IL MUSEO DELL’INNOCENZA

Angoscioso: questo l’aggettivo che ho avuto perennemente in testa lungo tutta la lettura delle quasi seicento pagine di questo libro, universalmente esaltato come capolavoro, e della narrazione di quello che nella quarta di copertina e altrove viene definito “amore impossibile”, quando in realtà è solo l’ondivago e irresoluto comportamento del protagonista a renderlo tale. E così si avanza in questo angoscioso ripetersi di giorni e di sere tutti uguali, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, devastando la vita propria e quella di lei e dei genitori di lei e del marito di lei e della propria madre e degli altri familiari e della fidanzata… in un grigiore senza fine. Ed è proprio di una noia mortale, due palle ma due palle ma tante di quelle due palle che viene voglia di dire aiutatemi a dire che due palle. Perché andare avanti a leggerlo, allora? Per via di Istanbul, dello scenario politico e sociale, di tutte quelle vicende – bombe comprese – che sui giornali difficilmente hanno trovato posto.
Poi in internet ho scoperto che il museo dell’innocenza esiste davvero, costruito dall’autore con gli oggetti presenti nella narrazione, centinaia di mozziconi di sigarette, più o meno schiacciati, più o meno macchiati di rossetto, e oggetti e oggettini di casa e personali, rubati dal protagonista nel corso della storia per avere sempre con sé dei ricordi di lei: un delirio, una paranoia – e ci starebbe un gran bene anche la definizione della corazzata Potëmkin. Vabbè, se state attraversando una brutta crisi depressiva e vi serve uno stimolo in più per decidervi a suicidarvi, leggetelo.

Orhan Pamuk, Il museo dell’innocenza, Einaudi
il museo dell'innocenza
barbara