3001, ODISSEA NEL MIO SPAZIO

Mi sono accorta, dopo averlo pubblicato, che l’ultimo post era il tremillesimo. Così, per festeggiare l’evento dell’ingresso nel quarto migliaio (stavo per scrivere millennio!), ho accantonato per un momento il post che avevo programmato e ho preparato quest’altro. E che cosa di meglio di una spettacolare serie di lanci nello spazio?

barbara

CHE COSA CAMBIA DOPO LA BRILLANTE MOSSA DI TRUMP

Mano vincente di Trump: ecco perché l’eliminazione di Soleimani cambia le regole del gioco

Ci saranno volute casse di Maalox in queste ore per molti dei nostri politici e commentatori che denunciando l’irresponsabilità e la pazzia del presidente Trump si aspettavano di vedere confermate le proprie previsioni, o meglio desideri, secondo cui la decisione di eliminare Soleimani avrebbe dovuto scatenare una inarrestabile escalation o costargli una cocente umiliazione. Nulla di tutto questo è accaduto. Anzi, anche il più ossessionato degli anti-trumpiani, se gli è rimasto un briciolo di onestà intellettuale, dovrebbe ammettere che il presidente Usa ha giocato nel migliore dei modi una mano di poker molto delicata con Teheran, vincendola. Non di azzardo si è trattato, ma di rischio ben calcolato.

La rappresaglia iraniana di mercoledì notte contro le basi Usa in Iraq è stata o una sceneggiata o un fallimento. Zero vittime tra il personale americano e iracheno, diversi missili lontani dai bersagli, danni contenuti alle strutture. Secondo alcuni media, tra cui Cnn, Teheran avrebbe preannunciato i suoi raid alle autorità irachene, le quali avrebbero allertato gli americani. Insomma, gli iraniani avrebbero preso tutte le precauzioni perché i loro missili non provocassero vittime, mentre già pochi minuti dopo l’attacco il ministro degli esteri Zarif si affrettava a far sapere che per loro la questione era chiusa lì, a posto così.

La conferma è arrivata ieri sera dal segretario alla Difesa Usa Mark Esper: su 16 missili lanciati, 12 a segno, 11 sulla base di al Asad e uno a Erbil. È convinzione del Pentagono che l’Iran non abbia intenzionalmente evitato di uccidere soldati americani, ma ha avvertito del raid per evitare vittime irachene. Appreso dell’attacco imminente dagli iracheni, riferiscono sempre fonti del Pentagono, “non ci ha sorpresi, sapevamo già che stava arrivando”.

Che sia stata più una sceneggiata o più un fallimento, che abbiano deliberatamente o meno evitato vittime americane, poco cambia. Certamente è stata un’operazione tutta ad uso e consumo di propaganda interna, tanto che all’annuncio dei Pasdaran di 80 morti e centinaia di feriti nessuno ha dato credito al di fuori dei media iraniani – e, purtroppo, italiani.

Piuttosto, c’è da capire se nel panico per una reazione Usa nella notte gli iraniani non abbiano addirittura abbattuto un volo civile appena decollato da Teheran (quasi 180 morti). Insospettisce naturalmente la coincidenza, ma soprattutto che gli iraniani abbiano già fatto sapere che non daranno la scatola nera dell’aereo alla compagnia ucraina e alla Boeing.

In ultima analisi, due gli obiettivi centrati da Trump: il regime iraniano ha incassato la perdita di Soleimani, l’architetto e comandante della sua espansione regionale; e ha rivelato la sua debolezza, mostrando di temere una ulteriore rappresaglia Usa e un confronto militare diretto, memore della fine toccata ai precedenti regimi in Afghanistan, Iraq e Libia. Dunque, il presidente Usa ha azzeccato la proporzione del colpo e ristabilito la deterrenza. Certo, questo non significa che gli iraniani abbandoneranno le loro malefiche attività nella regione, che rinunceranno al terrorismo e al programma nucleare [a proposito, avrete sicuramente letto tutti l’esilarante annuncio di Teheran, che per ritorsione all’assassinio del loro martire, d’ora in poi non si sentono più tenuti a rispettare gli accordi sul nucleare, ndb], ma è probabile che almeno per un po’ si asterranno dal compiere e pianificare azioni eclatanti dirette contro gli Usa. Ora sanno che le linee rosse di Trump, al contrario di Obama, sono credibili e che oltrepassarle comporta un alto prezzo.

L’eliminazione di Soleimani è un game changer perché questa volta l’uso dei suoi proxies per colpire gli avversari non ha risparmiato Teheran da una rappresaglia che l’ha colpita direttamente. Non sul suo territorio, ma al cuore del suo sistema di potere, il cervello della sua strategia di espansione. Una grave perdita sotto molteplici aspetti: militare, politico, simbolico. Per autorità e carisma conquistati nei decenni sul campo, Soleimani non sarà facilmente sostituibile.

Un vero e proprio cambio di paradigma, delle regole del gioco, quello del presidente Trump. Se per quarant’anni il regime iraniano non è mai stato oggetto di una rappresaglia diretta per gli attacchi delle sue milizie contro militari o civili americani, la notizia oggi è che quei tempi sono finiti.

Per questo, come ha osservato Lee Smith, “l’uccisione di Soleimani è un’operazione molto più importante di quelle mirate contro il leader dell’Isis Al Baghdadi o persino Bin Laden, perché probabilmente darà forma alle azioni future di uno stato, non alla rotazione della leadership di gruppi terroristici”.

Opinione condivisa dal generale David Petraeus, l’ex comandante Usa in Iraq e Afghanistan artefice della strategia vincente di counterinsurgency nel dopoguerra iracheno, nonché ex direttore della Cia: “È impossibile sopravvalutare l’importanza di questa particolare azione. È più significativa dell’uccisione di Osama bin Laden o persino di al Baghdadi. Soleimani era l’architetto e il comandante operativo dello sforzo iraniano per consolidare il controllo della cosiddetta mezzaluna sciita”, un territorio che dall’Iran arriva al Libano passando per Iraq e Siria. È responsabile dell’uccisione di oltre 600 soldati americani, oltre che di molti militari e civili di altri Paesi, e “l’avversario più formidabile che abbiamo affrontato per decenni”.

Vinta una mano, però, ora bisogna vincere la partita. Nel discorso pronunciato ieri dopo il raid di risposta iraniano, Trump ha ricordato gli obiettivi. “All’Iran non verrà mai permesso di avere un’arma nucleare”.

[Credo di averlo già detto, ma lo ripeto: io che con l’inglese scritto me la cavo piuttosto bene ma con quello parlato sono una catastrofe, quando parla quest’uomo non mi sfugge una parola, e il merito è tutto suo]
La posta in gioco è sempre quella: la rinuncia vera, definitiva e verificabile al programma nucleare. Ma non solo: che l’Iran si comporti come un Paese “normale”, cioè la smetta con le sue attività destabilizzanti e il suo imperialismo nella regione. Trump non cerca il regime change tanto meno una guerra contro l’Iran. Bisogna sempre tenerlo a mente nel valutare le sue mosse. È stato eletto sulla promessa di chiudere le “infinite guerre” in Medio Oriente, non per aprirne di nuove. L’eliminazione di Soleimani, come dimostra anche la reazione-show iraniana, non contraddice i suoi obiettivi e la sua visione (non isolazionista ma nazionalista, jacksoniana). Non c’è alcuna svolta neocon, ma come ha spiegato il generale Petraeus “uno sforzo molto significativo per ristabilire la deterrenza, che ovviamente non era stata finora sostenuta dalle risposte relativamente insignificanti” alle provocazioni iraniane. Un potere di deterrenza militare che nessun leader occidentale sembra oggi voler più usare, ma senza il quale è molto difficile ottenere risultati in Medio Oriente come altrove.

Trump ha ereditato una situazione compromessa dai suoi predecessori, dai decisivi errori dell’amministrazione Bush nel dopoguerra iracheno e dalla disastrosa strategia di Obama – ritiro dall’Iraq e appeasement con Teheran – che hanno offerto all’Iran campo libero per espandersi nella regione.

Alla strategia della “massima pressione” dell’amministrazione Usa dopo il ritiro dal Jcpoa, una pressione economica, il regime iraniano ha risposto con una escalation militare, male interpretando come debolezza la prudenza del presidente Trump. Della scorsa primavera le aggressioni alle petroliere nello Stretto di Hormuz. A giugno Trump decise di bloccare all’ultimo momento un raid aereo in risposta all’abbattimento di un drone Usa. A settembre l’attacco a uno dei più grandi impianti petroliferi sauditi, anch’esso rimasto senza risposta. Solo dopo l’uccisione di un contractor, il 27 dicembre, ha deciso di colpire gli Hezbollah iracheni responsabili di numerosi attacchi con razzi e mortai contro le basi americane in Iraq. Ma non è bastato a ristabilire la deterrenza. Il 31 dicembre l’assalto all’ambasciata Usa di Baghdad da parte di centinaia di miliziani sciiti fatti penetrare nella Green Zone ha fatto scattare l’allarme rosso, riportando alla memoria le umiliazioni del 1979, il sequestro dei diplomatici Usa a Teheran, e del 2011, l’uccisione del console americano a Bengasi.

La decisione del presidente Trump di non rispondere militarmente alle provocazioni iraniane, scrivevamo su Atlantico a settembre, rischiava di essere percepita a Teheran come debolezza, incoraggiando i Pasdaran ad alzare il tiro. E più avrebbero alzato il tiro, per esempio prendendo di mira personale americano, più sarebbe stato “difficile calibrare una reazione sufficientemente forte da dissuadere Teheran dal proseguire con la sua escalation, ma non al punto da scatenare un conflitto su larga scala”. Per non voler rischiare una guerra, si correva il rischio di renderla inevitabile. Ed è esattamente ciò che è avvenuto. Avevamo anche ipotizzato tra le possibili opzioni di rappresaglia per ristabilire la deterrenza “uno strike chirurgico diretto a decapitare i vertici dei Pasdaran, Soleimani in primis”.

Ora, proprio per la severità del colpo subito, l’eliminazione di Soleimani, lungi dallo scatenare una escalation come molti temevano, potrebbe rappresentare il primo atto di una de-escalation. Potrebbe convincere chi detiene il potere a Teheran, anche considerando la gravità della situazione economica e l’ostilità della popolazione, a privilegiare la mera sopravvivenza del regime rispetto alle ambizioni atomiche e all’espansione regionale.

Federico Punzi, 9 Gen 2020 (qui)

Molto interessante anche quest’altro articolo, con informazioni che difficilmente trovano spazio nei nostri mass media antitrumpianamente corretti.

L’ira di molti palestinesi, arabi e iraniani per il lutto ipocrita di Hamas e Jihad islamica

Soleimani era un assassino, scrivono sui social network, e i suoi galoppini sono dei traditori che non pensano ai palestinesi ma solo al loro proprio tornaconto

Di Khaled Abu Toameh

I capi di Hamas e della Jihad Islamica palestinese vengono fortemente attaccati da numerosi palestinesi e altri arabi per aver espresso condoglianze per la morte di Qasem Soleimani e aver allestito in suo onore una “tenda da lutto” nella striscia di Gaza. I capi dei gruppi terroristi palestinesi vengono accusati di cercare di compiacere Teheran al solo scopo di garantirsi la continuazione del sostegno finanziario e militare iraniano. Vengono anche accusati di “trafficare con la religione e l’ipocrisia, ignorando il sangue di migliaia di musulmani” versato in parecchi paesi arabi dalle unità al comando di Soleimani e dalle milizie sue alleate.

Sono molti i palestinesi e gli arabi che hanno espresso la loro indignazione sui social network. “Perché allestire a Gaza una tenda da lutto in onore dell’assassino Soleimani?” si è chiesto Amr Al-Mogy, un utente egiziano di Facebook. Nadia El Shafei, anche lei egiziana, ha risposto: “Perché sono tutti traditori”. Anche Mona Mohamed ha pubblicato la sua risposta su Facebook: “I terroristi ricevono [alla tenda da lutto] le condoglianze per la morte del loro capo e datore di lavoro terrorista. Niente di strano”. Un altro utente egiziano di Facebook, il dott. Bahjat Kamal, ha commentato: “Hamas riceve le condoglianze per l’uccisione dello spregevole Soleimani, che ha ucciso bruciato e cacciato sunniti in Iraq, Siria, Libano e Yemen”.

Ha scritto su Facebook Mohamed Htaibat, professore giordano di studi islamici: “L’Iran e i suoi gregari, che si atteggiano a difensori della causa palestinese, in realtà non si preoccupano affatto della Palestina. Hamas sbaglia, perché non sa vedere la realtà se non alla luce del suo proprio tornaconto. Ciò comporterà un progressivo allontanarsi di Hamas dal suo ambiente arabo. E perderà il sostegno di arabi e musulmani. Chiunque si schieri con l’Iran si schiera contro i sunniti”. Bassam al-Amoush, un ex ambasciatore giordano in Iran, ha postato una foto che mostra Soleimani sorridente accanto a un’altra che mostrerebbe una mano carbonizzata del cadavere di Soleimani e la scritta: “La fine di un assassino”.

L’analista politico palestinese Ibrahim Hamami ha reagito con furore agli sperticati necrologi pubblicati da Hamas e Jihad Islamica palestinese. In un post su Twitter ha scritto: “Una dichiarazione di Hamas che esprime lutto per l’assassino Qasem Soleimani rappresenta decadimento morale, suicidio politico e ostilità nei confronti della nostra nazione. È inconcepibile che ci sia stata una riunione dove è stata presa la decisione di diffondere una dichiarazione così catastrofica”. Amr Abu Amin, un palestinese di Khan Yunis, nella striscia di Gaza meridionale, ha affermato che coloro che hanno allestito la tenda da lutto per “l’assassino Soleimani rappresentano solo se stessi: è deplorevole vedere una tenda da lutto nella striscia di Gaza per l’omicida Soleimani”. Jihad Hils, scrittore palestinese e predicatore islamico della città di Gaza, si è dichiarato “in forte disaccordo” con la decisione di Hamas e Jihad Islamica di montare una tenda da lutto per il generale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane. “Soleimani era un assassino – ha scritto Hils su Facebook – Coloro che lo piangono non ci rappresentano. I palestinesi stanno dalla parte dei loro fratelli musulmani. Il nemico dei musulmani è nostro nemico. Chi uccide i musulmani uccide anche noi”. Majed Abdel Nur, un altro scrittore palestinese della striscia di Gaza, ha affermato che è giunto il momento di chiamare Hamas a rispondere delle sue posizioni ostili nei confronti degli arabi: “Coloro che sostengono gli assassini sono anch’essi assassini – ha scritto – È tempo di chieder conto ai traditori [di Hamas]”.

Lo sceicco Kamal al-Khatib, vice capo del Movimento Islamico in Israele, ha pubblicato sabato scorso un commento su Facebook in cui descrive Soleimani come “il comandante militare iraniano di Baghdad, Damasco, Beirut e Sanaa”. Nel suo post, Khatib scrive: “Non ho mai creduto che saresti arrivato a Gerusalemme a farti martirizzare come comandante della Forza Quds. Sei stato ucciso all’aeroporto di Baghdad mentre arrivavi da Damasco per perseguire i tuoi piani volti a uccidere musulmani e scacciarli da Damasco, Aleppo, Idlib, Baghdad, Mosul e Falluja. Gerusalemme è pura e può essere liberata solo da coloro che sono puri”.

“Il fatto più importante dei giorni successivi all’uccisione di Soleimani è quello che non è successo – ha scritto sul sito israeliano Mako Ehud Ya’ari, commentatore di affari mediorientali per la tv israeliana Canale 12 – Gli sciiti di Baghdad non sono scesi in strada per partecipare alla processione funebre che passava per le strade della capitale irachena. Scene simili nelle città sante di Najaf e Karbala. Non è cosa da poco, considerando che milioni di sciiti erano scesi nelle piazze di Baghdad per settimane per protestare contro il governo e bruciare le immagini della Guida Suprema Khamenei e dello stesso Soleimani”.

Secondo Ya’ari, la maggior parte degli sciiti in Iraq non sono disposti a unirsi agli sforzi fatti da Teheran per trasformare Soleimani in un gigante e “non vogliono vedere l’Iraq trasformato in un campo di battaglia tra Iran e Stati Uniti”. Ciò che la propaganda iraniana ignora sono le moltitudini di iraniani che vorrebbero scendere in piazza non per piangere Soleimani, bensì per celebrarne la morte. Ma hanno troppa paura di farlo. Sono gli iraniani che sono scesi nelle piazze in massa il mese scorso per protestare contro Khamenei e Soleimani e contro lo spreco delle risorse del paese in avventure militari all’estero. A quanto risulta, circa 1.500 di loro sarebbero stati uccisi dalla repressione del regime.

Masih Alinejad, che si definisce “giornalista e attivista iraniana” con 152.000 follower su Twitter, ha pubblicato sul suo account il video di quella che ha detto essere una donna iraniana che celebra la morte di Soleimani. Solo la metà inferiore del volto della donna è visibile nella clip di un minuto in cui, parlando in persiano con sottotitoli in inglese, dice: “Congratulazioni, congratulazioni a tutti coloro che cercano e amano la libertà in Medio Oriente, in Iran, Libano, Palestina, Siria e Iraq. Oggi avremmo voluto festeggiare nelle piazze della nostra città, come il popolo iracheno, ma disgraziatamente siamo tenuti in ostaggio dalla Repubblica Islamica e non possiamo manifestare la nostra gioia”.
Masih Alinejad
La donna esprime poi la speranza che tutti i capi della Repubblica Islamica iraniana, da lei definiti un gruppo terroristico, e lo stesso Khamenei, che “ama il martirio”, “vadano il prima possibile dove è andato Qasem Soleimani e diventino loro stessi martiri. E amen”.

All’inizio di questa settimana Masih Alinejad ha twittato: “Per molti iraniani, Qasem Soleimani era un guerrafondaio che ha causato un sacco di vittime in Siria. Non era certo un eroe per gli iraniani comuni che gridavano contro il sostegno del loro paese a Hezbollah e Hamas. Sfortunatamente i mass-media occidentali mancano completamente il punto quando esaltano la figura di Soleimani, che era un nemico per la gente comune in Iran, Libano, Iraq e Siria”.

(Da: Jerusalem Post, 5-6.1.2020, qui)

Khaled Abu Toameh, è un giornalista arabo israeliano di straordinaria onestà e straordinario coraggio, doti entrambe fortemente carenti in certi giornalisti ebrei israeliani e in certi giornalisti e saltimbanchi ebrei di casa nostra.

barbara