LA SEA WATCH, I MINORI E IL DIRITTO DI NAVIGAZIONE

Iniziamo col colpo di genio del nostro brillante politico:
minori
Diamo poi un’occhiata più estesa ai bambini presenti sulla nave (ricordiamo che “minore” significa al di sotto di 14 anni. E non dimentichiamo che questi disgraziati sono in fuga da guerra miseria e fame, quindi sottonutriti, se non denutriti, e dunque con uno sviluppo ridotto rispetto ai coetanei cresciuti in condizioni normali nel nostro ricco Occidente. Per cui un tredicenne può facilmente essere assimilabile a un nostro bambino di nove anni)

Infine qui la docente di diritto di navigazione Elda Turco Bulgherini ci spiega le ragioni per le quali la Sea Watch non sarebbe MAI dovuta arrivare in Italia. Mi sia pertanto permesso di dire che trovo indecente la gioia che alcuni manifestano per il fatto che si è finalmente “trovata una soluzione”: per ogni nave fatta abusivamente arrivare in Italia per la quale si “trova una soluzione”, altre dieci navi verranno fatte abusivamente arrivare in Italia, contando sul fatto che tanto “una soluzione bene o male si troverà”, ossia si perpetrerà un assassinio premeditato della legalità, con conseguente distruzione della nostra società e anche – piccolo effetto collaterale – un nuovo aumento esponenziale delle morti in mare, dato che se partono in massa, non sarà comunque possibile arrivare a tutti. Mentre i trafficanti di carne umana e tutti i loro complici, fiancheggiatori e “utilizzatori finali” (di manodopera schiava, di prostitute, di fornitori – un tantino inconsapevoli – di organi) continueranno ad arricchirsi a dismisura, senza che ciò turbi la coscienza delle anime belle. Se poi vi restano ancora due minuti, vi suggerirei di leggere qualche riflessione qui.

PS: alle ultime elezioni non ho votato Salvini. Alle prossime lo farò.

barbara

E ADESSO RIPETETE TUTTI CON ME

Salvini è cattivo. Salvini è cattivissimo. Salvini è cattivissimerrimo. Salvini è cattivissimerrimissimo. Salvini è una belva sanguinaria che gode nel vedere scorrere il sangue. Salvini è IL MALE fatto persona. Al contrario di noi che siamo tutti buoni.
isazzani
PS: io non l’ho votato. Ma alle prossime elezioni lo farò.

barbara

I 40 ANNI DALLA CACCIATA DELLO SCIÀ DI PERSIA

Il Giornale, 18 gennaio 2019

(Gerusalemme) La rivoluzione di 40 anni fa fu una marea che travolse le piazze: la gente infuriata dopo il fortissimo contraccolpo provocato dalla contrazione dei consumi dopo il boom della rivoluzione del petrolio del ’73 e del conseguente disagio sociale, si vendicò sulle aspirazioni moderniste dello Scià Reza Pahlavi, facendone il nemico pubblico numero uno. Con le sue giacche bianche e oro, con le sue bellissime mogli (prima Soraya, poi Farah Dhiba), le feste in cui parlava in varie lingue con i diplomatici del mondo, l’atteggiamento filoamericano, Pahlavi suscitò un’ira che ne fece un obiettivo da distruggere per la folla esaltata dai discorsi infiammati che Khomeini spediva su nastro dall’esilio parigino. Khomeini appariva forse a Pahlavi come un vecchio pazzo che bastava esorcizzare con la lontananza e comunicò forse la stessa sensazione a Jimmy Carter che non se ne curò, anzi lo favorì con un atteggiamento simile a quello degli Usa con la Primavera araba.
«Lo Scià era un personaggio complicato – dice la giornalista Ruthie Blum autrice di To hell in a handbasket: Carter, Obama and the Arab Spring – che a lato della repressione coltivava un’aspirazione che fu colpevolmente ignorata dal mondo democratico: l’occidentalizzazione del suo Paese». Per attuarla Pahlavi non risparmiò vessazioni ai suoi oppositori, prigioni e torture: «E tuttavia cercò di aprire la strada all’emancipazione femminile – insiste la Blum -, su cui poi gli Ayatollah si sono presi la peggiore vendetta. Ma più di tutto cercò di aprire la porta al mondo, cosa che gli americani non hanno capito sbagliando tutto fino all’occupazione dell’ambasciata del 4 novembre 1979, quando si apre un’era di conflitto per le aspirazioni imperialistiche di Khomeini». Khomeini ha già spiegato nei suoi testi che tipo di società intende istituire e quanto per lui sia importante fare dell’Iran la base della conquista del mondo: l’unico a capirlo leggendolo in farsi è il grande storico Bernard Lewis, che non viene ascoltato. Ma i moti di piazza non sono sempre forieri di giustizia e libertà come ama pensare il mondo progressista del tempo: i corrispondenti di quasi tutti i giornali si entusiasmano, si lanciano in condanne dello Scià mentre lodano la rivoluzione. Manca del tutto una coscienza mediorientalista per spiegare quello che sta succedendo e che sarà poi destinato ad azzannare il mondo occidentale fino a oggi. Ma è difficile capire: gli iraniani non sono arabi, e quindi per loro, a differenza dei sunniti, la Jihiliyya, o «epoca dell’ignoranza» preislamica, non è fonte di vergogna: per gli sciiti iraniani gli arabi sono «bevitori di latte di cammella e mangiatori di lucertole che osano aspirare al trono divino». L’ambizione sciita si organizza oltre che sulla religione, anche sulla memoria dell’impero persiano: eredi di un passato imperiale col culto del martirio e anche della Taqiyya, la dissimulazione. Questo, li ha poi resi abilissimi negoziatori sulla questione atomica. Nel 1979 Khomeini che si prepara a tornare a Teheran istituisce la Repubblica Islamica e con essa una Costituzione che chiama alla «continuazione della rivoluzione in casa e fuori». E spiega: «Non è per patriottismo che agiamo, patriottismo è un altro nome del paganesimo.
Lasciate che questa terra bruci, che vada in fumo se l’Islam potrà emergerne trionfante nel resto del mondo». L’Iran che caccia Pahlavi lo fa in uno scontro aperto col mondo occidentale, usando il terrorismo che non ha mai disapprovato senza tuttavia rivendicarlo. Una tecnica raffinata che arriva fino alla progettazione della bomba atomica e che ha visto nell’America, sostenitrice dello Scià, il suo primo nemico e in Israele la bestia satanica da distruggere. Lo Scià era un personaggi controverso, persino il figlio me ne diede conto in un’intervista. Ma ben più controversa è la sua deposizione mentre l’Iran si organizza sulla base del khomeinismo e dell’uso intensivo delle Guardie della Rivoluzione per conquistare dapprima il Medio Oriente e poi il mondo, e per reprimere la gente iraniana che non ne può più. Donne e dissidenti soffrono molto di più adesso che al tempo dello Scià, l’odio per l’Occidente è certamente molto più ardente. L’Iran, nonostante le grandi difficoltà economiche e la guerra permanente, pure dopo 40 anni di regime degli Ayatollah, continua ad ambire al cambiamento, a un futuro migliore. I suoi diritti civili, quelli delle donne, degli omosessuali, dei dissidenti gridano giustizia. Forse anche i suoi soldati e ufficiali inviati in Libano, in Siria, in Irak, in Yemen, vorrebbero tornare a lavorare per il bene del loro grande Paese invece che per la rivoluzione islamica mondiale. Tutto questo si chiama regime change, e certamente molta parte della popolazione ci spera.

Fiamma Nirenstein

Era la fine di dicembre 1978, cena in casa di amici; si commentano le sollevazioni in Iran, forse si instaurerà una vera democrazia, diciamo. Solo uno dice: scordatevelo, andranno al potere i religiosi più fanatici. Per chi avesse elementi sufficienti, evidentemente, era già allora possibile capire come sarebbe andata a finire. E pensare che ancora oggi c’è chi non solo si rifiuta di capire, ma addirittura fa carte false (letteralmente) per regalargli l’atomica, e si scatena il finimondo, con ogni pretesto, per azzoppare chi sta tentando di levargliela dalle mani.

barbara

STRAGE

“Uccisione violenta di un gran numero di persone” (Zingarelli)

Uccisione. Cioè prendere uno e ucciderlo, prenderne un altro e ucciderlo… Oppure prendere una bomba e tirarla in mezzo alla folla. Giusto per chiarire. Poi ho visto anche la parola genocidio, ma questo è chiaramente dovuto alla penuria di preservativi a disposizione di quella specifica categoria di mamme che tutti noi conosciamo fin troppo bene.

E ora vorrei commentare un articolo che dà notizia del fatto in questione, il primo che mi è capitato sottomano.

Migranti, 170 morti in 2 naufragi nel Mediterraneo. Sea Watch ne salva 47. Salvini: «Porti chiusi»

Sabato 19 Gennaio 2019

Centosettanta vittime in due naufragi. Centosettanta persone morte in mare dall’ inizio dell’anno, nelle acque di quel mar Mediterraneo che anche nel 2019 si conferma «cimitero dei migranti».
Centosettanta contati come? Controllando i biglietti di imbarco? Quanto al cimitero, tutti i mari lo sono, e tanto più quelli che si pretende di attraversare con bagnarole che faticherebbero ad attraversare il Po.
I barconi del sogno europeo non si fermano e continuano a partire dalla Libia, in fuga da «violenze e abusi», dalle torture dei centri di detenzione.
E perché ci vanno, se è un tale inferno?
Solo oggi altri tre gommoni sono stati avvistati al largo di Tripoli, due sono stati riportati in Libia, mentre un altro con a bordo 47 migranti è stato soccorso da Sea Watch che resta in attesa di indicazioni dalle autorità per un porto sicuro.
«Le ong si scordino di ricominciare la solita manfrina del porto in Italia o del Salvini cattivo. In Italia no», chiosa il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, in una diretta pomeridiana su Facebook. «Ci sarà un secondo processo di Norimberga – lo attacca il sindaco disobbediente di Palermo, Leoluca Orlando – e lui non potrà dire che non lo sapeva». «I nostri nipoti – gli fa eco padre Alex Zanotelli – diranno di noi quello che noi diciamo dei nazisti».
Già, la Shoah, ultima spiaggia delle coscienze sporche.
L’ultima tragedia è avvenuta ieri mattina, quando le autorità libiche avvistano un gommone in difficoltà con 50 migranti a bordo a nord di Garabulli. La Guardia costiera di Tripoli, che aveva stimato in 50 il numero di persone a bordo, invia prima una motovedetta – poi costretta a tornare indietro per avaria – e poi allerta un mercantile battente bandiera liberiana per soccorrere il natante.
Nel frattempo, un paio d’ore dopo, il gommone viene avvistato anche dall’Aeronautica militare italiana che riferisce di 20 persone a bordo. L’equipaggio dell’aereo lancia due zattere di salvataggio, mentre poco più tardi un elicottero inviato dal cacciatorpediniere Caio Duilio recupera i tre superstiti del naufragio e li porta a Lampedusa. Saranno loro a rivelare che su quel gommone erano in 120, tra cui 10 donne e anche un bimbo di due mesi.
E qualcuno pretenderebbe che IO mi sentissi in colpa se qualcuno mette su un barcone, ad attraversare il Mediterraneo, UN BAMBINO DI DUE MESI?!
Su quanto accaduto indagano la procura militare di Roma e quella ordinaria di Agrigento. Gli inquirenti vogliono fare chiarezza su eventuali responsabilità alla ricerca anche degli scafisti.
“Anche”? Spettacolare!
Era stato il senatore e ufficiale della Marina, Gregorio De Falco, nel pomeriggio a invitare Marina e Guardia Costiera a «fornire ogni ragguaglio della situazione». «Ricordiamoci – aveva detto – che esistono obblighi di soccorso derivanti sia da norme di diritto internazionale che interno, oltre al buon senso. Il naufragio è una cosa e l’immigrazione un’altra».
Meno male che qualcuno ogni se ne ricorda. Sempre tenendo presente che chi si mette in mare su barconi, senza carburante, senza viveri, senza acqua, difficilmente può immaginare di arrivare dall’altra parte.
Un altro naufragio, invece, è avvenuto nei giorni scorsi ed è costato la vita a 53 migranti
bella anche qui questa cifra precisa, stabilita chissà come e da chissà chi
che tentavano di raggiungere l’Europa sulla rotta nel Mediterraneo occidentale, in direzione della Spagna. Un sopravvissuto, riferisce l’Unhcr, è stato soccorso da un peschereccio e sta ricevendo le cure mediche in Marocco. Ed oggi, proprio in Spagna – a Barcellona – sono scesi in strada attivisti e volontari dell’ong OpenArms, in corteo per le strade della città sulle note di «Bella Ciao».
Ah già, quelli furbi che espongono i cartelli sgraditi turisti benvenuti migranti, e per riconoscenza i “migranti” gli fanno una bella strage – quella sì strage vera – con 15 morti. Evidentemente non gli sono bastati e ne vogliono un altro po’.
Sulla tragedia di ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha espresso «profondo dolore», mentre il premier Giuseppe Conte si è detto «scioccato». Immancabile, però, monta la polemica politica, con Salvini che torna all’attacco delle ong. «Loro tornano in mare – accusa -, gli scafisti ricominciano i loro sporchi traffici e le persone tornano a morire». Per l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, quella attuale è «una politica migratoria criminale». «Noi siamo l’Italia – scrive Matteo Renzi -: se c’è gente in mare, prima la salviamo. Poi si discute». Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, lancia un appello all’Europa che, dice, «non può più restare a guardare». (qui)
Qualcuno si chiede se non mi senta neanche un po’ responsabile di queste morti? No, esattamente come non mi sento responsabile di quelli che muoiono mettendosi in viaggio con gomme lisce e freni consumati. E la soluzione è una sola, sempre quella: niente partenze, niente morti in mare.

E ora leggiamo invece una cosa seria.

NAUFRAGI E MIGRAZIONI

Proviamo, per fare un piccolo esperimento mentale, a confrontare questi quattro casi ipotetici.

1) Viaggio in auto. Mi imbatto in un incidente: vedo un’auto rovesciata ed il corpo insanguinato di un ferito. Mi fermo, telefono alla croce rossa, alla polizia. Cerco, se ne sono in grado, di prestare i primi soccorsi.

2) Sono nella situazione del caso UNO, ma non mi limito a fermarmi e a prestare soccorso. Accolgo in casa mia e mantengo a tempo indeterminato l’uomo ferito, sua moglie, i suoi tre figli, i suoi amici, parenti e conoscenti.

3) Mi dicono che un certo tratto di autostrada è frequentato da macchine vecchie e fuori norma, spesso causa di incidenti. Decido di pattugliare quel tratto di autostrada per soccorrere le eventuali vittime di eventuali incidenti. Quando presto effettivamente soccorso a qualcuno mi comporto come nel caso DUE.

4) Vengo a sapere che gli abitanti di un certo condominio possiedono auto vecchie e fuori norma e che si avventurano spesso con queste in un certo tratto di autostrada. Posteggio la mia auto nei pressi di quel condominio e appena vedo che qualcuno parte con un’auto vecchia ed insicura mi avvicino, lo prendo a bordo della mia auto e lo conduco dove è diretto. Anche in questa occasione, se la persona soccorsa lo vuole, mi comporto come nel caso DUE.

Domanda: quale dei quattro casi descrive una situazione in cui io sono giuridicamente e, soprattutto, MORALMENTE obbligato ad intervenire e a prestare il mio aiuto? Con tutta evidenza solo il caso UNO.
Fuor di metafora, c’è una differenza radicale fra salvataggi e pattugliamento del mare, pattugliamento del mare e servizio taxi per migranti e fra tutte queste cose e l’accoglienza ed il mantenimento di coloro che si sono salvati.
I “buoni” devono decidersi a parlare chiaro. Sono favorevoli al trasferimento in Europa, meglio ancora, in Italia, di un numero illimitato di africani? Il fatto che esistano naufragi ci deve spingere ad aprire le frontiere e ad accogliere praticamente tutti? Questo e solo questo è il vero quesito. Non ha senso alcuno ridurre il problema a questo o quel salvataggio, questo o quel “caso umano”. Affrontare il mare con delle carrette vuol dire rischiare, se il fatto che c’è gente che rischia implica che siamo obbligati ad accoglierla allora parlare di limiti e regole alla immigrazione è insensato. Dobbiamo accogliere quelli che partendo si espongono a dei rischi, siano questi diecimila, un milione, dieci milioni o cento milioni. Punto.
In questo modo si distrugge l’Europa, quindi la possibilità stessa di aiutare l’Africa ad imboccare la strada dello sviluppo.

PS.

Stamattina TG e stampa “progressista” sono letteralmente scatenati nel presentare la Libia di Fayez Al Serraj come una sorta di enorme lager in cui è impossibile vivere ed in cui, a maggior ragione, non si può accettare di essere rimpatriati. Ora, a parte il fatto che le vittime del naufragio di ieri venivano, a detta dei media, dall’Africa sub sahariana, quindi in Libia ci erano recate, a parte questo, val la pena di ricordare che il governo italiano di centro sinistra a suo tempo riconobbe il governo Al Serraj come legittimo rappresentante del popolo libico e con quel governo stipulò accordi proprio sulla gestione delle migrazioni non il cattivissimo Matteo Salvini ma il buonissimo Marco Minniti, campione del PD.
Inoltre, se davvero nella Libia di Al Serraj è in corso una emergenza umanitaria si intervenga militarmente per farla cessare! Non è possibile che esistano “emergenze umanitarie” che durano decenni ed obbligano paesi come l’Italia a subirne le conseguenze in termini di immigrazione fuori controllo. Se si è “buoni” lo si sia anche con chi resta, non solo con chi parte!
Elementare Watson.
Giovanni Ciri, qui.

Ma per quelli antropologicamente superiori è una cosa troppo complicata da capire, se solo ci provano gli grippa il cervello.

barbara

PER LIBERTÀ E VERITÀ NON HA POSTO L’UNIVERSITÀ

Baroni inquisitori

È piuttosto lungo, ma vale la pena di leggerlo tutto, perché queste cose bisogna saperle.

Iniziarono colpendo che più in alto non si poteva, sul vicario di Cristo. Papa Benedetto XVI doveva andare a parlare alla Sapienza in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico. Ratzinger non parteciperà mai all’evento nel più antico ateneo romano. Troppo “incongruo” e non in linea con la “laicità della scienza”, dissero un centinaio di docenti firmatari di una lettera al rettore, Renato Guarini. Dieci anni fa, quell’episodio fu visto e giudicato come un fatto gravissimo: una grande università ostracizzava un pontefice nell’esercizio di quel pluralismo intellettuale che avrebbe dovuto essere il vanto di un ateneo. Oggi è prassi ordinaria e quotidiana, talmente banalizzata che sulla stampa italiana le centinaia di casi di professori messi alla gogna e alla berlina non fanno più notizia.
Di questa settimana è la campagna contro il celebre filosofo del diritto John Finnis, professore emerito presso l’Università di Oxford. Centinaia di studenti hanno lanciato una petizione perché l’università cacciasse questo famoso docente reo di “condotta discriminatoria”, per usare l’espressione presente nella petizione. La “colpa” di Finnis sarebbe quella di “essere omofobico e transfobico”.
Sul Guardian sono apparsi articoli dal titolo: “Ecco perché Finnis non dovrebbe insegnare a Oxford”. Poche ore dopo, la Oxford Union ritirava l’invito a William Donohue, presidente della Catholic League, un gruppo americano per i diritti civili, e Donohue si è detto “inorridito” per il modo in cui è stato trattato da quel prestigioso sindacato universitario che risale a ottocento anni fa. “A un certo punto devi fare una scelta: o esci dal business perché sei un paria o vai avanti e te ne freghi”, ha detto Bruce Gilley Le università occidentali sono diventate luoghi di timore e terrore intellettuale, dove minoranze accademiche agguerrite dettano la linea a fronte di un corpo docente silenzioso o, peggio, compiacente.
L’accademia è sempre più erosa da una tendenza all’integralismo ideologico e dal tentativo di determinare non solo quali azioni siano accettabili, ma anche quali pensieri e parole lo siano. Non dovrebbe una società accademica abbracciare, piuttosto che punire, la differenza intellettuale?
Le vendette, le delazioni, le petizioni, l’ostilità abbondano invece contro chi esercita il diritto al dissenso in quel mutuo “consenso”. Siamo arrivati alla partecipazione al culto della violenza celebrato su larga scala e alla fabbricazione di capri espiatori, bersagli dell’odio ideologico su cui sfogare una aggressività accumulata e repressa. I casi si contano a centinaia ormai.
A una dissidente iraniana, Maryam Namazie, è stato impedito di parlare in alcuni college inglese, come il Goldsmiths e il Warwick La sua difesa del free speech avrebbe `offeso” gli studenti di fede islamica.
Thilo Sarrazin, ex banchiere centrale tedesco e durissimo critico dell’immigrazione, ha parlato fra le proteste di studenti e insegnanti all’Università di Siegen.
Il professor Paul Griffiths, teologo americano di fama, aveva ricevuto una email di alcuni professori per indire due giornate su “come riconoscere e combattere il razzismo”. Siamo alla Duke Divinity School, una delle più importanti università d’America. Griffiths risponde così alla email dei colleghi: “E’ una sessione illiberale e dalle tendenze totalitarie”. Ed è stato gentilmente messo alla porta. Un professore della New York  University, Michael Rectenwald, si era creato un account Twitter anonimo per sbeffeggiare il politicamente corretto senza timore di conseguenze da parte dei “guerrieri della giustizia sociale”. I colleghi si sono lamentati per la sua “inciviltà” e il docente è stato costretto a prendere un lungo congedo forzato per “mancanza di disciplina”.
Il Premio Nobel inglese Tim Hunt è finito malissimo. Lo University College di Londra lo ha estromesso per la leggerezza commessa a una conferenza a Seoul, dove Hunt si lasciò scappare una frase sulle donne inadatte alla vita in laboratorio. “Maschilismo”. Hunt oggi vive in Giappone, dove ha scelto di autoesiliarsi con la moglie, anche lei accademica. L’ha pagata cara il fisico italiano Alessandro Strumia. “La fisica è stata inventata e costruita dagli uomini”, aveva detto questo scienziato e docente nel workshop organizzato dal Cern di Ginevra. “C’è una cultura politica che vuole sostituire competenza e merito con una ideologia della parità”.
Strumia si è visto sospendere dall’Istituto nazionale di fisica nucleare e anche l’Università di Pisa, dove insegna Strumia, ha disposto un “procedimento etico” contro il fisico.
Bret Weinstein e sua moglie, Heather Heying, si sono dimessi dalle loro posizioni all’Evergreen State College. Weinstein aveva criticato l’annuale Day of Absence della scuola dopo che agli studenti bianchi che avevano scelto di partecipare era stato chiesto di uscire dal campus per parlare di razzismo, il loro, quello congenito dei bianchi. Weinstein aveva definito l’evento “un atto di oppressione”.
Nel libro “Aristotele a Mont-SaintMichel”, lo storico francese Sylvain Gouguenheim, ordinario alla Scuola Normale di Lione, aveva spiegato che l’eredità greca nel Medioevo fu trasmessa all’Europa occidentale da Costantinopoli, riducendo il ruolo intermediario del mondo islamico. “La cultura greca non tornò all’occidente solo grazie all’islam: a salvare dall’oblio i filosofi antichi sarebbe stato innanzitutto il lavoro dei cristiani d’Oriente, caduti sotto dominio musulmano, e dunque arabizzati”, si legge nel testo.
Apriti cielo! Iniziarono a circolare numerose petizioni contro Gouguenheim. Una prima firmata da Hélène Bellosta e trenta accademici esce sul Monde. Poi arriva un appello di duecento dall’École normale supérieure. Infine, un testo di 56 ricercatori di storia e filosofia del Medioevo su Libération, in cui si accusa Gouguenheim di “razzismo culturale”. “Uno storico al servizio dell’islamofobia”, titola Main Gresh del Monde Diplomatique. Stesso destino per un altro storico di rango dell’Université de Bretagne-Sud, Olivier Pétré-Grenouilleau, reo di aver scritto il libro “La Traite des Noirs”, in cui dice: “Il numero degli schiavi cristiani razziati dai musulmani supera quello degli africani deportati nelle Americhe”. In un’intervista al Journal du Dimanche, Petre-Grenouilleau andò oltre, rifiutando di riconoscere la schiavitu come “genocidio” e di equipararla alla Shoah. Il “Collectif des Antillais, Guyanais et Reunionnais” sporse querela contro lo storico. “L’ostracismo dei ricercatori che si avvicinano ai temi sensibili dell’islam e dell’immigrazione”. Così il Figaro qualche giorno fa ha definito un fenomeno sempre più dilagante in Francia in ambito universitario. Uno è Christophe Guilluy, lo studioso di riferimento della “Francia periferica”. Il suo ultimo libro, “No society” (uscirà in italiano per le edizioni universitarie della Luiss), è il resoconto della fine della classe media.
Su France Culture lo si addita come “ideologo del Rassemblement national”, un lepenista. L’altro è Stephen Smith, studioso di immigrazione, autore del libro “La ruée vers l’Europe”, un macroniano.
Dal College de France, il demografo François Héran lo accusa di “agitare lo spettro del pericolo nero”. “Ho ricevuto un messaggio da un collega accademico che mi ha detto `fai attenzione al nazista Finkielkraut che ti ha appena citato”‘, ha detto Guilluy al Figaro. Questo il clima. Erika Christakis, docente a Yale di Psicologia, aveva osato lamentarsi che l’università era diventata “un luogo di censura” dopo la richiesta degli studenti di bandire i costumi “offensivi” per Halloween. Sia Erika sia il marito, Nicholas Christakis, anche lui professore a Yale, iniziano a ricevere email violente e solo pochi colleghi firmano la lettera di solidarietà. Così, Erika e Nicholas si sono dimessi.
Gli studenti di Medicina del King’s College di Londra avevano chiesto a Heather Brunskell Evans, ricercatrice e portavoce del Women’s Equality Party, di tenere una conferenza su “pornografia e sessualizzazione delle donne”. La facoltà le ha fatto sapere che l’evento era stato cancellato perché le sue opinioni sui transessuali avrebbero violato la politica dello “spazio sicuro”. Brunskell Evans ha detto al Times che “le brave persone stanno indietro, non fanno niente, come altre vengono messe alla berlina. Le organizzazioni e gli individui sono pietrificati dall’idea di essere viste come portatori di idee che non sostengono in modo inequivocabile la dottrina transgender.
E’ scioccante”.
Un’altra femminista, Linda Bellos, era stata invitata al Peterhouse College, annunciando che avrebbe “messo in discussione pubblicamente alcune `transpolitiche”.
Linda Bellos è donna, nera, ebrea, lesbica e femminista. Ma non ancora abbastanza politically correct.
Jenni Murray, veterana del giornalismo e conduttrice di Woman’s Hour su Radio 4, era stata a Oxford per discutere delle “potenti donne britanniche nella storia e nella società”. Ma l’evento è decaduto dopo che una serie di lettere sono state inviate all’università, condannando Murray come una “transofoba”.
Toby Young, dopo che era stato nominato uno dei membri dell’Ufficio britannico per gli studenti, è stato distrutto professionalmente. Su Twitter sono stati ripescati suoi commenti sulle donne scritti diciassette anni prima. L’Università di Buckingham lo ha dimesso da “visiting fellow”.
Rachel Fulton Brown, medievista all’Università di Chicago, è stata oggetto di una campagna d’odio per l’articolo “Three Cheers for White Men”, dove sostenne che gli uomini bianchi hanno avuto un ruolo nello sviluppo di certi diritti goduti dalle donne in tutto il mondo occidentale. Fulton valorizzò la cavalleria e l’amor cortese, lo sviluppo del matrimonio e alcuni elementi del femminismo, che sono stati sostenuti da filosofi come John Stuart Mill. “Suprematista bianca”!
Bruce Gilley è l’accademico che ha più chance oggi di essere cacciato da una conferenza accademica in Gran Bretagna. Questo docente alla Portland State University in Oregon, agli occhi di molti, dice l’indicibile, e molto forte: loda il colonialismo in generale e l’impero britannico in particolare. In un articolo intitolato “The case for colonialism” nella rivista Third World Quarterly, Gilley aveva scritto che “il colonialismo occidentale era, come regola generale, oggettivamente benefico e legittimo”. L’editore ha ricevuto “minacce serie di violenza personale”. Quindici membri del consiglio di amministrazione della rivista si sono dimessi e l’articolo è stato ritirato. Gilley ha compreso la decisione di tirare giù il suo articolo su Third World Quarterly: “Stavano ricevendo minacce di morte da parte di fanatici”, ha detto al Times. “Una cosa è difendere la libertà di parola, ma queste riviste non hanno la capacità di resistere al contraccolpo: proteste, inondazioni di e-mail, cause per presunta promozione del nazismo”.
A Londra, il professore ha tenuto lezione a un seminario privato per studenti e preso parte a una tavola rotonda, ma ha evitato un evento pubblico. “Il risultato sarebbe stato una tempesta di merda e sarebbe stato inutile. Ma avrebbe mostrato fino a che punto in Gran Bretagna, in tutti i posti, le persone hanno smesso di pensare”.
Parlando sempre col Times, Gilley ha detto: “Se non sei di sinistra nel mondo accademico, ti trovi in un ambiente di lavoro molto ostile e a un certo punto devi fare una scelta, o esci dal business perché sei un paria, o decidi di fregartene e semplicemente di `offendere”. Il Middlebury College nel Vermont, lo stato più liberal d’America, aveva invitato Charles Murray, sociologo conservative autore di saggi importanti contro il welfare state. Quando Murray è salito sul palco, quattrocento studenti gli hanno urlato “razzista, sessista, antigay”. Murray ha continuato la conferenza in un ufficio, in streaming. Poi, all’uscita, è stato attaccato fisicamente da un gruppo di manifestanti. Noah Carl, studioso arruolato dall’Università di Cambridge, ha visto il suo nome dato in pasto all’opinione pubblica da trecento professori di tutto il mondo che avevano firmato una lettera aperta in cui si denunciava la sua nomina.
In Francia, un professore di Filosofia di Tolosa, Philippe Soual, si è visto cancellare un corso su Hegel dall’ateneo Jean Jaurès di Tolosa, dopo che Soual è stato accusato da un’associazione di studenti di essere un “portavoce della Manif pour tous”, il movimento che ha riempito le piazze di Francia per manifestare a favore dell’unicità del matrimonio tra uomo e donna.
Sempre a Oxford Nigel Biggar, professore di teologia morale, è stato attaccato per le sue tesi troppo indulgenti nei confronti dell’imperialismo. Biggar a dicembre ha dovuto tenere una conferenza accademica in privato per paura di vedersi interrompere dagli attivisti. Un altro motivo per tenere l’evento a porte chiuse era che un giovane studioso avrebbe partecipato solo a condizione di rimanere anonimo, “per timore che la sua presenza arrivasse all’attenzione di alcuni dei suoi colleghi più anziani”.
Peter Boghossian, docente di filosofia all’Università di Portland, sta rischiando il lavoro per aver scritto articoli-farsa pubblicati in alcune delle maggiori riviste accademiche americane sul gender e altri critical studies. “Falsificazione dei dati”, questa l’accusa. La dissidente somala Ayaan Hirsi Ali, critica dell’islam e riparata in America dall’Olanda, è stata cacciata dalla Brandeis University, una delle culle del liberalismo accademico americano che avrebbe dovuto onorarla con una laurea. Cento professori dell’ateneo nel Massachusetts, uno degli stati più di sinistra d’America, erano troppo imbarazzati a ospitare una portavoce del Terzo mondo che non rientrava nei loro stereotipi.
E quando un professore venne minacciato di decapitazione dagli islamisti, i colleghi lo attaccarono e lasciarono solo. E’ il caso Robert Redeker, autore di un articolo sul Figaro molto duro sull’islam e finito sotto scorta. “I colleghi parlano di te come di un morto”, gli dicono dall’istituto Pierre-Paul Riquet di Saint-Orens de Gameville, a Tolosa, dove Redeker insegnava prima della fatwa.
I sindacati francesi di insegnanti annunciarono di “non condividere le idee di Redeker”. Detto fatto, il professore di filosofia non insegnerà più. Insegnava, oltre a un liceo, in una scuola per ingegneri, molto prestigiosa, la scuola nazionale dell’Aviazione civile, a Tolosa. Quando, nel gennaio 2007, i mass media annunciarono che un terrorista internazionale, che aveva lanciato contro Redeker la condanna a morte pubblicata su un sito web islamista, i dirigenti di quella scuola gli comunicarono che non poteva più insegnare.
Anche il rettore della facoltà di Scienze sociali di Toulouse ne disdisse il ciclo di conferenze, per ragioni di sicurezza. Le autorità trovarono a Redeker una nuova occupazione: correttore di bozze al Centre national de la recherche scientifique.
Lì il reprobo non avrebbe più dato fastidio a nessuno.
L’università occidentale – che dovrebbe essere la casa del pluralismo, del dibattito, della ricerca intellettuale, della libertà di pensiero – sta diventando un posto molto pericoloso, una pira per eretici, dove la tendenza dominante è quella di considerare come insubordinazione o eversione ogni apostasia dall’ordine costituito e il conformismo di ogni colore stringe sempre più le maglie. Chi non si integra è perduto o rimane, nella migliore delle ipotesi, un personaggio marginale. Sono loro, queste mosche bianche, non gli studenti e i professori alleati nella censura e nella recriminazione, ad avere oggi bisogno di uno “spazio sicuro”, come usa chiamarli nel linguaggio impazzito del politicamente corretto.

Giulio Meotti, Il Foglio, 19/01/2019

E come ci si ammala e si muore di troppa igiene, così, se non ci sarà una radicale inversione di rotta, di politicamente corretto moriremo tutti.

barbara