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Che prende chiaramente le mosse dall’antenato orwelliano nel dipingere l’incubo di un totalitarismo che incatena anche il pensiero. E se nel primo il modello era il comunismo staliniano, qui è chiaramente l’islam, con un dio che si chiama Yölah e il suo delegato che fabbrica le leggi man mano che servono e la Giusta Fraternità. Anche qui abbiamo una nuova lingua che ha cancellato la precedente, e abbiamo una guerra perenne, in cui “noi” siamo perennemente vincitori – ma se abbiamo vinto com’è che la guerra continua? Il popolo non se lo domanda, come non si domanda perché sia vietatissimo avvicinarsi al confine (quale confine, se il mondo è tutto nostro?), ma anche qui, come nell’altro, una mente che sfugge alla dittatura del pensiero unico obbligato e nota le crepe e si pone domande, c’è. È un libro bello e potente, tanto quanto il predecessore, con una forse ancora più accurata indagine psicologica nel seguire i pensieri di una mente semplice ma, grazie anche alle circostanze, non ottusa. Forse, chissà, a mantenere non del tutto inerte la sua mente ha giocato anche il fatto di essere stato di aspetto piacevole, con la conseguente necessità di ingegnarsi in tutti i modi per sfuggire alle grinfie di uomini vogliosi – senza peraltro grande successo.

Quando raddrizzava le spalle, chiudeva le labbra sui denti guasti e si concedeva un sorriso, poteva passare per un bell’uomo. Di sicuro lo era stato, ancora ricordava quanto ciò lo avvilisse perché la bellezza fisica è una tara, gradita al Rinnegato, attira irrisioni e violenze.
Nascoste dietro gli spessi veli e i burniqab, compresse dai bendaggi e sempre ben custodite nei loro spazi, le donne non soffrivano troppo, ma per gli uomini dotati di una certa avvenenza era un supplizio continuo. Una barba incolta imbruttisce, modi rozzi e un abito da spaventapasseri risultano sgradevoli, ma purtroppo per Ati quelli della sua razza erano glabri di pelle e gentili di modi, e lui lo era particolarmente, con in più una timidezza da giovincello che faceva venire l’acquolina in bocca ai tizi grandi, grossi e sanguigni. Ati rammentava la propria infanzia come un incubo. Non ci pensava più, la vergogna aveva innalzato un muro. Solo in sanatorio, dove gli ammalati abbandonati a se stessi davano libero sfogo agli istinti più bassi, gli era tornata in mente. Soffriva vedendo i poveri ragazzini scappare e divincolarsi, ma tale era la persecuzione che finivano per cedere, non potevano resistere alla brutalità degli aggressori e alle loro astuzie. Di notte li si sentiva gemere da spezzare il cuore. Ati aveva perso la speranza di capire come mai il vizio proliferi proporzionalmente alla perfezione del mondo.

Tuttavia una differenza rispetto al precedente c’è: se lì la cupezza disperata pervade tutto, senza una possibilità, neppure teorica, di sfuggire, senza un dove in cui sfuggire e alla fine il sistema riesce a saldare tutte le crepe e spegnere fino all’ultima scintilla di pensiero, qui, se non proprio una speranza, almeno la speranza di una speranza rimane. Non sappiamo se quel dove esista, e nel caso esista se sia possibile raggiungerlo, e nel caso sia possibile raggiungerlo, se il nostro eroe ci sia riuscito, ma la possibilità non è esclusa. Certo, per non far morire quel barlume di speranza, bisogna lottare, lottare tanto, con tutte le proprie forze, essendo pronti a mettere in gioco tutto. (Noi siamo pronti a farlo?)

Boualem Sansal, 2084 La fine del mondo, Neri Pozza
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barbara