Ho mantenuto un prudente silenzio quando, subito dopo il fatto, sono emersi i primi dubbi su quelle scritte coi caratteri tondeggianti, come li fanno gli arabi, e non squadrati, come li fanno gli ebrei.


Ho continuato a mantenere un prudente silenzio quando è stato reso noto che la casa si trovava al centro del villaggio, facendo sorgere pesanti dubbi sulla possibilità che i “coloni ebrei estremisti” potessero avere scelto un bersaglio in posizione tale da dover poi, una volta appiccato l’incendio che avrebbe svegliato l’intero villaggio, attraversarlo tutto – conoscendolo poco o niente, e al buio – per rientrare nelle proprie case.
Poi però sono successe ancora altre cose, e adesso il silenzio lo rompo. È successo che i “coloni ebrei estremisti” in detenzione amministrativa (come? Detenzione amministrativa? Ma non era quella cosa orrendissima che Israele usa solo per i palestinesi? No? Ah) hanno cominciato a essere liberati per totale mancanza di indizi, o perché i loro alibi hanno retto alle verifiche. È stato appurato che tra la famiglia Dawabsha, vittima dell’attacco di quella notte, e un’altra famiglia del villaggio, è in atto una vecchia faida. E che quella stessa notte era stata incendiata anche un’altra casa, sempre di un appartenente a quella famiglia. E un’altra era stata incendiata in febbraio, e ancora una l’altro ieri, e poi un’auto: sempre appartenenti alla stessa famiglia.
Possiamo considerare tutto questo alla stregua di una prova, spendibile in tribunale, dell’innocenza dei “coloni ebrei estremisti”? Penso di no. Ma sufficiente a porre seriamente in discussione le prime affrettate conclusioni, credo proprio di sì. Soprattutto se pensiamo alla “strage della spiaggia di Gaza” con la solita scena strappalacrime della bambina che strepita sgangheratamente di fronte alle telecamere per la morte del padre – non senza aver provveduto, prima di chiamare la stampa e mandare in scena la bambina, a far sparire ogni traccia del missile palestinese che aveva colpito e sterminato la famiglia. O la povera famiglia di Gaza sterminata nella casa fatta saltare in aria, salvo poi vedere chiaro come il sole dalle riprese aeree che la casa era saltata da sola per “simpatia”, dato che era stata trasformata in una santabarbara, quando un missile israeliano aveva centrato i terroristi che trasportavano esplosivo poco lontano da lì. O tutte le montature di “Piombo fuso”. O la strage del mercato di Shijaiyah. O i nove bambini uccisi nel parco giochi di Shati – e qui mi fermo, perché fra quattro giorni parto, e per elencare e documentare tutti gli omicidi, stragi, massacri perpetrati dai palestinesi e spacciati per opera israeliana, quattro giorni non bastano davvero. Penso comunque che questa pur ridottissima panoramica possa bastare a dare un’idea di quanto sia opportuna la prudenza nell’attribuzione di responsabilità per i fatti che succedono da quelle parti.
Forse qualcuno si starà chiedendo se provo sollievo. No, naturalmente: il dolore per la morte atroce di un infante bruciato vivo non può certo trovare sollievo nel fatto che l’assassino sia qualcuno invece che qualcun altro. Né, se alla fine risulterà che anche questo attacco, come gli altri quattro, fa parte della faida interna al villaggio, se ne dedurrà che gli ebrei e gli israeliani siano tutti buoni e tutti santi (“Israele sarà un Paese normale quando avrà i suoi ladri e le sue puttane”, diceva Ben Gurion. E i suoi figli di puttana, aggiungo io, che non possono mancare).
Sollievo certamente no, dicevo, ma una punta di soddisfazione maligna sì, quella la provo proprio, nei confronti di uno squallido personaggino che pochi giorni dopo il tragico evento si è permesso di dichiarare che
“Mi è sembrata insufficiente la reazione dei rabbini in Israele e nel mondo di fronte agli abbietti omicidi perpetrati nei giorni scorsi da alcuni giovani israeliani nei confronti di un infante arabo in un villaggio della Cisgiordania e di una ragazza ebrea nelle strade di Gerusalemme. Gli uccisori […] erano o erano stati tutti allievi di accademie rabbiniche, o presunte tali, agivano in nome di principi che, a loro dire, derivavano dalla tradizione ebraica, e si prefiggevano obiettivi dettati, sempre a loro dire, dalle norme dell’ebraismo. In sintesi, il programma degli assassini e delle altre (non molte) migliaia di persone che sono accomunate nella stessa ideologia, è lo stabilimento di uno stato fondato sull’applicazione integrale della halachah (il diritto ebraico tradizionale) su tutto l’antico territorio storico della Terra d’Israele, qualunque esso sia, e senza alcuna esclusione di mezzi, compreso l’omicidio.” (qui)
Ecco, lo voglio proprio vedere, questo signore dalla faccia come il ****, lui che trova insufficiente l’immediata condanna, senza appello, senza giustificazioni, senza attenuanti, dell’intero rabbinato israeliano e mondiale, lui che sa con certezza, prima di ogni indagine, che gli assassini sono usciti dalle scuole rabbiniche, lui che sa che cosa hanno fatto, per quale causa lo hanno fatto, a quale fine lo hanno fatto, lo voglio proprio vedere con quale faccia oserà presentarsi al mondo il giorno in cui avessimo davvero prove spendibili in tribunale dell’infamia della sua uscita. Io, nel frattempo, me ne sto seduta sulla riva del fiume, e aspetto.
barbara