verrà approvata a breve e finalmente quegli animali finiranno nell’unico posto che meritano, IN GALERA! Negare la Shoah è un crimine e come tale deve essere perseguito.

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    • Sicuramente l’esistenza della Shoah non è una questione di opinione, quindi negarla non è un “reato di opinione” come vorrebbe spacciarlo quella feccia, atteggiandosi a martire del libero pensiero.
      Ricordo quando ad André Glucksmann, in un’intervista, è stato chiesto se, nel caso emergessero nuovi documenti che provassero una realtà diversa, sarebbe stato disposto a prenderli in considerazione, e lui ha risposto: “Certo: se mi si dimostra incontrovertibilmente che mia nonna era un autobus, prenderò in considerazione l’idea di essere nipote di un autobus. Ma il fatto è che mia nonna è morta ad Auschwitz, e dubito che un qualsiasi documento possa dimostrare che non è vero”.

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