È una bella giornata d’inverno. I saldi sono appena iniziati, l’eccitazione dei parigini conferisce alla città un’atmosfera piena di energia. Approfitto della mia pausa pranzo per fare qualche acquisto e, da André, trovo un paio di stivali per Ilan. Ne avevo visti di più belli nella vetrina di una calzoleria sulla strada per andare al lavoro, ma costavano una fortuna, e io non me lo posso permettere. Spero che gli piaceranno: gli articoli in saldo non si possono cambiare. La commessa mi consiglia di ritornare con mio figlio, ma temo che non ci sia più la sua misura, e quindi li prendo.
Come ogni fine settimana, questo venerdì lascio il mio ufficio di buon’ora, mi fermo al supermercato per comprare un paio di cosette per la sera, poi rientro subito per preparare la cena dello Shabbat. È un rituale cui non rinuncerei per nulla al mondo, perché, da quando i miei figli sono cresciuti, solo questo pasto mi permette di vederli tranquillamente. Ève e Ilan vivono ancora in casa, ma hanno venticinque e ventitré anni, vivono la loro vita. Durante la settimana li incrocio di sfuggita. Quanto a Déborah, che ha ventiquattro anni, non vive più sotto il nostro tetto. Si è sposata due anni fa e mi ha dato un’incantevole nipotina, Noa.
Noi occupiamo da sempre lo stesso appartamento, al secondo piano di un vecchio edificio in un quartiere popolare nella parte est di Parigi. Si tratta di un modesto appartamento di tre stanze, con una sola camera da letto per i miei figli, ma siamo felici. Déborah, Ève e Ilan vi sono cresciuti, apprezzano questo angolo vivo della città e la sua popolazione mista.
Carica di spese, risalgo il viale cercando istintivamente con lo sguardo la finestra del nostro soggiorno, tra i rami spogli dei castagni. Spero di scorgervi Ilan. Quando rientra prima di me mi spia, e poi scende per aiutarmi a portare su le provviste. Suo padre se n’è andato quando aveva due anni, così lui è un po’ l’uomo di casa… Oggi non c’è nessuno sul balcone, e improvvisamente mi ricordo che mio figlio ha appena ripreso, esattamente quindici giorni fa, il suo vecchio lavoro in un negozio di telefoni sul boulevard Magenta. Termina solo alle diciannove, non ho alcuna possibilità di trovarlo a casa a metà pomeriggio. Infatti, l’appartamento è deserto, e approfitto di queste poche ore in cui sono da sola per mettermi immediatamente al lavoro. Il sabato è una festa. È il giorno più bello, quello che gli ebrei accolgono come il fidanzato riceve la sua amata: in gioia e letizia. Pur non essendo una praticante ortodossa, rispetto questo rito. Mi offre l’occasione di apparecchiare una bella tavola, riunire la mia famiglia, e preparare i piatti che mi cucinava una volta mia nonna con amore, piatti col sapore del mio nativo Marocco. La preparazione di questo pasto mi richiede tempo, e sono ancora ai fornelli quando Ève infila la chiave nella serratura.
La mia figlia maggiore e Ilan si assomigliano come due gocce d’acqua, quando erano piccoli li prendevano per gemelli. Hanno entrambi i capelli neri come giaietto, gli occhi scintillanti, un sorriso che riempie la faccia. Ma Ève è molto più piccola di suo fratello! È rientrata presto perché al momento non lavora. È in cerca di lavoro nel settore delle risorse umane e, nonostante i numerosi CV inviati, le risposte tardano a venire. E questo non manca di angustiarla.
– Déborah e David non vengono a cena? Mi chiede vedendo apparecchiato solo per noi tre, nella sala da pranzo.
– No, tua sorella mi ha telefonato cinque minuti fa, Noa è influenzata. Preferisce non farla uscire, andremo a pranzo da loro domani.
Ilan arriva un attimo dopo, verso le sette e un quarto, sette e mezzo… non so se sia perché è l’unico uomo della casa, ma quando entra lui, si direbbe che la vita riprenda veramente. L’appartamento torna a risuonare di suoni familiari e della sua voce più forte della nostra. Come tutti i giovani, mio figlio semina le sue cose dappertutto, il suo cellulare, le sue chiavi, le parole dell’ultimo successo che canticchia allegramente.
– Dov’è Noa? si preoccupa a sua volta, notando che la nipotina non c’è.
– Non fare quella faccia, la vedrai domani! gli risponde Ève.
Ilan abbozza una piccola smorfia delusa che non manca di farci sorridere, si toglie il giubbotto di pelle, poi ci raggiunge in sala da pranzo. Meccanicamente gli chiedo com’è andata la giornata. Non ha l’aria preoccupata, ma ho il sospetto che non sia entusiasta di essere tornato a questo posto di commesso. Vi si è deciso solo perché ha un urgente bisogno di guadagnarsi decentemente da vivere. L’agenzia immobiliare in cui lavorava prima non gli garantiva un salario sufficiente, ne aveva abbastanza di non potersi permettere niente.
– Allora, com’è andata la giornata?
Ilan alza le spalle, come a dire: niente di speciale. Non parla della sostituzione che ha assicurato nell’altro negozio che il suo padrone ha sul boulevard Voltaire. E non evoca neppure la bella brunetta che è entrata appositamente nel suo negozio per chiedere il suo numero di telefono. E perché dovrebbe parlarmene? Probabilmente non è la prima volta che si lascia sedurre, e poi ha una fidanzata… Da più di un anno Ilan esce con Mony, una bella ragazza asiatica che vive a due passi da noi. L’ho incontrata solo due o tre volte, ma penso che mio figlio le sia attaccato. In ogni caso, dorme più spesso da lei che da noi.
– Non capisco perché hai ripreso questo lavoro. L’anno scorso dicevi che la telefonia non era un lavoro per te, hai dato le dimissioni per lanciarti nel settore immobiliare, e adesso ci ritorni?
– Non ho scelta, mi risponde Ilan, infastidito da questa conversazione. Dovrei tacere, lasciargli fare la sua esperienza, ma sono sicura che sta perdendo tempo e insisto:
– Perché non chiami tuo padre? Potrebbe prestarti un po’ di soldi per mettere in piedi la tua impresa.
Mio figlio non vuole chiedere niente a nessuno, nemmeno a suo padre. Vuole cavarsela da solo, vuole che siamo fieri di lui, e spazza via i miei suggerimenti con una battuta. Ci mettiamo a tavola.
Ilan mette la sua kippà. La porta solo il venerdì sera per recitare la preghiera di Shabbat, e in occasione delle grandi feste. Non è religioso, ma è stato allevato nella tradizione: conosce i testi. Lo ascoltiamo cantare il Kiddush, poi, dopo di lui, bagniamo le nostre labbra nel calice di vino. Ilan ci lascia per andarsi a lavare le mani, come vuole il rituale e, al ritorno, intona la preghiera sul pane. Ne taglia dei piccoli pezzi che intinge nel sale, ne mangia uno e ci dà gli altri. Ci auguriamo «Shabbat Shalom». Uno shabbat di pace.
La cena si svolge piacevolmente, ma ho l’impressione che non durerà a lungo. Forse perché siamo stati solo noi tre, senza Déborah, suo marito David e la loro piccola Noa? È stato un venerdì come un lunedì, un pasto ordinario, che non aveva il profumo di una festa… Alle nove avevamo già lasciato la tavola. Ilan ha consultato le sue email e fatto qualche telefonata. Più tardi dirò che sembrava nervoso, preoccupato, cercherò fra i miei ricordi i piccoli dettagli che avrebbero potuto impensierirmi, ma, in realtà, nulla, quella sera, permetteva di presagire ciò che lo aspettava. Se Ilan è un po’ seccato, è semplicemente perché i suoi piani per la serata stanno per andare a monte. Mony, che aveva in mente di incontrare, non è ancora uscita dal lavoro. Quanto a Karim e Jérémie, i suoi due migliori amici, non vogliono saperne di uscire. Con orecchio distratto sento Ilan che tenta di convincerli al telefono, dai, solo un giretto, siete diventati vecchi o cosa? Non faremo tardi…
Vedendo mio figlio rimettersi il giubbotto, non posso fare a meno di ricordargli che è venerdì sera. Ho un bel ripetermi che non è più un bambino e che è libero di vivere la sua vita come gli pare, non mi piace che esca di Shabbat. Ilan lo sa, ma è giovane, ha un appuntamento, e non sa che farsene dei divieti religiosi che gli ricorda sua madre sulla soglia… Non volermene, mamma, mi dice con il suo piccolo sorriso colpevole.
Lo vedo girare i tacchi, e per trattenerlo ancora qualche secondo, come se presentissi che quell’istante sarà l’ultimo, gli chiedo di provare le scarpe che gli ho comprato. Là, ora, subito? Domani, mi promette Ilan, e la porta si chiude sul bacio che mi manda. Da lontano.
24 giorni La verità sulla morte di Ilan Halimi, pp. 25-28
Non lo avrebbe rivisto mai più: poche ore più tardi sarebbe iniziato lo straziante, disumano calvario che lo avrebbe portato a morire, dopo 24 giorni di inaudite sofferenze, presso un binario della ferrovia. Fanno dieci anni oggi dal giorno in cui veniva portato a termine uno dei più efferati atti di antisemitismo del dopoguerra – almeno fra quelli perpetrati fuori di Israele. Noi non dimentichiamo e non dimenticheremo: né Ilan, né i suoi carnefici.
(Il martirio di Ilan Halimi è stato ricordato in questo blog uno, due, tre, quattro)
barbara