UN PICCOLO TUFFO NEL PASSATO

Ispirata da lei, che ha pensato bene di dedicare un post a quella meraviglia della natura che è il mare d’inverno, mi è venuta l’idea di riproporre un vecchio post – che per chi mi frequenta da meno di nove anni è comunque nuovo – che, siccome era un po’ lungo, avevo diviso in due parti. Buona lettura e buona visione con uno e due.

barbara

QUELLE NOSTRE CORAGGIOSE, MERAVIGLIOSE RAGAZZE

Tululu: si chiama così in curdo, la notte il villaggio occupato dall’ISIS lo sente e trema, è l’urlo di guerra delle donne, il gorgheggio, la nota di disprezzo che le guerriere curde di notte lanciano come animali da preda verso gli uomini dell’ISIS nei villaggi fra la Siria e l’Iraq dove il confine non esiste più e esiste solo invece l’orma sanguinolenta dello Stato Islamico, che ha decapitato, ucciso col colpo alla nuca a migliaia, infilzato sulle picche le teste dei bambini.
I terroristi tremano, si narra: il “tululu”gli promette due cose: “Vi uccideremo” è la prima, e la seconda dice: “Il vostro credo vi promette 72 vergini in paradiso se verrete uccisi in guerra come martiri di Allah, shahid. Però vi dice anche: se morirete per mano di donna è scritto che non potrete entrare in paradiso. Rosolerete all’inferno per sempre”. E le ragazze, in divisa verde, con la bandiera curda rosso-mattone bianca e verde col sole nel mezzo, sono là per questo: per ucciderli col kalashnikov che ciondola loro dalle spalle di adolescenti accanto alla treccia lucida e nera, per terrorizzarli e stanarli pronti per lo sguardo di disprezzo e il fucile di una ragazza di 17 anni; una donnetta che i testi sacri promettono a ogni combattente come schiava sessuale, un oggetto da trascinare via dalla sua casa, vendere e comprare, o semplicemente stuprare, picchiare, uccidere.
Ma le guerrigliere curde, un terzo dell’esercito, l’YPJ (Unità di Protezione delle Donne, Yekineyen Parastina Jine) parte del YPG, ovvero il braccio armato della coalizione curda che ha preso il controllo di un bel pezzo della Siria del Nord (detto Rojava), sono fra le 7mila e le 10mila soldatesse, affascinanti e spaventose: hanno fra i 17 e i 40 anni, sono tutte volontarie. Quando scegli questa strada è per la vita, lasci la famiglia per sempre, la tua mamma piange ogni volta che la visiti e poi riparti da casa con un addio che forse è per sempre, che non avrai né marito né figli, che il tuo letto sono la polvere e i sassi, il tuo cibo quello che capita.
L’YJP con l’YPG in questi giorni sono l’unica forza a dare veramente del filo da torcere ai terrificanti terroristi dell’ISIS. Kobane, la città più disputata è stata riconquistata con l’intervento decisivo delle donne guerriere secondo tutte le cronache; gli Yazidi assediati, affamati, decimati nei villaggi sulle montagne, sono stati salvati e l’ISIS messo in fuga con l’intervento decisivo dell’YPJ. Il loro grido di guerra dice: “Vita, Donne, Libertà”, cioè tutto quello che ISIS odia. “Noi combattiamo per la vita, loro per la morte”-dice una di loro, Joan Zuidi, di 20 anni- ” loro odiano le donne, e la nostra battaglia invece dimostra non solo a loro, ma a tutto il Medio Oriente e anche a tutto il mondo che noi possiamo essere meglio degli uomini persino in battaglia. Abbiamo tre scopi: innanzitutto impedire che le donne vengano seviziate, rapite, vendute; liberare le prigioniere; vendicare quelle che hanno torturato e ucciso, o le cui teste sono state infilzate sulle picche, e purtroppo sono decine. Ognuna di noi piange un’amica o una parente. La libertà è il nostro grande fine: io so per cosa combatto, e so farlo, e in più ho un scopo nobile, loro non lo hanno”. I curdi sono ben 35 milioni, forse l’unico popolo così numeroso a non avere ancora un suo Stato autonomo.
Il Kurdistan irakeno ne raccoglie una parte. La situazione attuale mentre ne aumenta i rischi giorno dopo giorno, aumenta anche le possibilità che i curdi siriani, iracheni, turchi, iraniani, possano finalmente trovare una strada verso uno Stato unitario. La loro è una forza che per la maggioranza sunnita è tuttavia scevra da integralismo islamico, il governo regionale del Kurdistan guarda decisamente all’Occidente e anche a Israele come a un modello da seguire e comunque a un interlocutore. Le ragazze curde hanno la testa scoperta e i capelli al vento, ballano le danze tradizionali insieme ai maschi, i soldati condividono il servizio con ammirazione.
Un giornalista israeliano, Itay Engel, è riuscito a intervistare una generalessa famosa e inseguita dallo Stato Islamico: Media ha un sorriso duro e dolce allo stesso tempo, una specie di John Wayne donna con la kefya arrotolata sui capelli biondi, che dice quieta: “Il mio compito è fornirgli un biglietto di sola andata per l’inferno”. Paura, non l’ha mai avuta: “Loro hanno il kalashnikov, io ho un kalashnikov, io lo uso meglio di loro, le mie ragazze conoscono la guerriglia a fondo, loro sono ignoranti, pensano di terrorizzare tutti con la loro ferocia ma sono molto più incapaci e impauriti di quello che si crede”. Insomma, al tululu bisogna far seguire i fatti, e noi occidentali possiamo invidiare Media: lei sa come fare.
Fiamma Nirenstein, Il giornale, 27 dicembre 2014
guerrigliere kurde
Grazie sorelle, che combattete e morite anche per noi.

barbara

AGGIORNAMENTO: qui un’altra straordinaria prova di coraggio e di sangue freddo.

ALTRI SEI MILIONI?

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Come sarebbe altri sei milioni? Ma i sei milioni dell’altra volta non erano tutta una balla? Un’invenzione di quella famosa potentissima e pericolosissima lobby che controlla tutto il mondo, informazione compresa? Non erano quella cosa che i più saggi tra noi chiamano fantacausto e minchiacausto e che si prodigano indefessamente a smascherare? Boh, io non ci capisco più niente, guarda.

barbara

FORSE ESTHER

“Forse”: perché i figli la chiamavano mamma, i nipoti la chiamavano babuška, e quindi non è del tutto sicura che si chiamasse Esther la bisnonna finita tra i massacrati di Babi Yar.
Anche questa, come Gli scomparsi e Konin, è la storia di una ricerca: ricerca delle proprie radici, ricerca delle tracce di chi non c’è più. Ricerca i cui esiti dipendono dalla tenacia impiegata, e un po’ anche dal destino. Che a volte si presenta del tutto casualmente, e vi si inciampa sopra.

Durante il mio viaggio del 1989 in Polonia visitai anche Varsavia, la città in cui mia nonna Rosa era nata nel 1905, quando il paese apparteneva ancora alla Russia. […]
Così vagabondai per quella città dalla storia ricostruita ex novo e, non lontano dal monumento a Chopin, mi comprai un disco solo perché, nel vederlo, ne ero rimasta sorpresa. Sulla copertina campeggiava infatti un mogendovid, una stella di Davide. Non era passato molto tempo da quando avevo udito per la prima volta la parola mogendovid, a significare la stella a sei punte. Sul disco c’era scritto qualcosa come Żydowskie piosenki wshodniej Europy. Allora trascrissi in russo quelle parole polacche, e adesso le traduco in tedesco, Jüdische Lieder aus Osteuropa, Canti ebraici dall’Europa orientale. Il mogendovid si stirava e allungava sulla copertina, con la stessa naturalezza con cui il nostro paese si estendeva dall’Europa al Pacifico. Lo osservavo come fosse un animale sconosciuto, pronto a muoversi da un momento all’altro, saggiavo ciascuna delle sei punte, seguivo ogni rotazione, ogni angolo. Per tutta la vita avevamo dipinto stelle a cinque punte, quelle che brillavano sulla terra e quelle che brillavano in cielo, le stelle del nostro Cremlino, che eravamo soliti celebrare con un inno, e c’era poi anche quella canzone in cui una stella parla con un’altra stella, la intonavamo quando ci toccava fare la strada da soli – ma nessuna di esse aveva sei punte. Mai prima di allora mi era accaduto di incontrare nella mia patria tanto estesa un mogendovid, né come simbolo né come oggetto.
La stella a sei punte mi aveva stupita, non perché fossi sempre stata ansiosa di vedere un mogendovid, non sapevo nemmeno che si potesse desiderare una cosa simile, il desiderio era defraudato del suo contenuto, divelto con tutte le radici, così come il contenuto delle stanze in quelle case abbandonate. Ero confusa per la sorpresa provata alla vista del mogendovid accuratamente dipinto in blu scuro su fondo bianco, con una colomba colorata nel mezzo.
Di ritorno a Kiev misi il disco sul piatto del grammofono, e mia nonna, che aveva da sempre un leggero accento polacco – ricordo la parolina cacki, un termine di origine polacca per dire «gioielli», usato da Rosa per le mie carabattole, gli oggetti inutili, cacki, come un lecca lecca, un ledenets dalla ts aspra -, mia nonna che, a memoria di mia madre e mia, non aveva mai pronunciato una sola parola in yiddish, si mise d’un tratto a intonare canti baldanzosi in una tonalità minore e vagabonda, dapprima seguendo le parole del disco, andandovi dietro, poi all’unisono e senza incertezze, infine anticipandole di colpo con precipitosa letizia, e io la ascoltavo con la medesima incredulità con cui avevo saggiato il mogendovid sulla custodia del disco. Senza la Perestrojka, senza il mio viaggio in Polonia, senza quel disco, la finestra sigillata della sua lontana infanzia non si sarebbe mai più dischiusa per noi, e io non avrei mai capito che la mia babuška veniva da una Varsavia ormai inesistente, che di lì noi veniamo, mi piaccia o meno, da quel mondo perduto di cui mia nonna si ricordò all’ultimo, sul limitare, mentre già stava per lasciarci, per prendere da noi congedo.
Come sorpreso nel rimemorare, il tempo si dilatò e agguantò Rosa; attraverso il disco giunse a me, e in lei destò ricordi, che – così sembrava – erano del tutto ammutoliti e sepolti, al pari di quella che doveva essere stata un tempo la sua lingua materna: l’idioma da noi e da lei stessa ormai dimenticato.

Altre volte, invece, come in una sinfonia di Beethoven, bussa prepotentemente alla porta.

Quella volta suonò il telefono. Era la notte di San Silvestro del 2011 a Kiev. Mia madre andò a rispondere.

Mi chiamo Dina, disse una vecchia signora, ho sentito che lei sta raccogliendo informazioni sulla scuola numero 77 di Kiev, nel 1940 io mi sono diplomata presso quella scuola. Telefono da Gerusalemme.

Era da un pezzo che il 1940 non ci mandava più segnali, di lì giungeva un vento freddo, come una telefonata che arrivasse direttamente dall’Aldilà: la riprova ne era Gerusalemme, una tappa intermedia. Mia madre se ne stava impietrita con il ricevitore in mano e riuscì a dire soltanto, con voce rauca ma ferma: Sì, la ascolto.
Il telefono fu messo in viva voce.
Gli ospiti di Capodanno fecero silenzio.

Abbiamo lasciato Kiev allo scoppiò della guerra, disse Dina in tono deciso. Fummo evacuati nel Dagestan. Di lì emigrammo in Israele negli anni Settanta, io non sono mai più tornata a Kiev. Ho appena ritrovato su facebook una delle mie compagne che frequentò con me l’ultimo anno di scuola, nel 1940. Mi ha detto che lei ci stava cercando. Sì, ho ottantotto anni, con il computer me la cavo, mi aiuta mia figlia. Lei è archivista?
No, sono insegnante di storia, rispose mia madre e raccontò che lavorava in quella scuola da quarant’anni e adesso stava cercando si ricostruirne la storia, anche se io direi piuttosto che mia madre stava reinventando la storia della scuola. Parecchio tempo fa, disse, ho messo in scena con i miei allievi una pièce sulla classe che diede l’esame di maturità nel 1941 e che, il giorno dopo il ballo finale – il primo giorno di guerra -, venne mandata direttamente al fronte: avevamo trovato alcuni compagni e li abbiamo portati sul palcoscenico.
Anziché rispondere, Dina elencò i nomi dell’intera classe, poi di tutti gli insegnanti e infine di alcuni genitori.
Non ne aveva dimenticato uno, a settant’anni dal giorno del diploma.

Dopo la guerra, quando i sopravvissuti rientrarono lentamente a Kiev dal fronte o dai luoghi di sfollamento, nessuno sapeva nulla di Dina. Un quarto della classe era caduto in guerra, e a un certo punto le ricerche s’interruppero. Dina era ebrea, e poteva essere finita a Babij ]ar, ingoiata da quella forra o da qualche altra fossa comune. A volte non si cercava perché si era sicuri. Dina invece era viva.

Dove abitava a Kiev, domandò mia madre.
Non lontano dalla scuola, nella Institutskaja.
Nell’udire il nome di quella strada mia madre si agitò.
Dove esattamente?
All’angolo con via Karl Liebknecht.
Nella casa grigia, lì all’angolo? Di fronte alla farmacia?
Sì, disse Dina, il primo ingresso a sinistra.
Ma anche noi abitavamo lì, gridò mia madre.
Ma non c’erano Petrovskij nel nostro caseggiato, rispose Dina.
Ma io mi chiamo Ovdijenko!
Svetočka! esclamò allora Dina.

I presenti tacquero tutti, come sapessero benissimo di che cosa si trattava. Mio padre fu il primo a lasciarsi sfuggire un breve singhiozzo. Qualcuno aveva appena chiamato mia madre, un’adulta, con il nome che aveva da bambina. Non c’era più nessuno, ormai, di quella generazione.
Dina era stata realmente una vicina di casa di mia madre, e aveva tredici anni più di Svetočka. Si ricordava di ogni mio famigliare e di altri vicini ancora, che avevano abitato in quella casa prima della guerra.
Terminato il lungo elenco di nomi, disse: Grazie, Svetočka.
Grazie di cosa? domandò Svetočka.

Dina ringraziava settant’anni dopo perché mia nonna Rosa, allora direttrice della scuola per sordomuti, le aveva affidato i suoi allievi, quando lei stava cercando lavoro. Così quella si era trasformata nella professione della sua vita: dopo la guerra Dina divenne insegnante per non udenti, come in seguito sua figlia, dapprima nel Dagestan e poi in Israele e anche i figli di sua figlia divennero insegnanti per non udenti e logopedisti, così come alcuni nipoti. Grazie a voi, Svetočka.
Dina disse poi che ricordava quando, nel 1939, era morto il mio bisnonno Ozjel Krzevin. L’ho sentito cadere a terra e sono corsa su, era d’autunno. Io avevo quattro anni, precisò mia madre, e ricordo ancora che gli adulti erano sconcertati perché avevo detto: Lasciatelo stare, è stanco. E Dina confermò: È vero. Hai detto proprio così!

E per fortuna, per la fortuna di tutti noi, ci sono di queste persone dalla volontà implacabile, dalla determinazione indomabile a ritrovare le proprie radici, quelle radici che, a volte, neppure si sospettava di avere. Regalandole, una volta trovate, non solo a se stessi ma anche a tutti noi.

Katja Petrowskaja, Forse Esther, Adelphi
Forse Esther
barbara

IL DELIRIO DEL SENZA GLUTINE

Abitudini alimentari e affini, si sa, sono soggette a mode, che variano nel tempo, e a bizzarrie che di solito, per fortuna, durano poco. Ricordo per esempio che, qualche decennio fa, qualcuno propagandava la sana abitudine di bere, a fini depurativi, la propria urina. E ricordo quando è iniziato il terrore del grasso, una sola molecola del quale era peggio di Satana in persona – e non so se adesso la moda sia passata, però è un fatto che non vedo più il mostro sbattuto quotidianamente in prima pagina. Poi sono arrivati i vegetariani, qualcuno sicuramente per convinzioni etiche o presunte tali, ma molti unicamente perché fa fico, che sono quelli che più scassano i marroni a chiunque venga sorpreso a introdurre nel proprio corpo un milligrammo di carne animale – che mi sa tanto che per la carne umana farebbero molte meno storie. Per non parlare dei vegani, che secondo me sarebbero da sottoporre a trattamento sanitario obbligatorio, vale a dire camicia di forza – e adesso fermati un momento e vai a leggere qui, e prenditi il tempo necessario a leggere tutto, commenti compresi. Come al solito, non è un invito: è un ordine.
Adesso è la volta del senza glutine, dove si dimostra una volta di più che la mamma degli imbecilli non solo non usa il preservativo, ma non va neanche mai in menopausa. Lo senti sempre più spesso: io adesso mangio senza glutine, io ho eliminato il glutine, io col glutine ho chiuso… Ora, se i soggetti in questione non fossero delle grandissime teste di caprifoglio marinato, ignoranti e ritardati, saprebbero che i casi sono due: o sei celiaco, o non sei celiaco. Se sei celiaco e mangi glutine, non arrivi indenne a vent’anni, neanche a dieci. Se sei arrivato indenne a dieci anni, a venti anni, magari a trenta quaranta cinquanta mangiando glutine, NON sei celiaco. E se non sei celiaco, il glutine non solo NON ti fa male ma, al contrario, ti fa benissimo perché ha un alto contenuto proteico. Quindi se non sei celiaco e mangi cose senza glutine, nei confronti di te stesso sei un cretino integrale, nei confronti degli altri sei un potenziale criminale, perché c’è il rischio che il celiaco vero, che degli alimenti senza glutine ha bisogno come l’aria per poter condurre una vita il più possibile normale, arrivi allo scaffale del supermercato a lui riservato e lo trovi vuoto per colpa della tua mania modaiola del cazzo. Più o meno come i bastardi che parcheggiano nello spazio riservato ai disabili – solo che, a differenza dei pirati del parcheggio, in cambio della bastardata non hai neppure un vantaggio personale, quindi oltre che bastardo sei anche, come detto sopra, un cretino integrale.
Che poi magari ti mangi il seitan che è tutto vegetale e quindi tanto sano, perché non sai che è praticamente un concentrato di glutine allo stato puro. Ma vaffanculo, va’.

barbara