La mamma di L.
A quel tempo non c’era LA scuola media; c’erano LE scuole medie: la media vera e propria, col latino, con cui poi si andava alle superiori; la commerciale, con stenografia, dattilografia e computisteria, con cui si andava a far l’impiegata, e l’avviamento professionale. L. avrebbe voluto fare la media, ma sua madre l’ha iscritta alla commerciale. Non per problemi economici, va detto, anzi, finanziariamente era messa molto meglio di me. Finita la scuola, a quattordici anni ancora da compiere, le ha immediatamente trovato un impiego in un ufficio, e a ogni fine mese andava a riscuotere lo stipendio. Lei, la madre. L’anno dopo L. si è fatta prestare 15.000 lire dal nonno, si è iscritta alla scuola serale di ragioneria, due anni in uno. Mattina in ufficio, pomeriggio in ufficio, sera a scuola e notte a fare i compiti e studiare. A quindici anni. A fine anno ha vinto la pagella d’argento, come seconda migliore allieva della scuola, con un premio di 25.000 lire, con le quali ha pagato il debito fatto l’anno prima col nonno. La madre le ha sequestrato le restanti 10.000 lire e ha proibito al proprio padre di farle altri prestiti, così L. non ha potuto proseguire nello studio. Ha lasciato passare alcuni anni, in modo che la madre pensasse che si fosse messa l’anima in pace, e quando ha cominciato a lasciarle una piccola parte dello stipendio si è di nuovo iscritta a una scuola serale, un corso triennale, giusto per poter avere un titolino di studio il più presto possibile e poi, con successive integrazioni, è arrivata ad iscriversi all’università: mattina al lavoro, pomeriggio al lavoro, sera a scuola, notte a studiare, domenica a sentire gli improperi della madre per indurla a lasciare lo studio. Avevamo quasi trent’anni, lei sposata da tempo, fuori casa, ormai prossima alla laurea, che quando tornavo dai miei per le vacanze di Natale o di Pasqua mi fermava per strada per dirmi: «Tu sei sua amica, a te ti ascolta: diglielo tu che lasci perdere con quella stupida università».
Naturalmente non si è mai accorta che il suo amante, quando L. aveva dieci anni, le infilava le mani nelle mutande.
La mamma di I.
«Cattiva. Davvero, Lei non può neanche immaginarselo quanto era cattiva. Due anni, aveva, ed era di una cattiveria da non credere. E le ho provate tutte, sa, l’ho picchiata, lei non si immagina neanche quanto, anche col bastone, talmente forte che una volta il bastone si è perfino rotto: niente. Non si immagina neanche quante notti le ho fatto passare in cantina, chiusa a chiave, al buio: niente. Due anni, aveva, ed era talmente cattiva che non si riusciva a piegarla né col bastone, né con le notti in cantina».
Nessun medico è mai riuscito a capire perché I., già fin da piccolissima, soffrisse di mal di testa talmente violenti da provocarle quasi le convulsioni.
La mamma di E.
E. strizza spesso gli occhi, come quelli che hanno un tic, ma E. non ha un tic: strizza gli occhi a causa di un piccolo nervo del cervello lesionato da una bastonata di suo padre. Spesso, da bambino, era nero di lividi dalla testa ai piedi. Quando aveva undici anni suo padre ha cominciato a violentarlo, e ha continuato per dieci anni, quando poi finalmente è crepato. La mamma di E. non si è mai accorta di niente.
La mamma di M.
Era da un pezzo che aveva dei sospetti, così un pomeriggio è uscita dicendo che sarebbe restata fuori tutto il pomeriggio. Mezz’ora dopo è rientrata, è andata in camera e ha trovato conferma ai suoi sospetti: padre e figlia a letto assieme. Era una donna decisa, la mamma di M. con le idee sempre ben chiare su che cosa si deve fare, anche nelle situazioni difficili. E lo ha fatto, immediatamente, senza la minima esitazione: ha buttato fuori di casa la figlia, e si è tenuta il caro marito.
Eccetera.
Aggiungo una riflessione postata nell’altro blog una dozzina d’anni fa.
COMPLESSO DI EDIPO: NE VOGLIAMO PARLARE?
Secondo la teoria messa a punto da un povero signore col cervello spappolato dalla cocaina (se qualcuno avesse ancora dei dubbi, da qui può ricavare la prova definitiva di quanto faccia male) consisterebbe nel desiderio – più o meno inconscio – del bambino di far fuori il papà e scoparsi la mamma. L’archetipo di questo impulso si riscontrerebbe nel mito di Edipo che, ci viene spiegato, ha appunto ucciso il padre per poi accoppiarsi con la propria madre. Ma siamo davvero sicuri che le cose siano andate proprio così? Proviamo ad esaminare con una qualche attenzione il mito di Edipo, così come ci viene tramandato. Innanzitutto è opportuno ricordare che quello di essere ucciso dal figlio con contorno di corna postume non è, per Laio, un tragico destino, bensì una punizione: in tempo di gioventù aveva infatti rapito e violentato il figlio di Pelope, suo amico e ospite. Ricordiamo che nella cultura greca la pedofilia, poetico nome che significa “amore per i bambini” era cosa normalmente accettata e praticata; ricordiamo che questo “amore per i bambini” non si estrinsecava confezionandogli la calza della befana, o portandoli al cinema, o regalandogli la play station: i greci manifestavano il loro amore per i bambini inculandoseli. Quindi Laio, innamorato del figlio del suo amico e ospite, per averlo non avrebbe dovuto fare altro che chiederlo, e lo avrebbe sicuramente avuto senza la minima difficoltà. Ma lui ha scelto di rapirlo e violentarlo, infrangendo così le regole sociali, i doveri di ospitalità, il legame dell’amicizia. Quindi la maledizione che viene scagliata su di lui è la giusta punizione per il suo crimine. Punizione alla quale cerca in tutti i modi di sfuggire: quando gli nasce il figlio, Edipo, gli perfora entrambe le caviglie con un gancio, gli lega i piedi con una corda e lo espone sul monte Citerone affinché muoia di freddo e fame. E qui, come si suol dire, la domanda sorge spontanea: chi vuole uccidere chi? E tutto questo, non dimentichiamolo, avviene con la complicità – passiva secondo alcuni autori, attiva secondo altri – della moglie Giocasta, madre di Edipo. Salvato dal pastore che aveva il compito di esporlo, Edipo cresce, e un giorno, fatalmente, incontra il padre Laio nel crocicchio di Delfo. E Laio aggredisce Edipo. Per motivi banali, per giunta. Semplicemente per il gusto, che ha accompagnato tutta intera la sua vita, di aggredire e usare la violenza. E per la seconda volta tenta di ucciderlo. Ed Edipo, per legittima difesa, è costretto ad uccidere il padre, di cui, beninteso, ignora l’identità. E infine l’ultimo atto della tragedia: l’incontro con la madre Giocasta e l’accoppiamento con lei. Edipo, cui era stato persino vietato di indagare sulla propria nascita, non ha alcun elemento per sospettare l’identità della donna, ma lei? Lei che conosceva le profezie? Lei che conosceva i fatti? Davvero lei era così completamente all’oscuro dell’identità del suo compagno di letto? E dunque, chi vuole scopare chi? In conclusione, nel mito di Edipo abbiamo un figlio che i genitori tentano di assassinare alla nascita, che il padre tenta una seconda volta di uccidere, con cui la madre, pur avendo molti buoni motivi per sospettarne l’identità, si accoppia senza esitazioni: siamo davvero sicuri che sia Edipo il cattivo? Siamo davvero sicuri che sia lui il colpevole? Siamo davvero sicuri che sia il figlio a odiare i genitori e non, come quotidianamente accade nella nostra vita reale e come la cronaca non manca di ricordarci, l’esatto contrario?
barbara