Almeno la fine di un capitolo, sicuramente sì.
“I Castro ci torturavano per non gridare ‘morte al comunismo’”
Da Pedro Boitel, che fecero morire di sete, ad Armando Valladares, ventidue anni di carcere. L’intellighenzia italiana, infatuata del comunismo caraibico, ha censurato i dissidenti cubani
Con le dimissioni di Raul finisce la lunga era del clan Castro. Mezzo milione di esseri umani passati attraverso il Gulag cubano. Dal momento che la popolazione totale dell’isola è di undici milioni, il regime dei Castro detiene uno dei più alti tassi di carcerazione pro capite al mondo. Migliaia le esecuzioni, non sapremo mai quante. La tortura istituzionalizzata contro gli “elementi antisocialisti”. Senza contare la repressione sistematica, brutale e sproporzionata nei confronti della minima manifestazione di dissenso, con punizioni periodiche nelle quali gli oppositori sono giudicati in processi grotteschi e condannati a pene feroci.
Un gruppo di dissidenti ha tenuto testa in questi decenni a questa feroce dittatura che ha stregato le sinistre di tutto il mondo.
Il dottor Oscar Biscet, il “Gandhi del Caribe”, che iniziò la sua lunga e agonizzante resistenza al regime quando scoprì che a Cuba si praticava l’infanticidio e gli aborti indiscriminati. Il muratore e idraulico Orlando Zapata Tamayo, morto in carcere per uno sciopero della fame. Guillermo Fariñas, premio Sakharov per la libertà di coscienza, che è facile ricordare per le fotografie in cui assomiglia a uno spettro, psicologo e giornalista costretto alla sedia a rotelle da una polinevrite. Jorge Luis Pérez “Antúnez”, che si è fatto diciassette anni di carcere. Il leader cattolico Julián Antonio Monés Borrero. E Pedro Luis Boitel, un leader degli studenti e coraggioso avversario di Batista e di Castro, che ordinò personalmente che a Boitel fosse negata l’acqua potabile. Boitel morì di sete, in una agonia orribile, cinque giorni dopo.
E poi il più celebre dissidente cubano, Armando Valladares, che nelle segrete castriste ci ha trascorso ventidue anni e che Amnesty International (quando era ancora Amnesty) nominò “prigioniero di coscienza”. Fu lui, nel 1982, a scioccare il mondo con il libro “Contro ogni speranza: ventidue anni nel gulag delle Americhe”, scritto dal suo esilio a Parigi (in Italia uscì per la minuscola Spirali edizione e mai ristampato, sotto censura da parte dell’intellighenzia di sinistra). Nel libro, Valladares raccontava la dittatura cubana, di come tappassero la bocca ai condannati perché al momento della scarica non gridassero “viva Cristo Rey!” o “muérte al comunismo!”, in una epopea di dolore che gli sarebbe valso l’appellativo meritato di “Solgenitsin cubano”.
Valladares e gli altri furono tenuti in isolamento completamente nudi in piccole celle dall’alto delle quali i secondini gettavano sui prigionieri palate di escrementi fino a ricoprirne il corpo. Fa impressione pensare che negli stessi periodi in cui nelle prigioni della Cabana accadeva tutto questo, non pochi cronisti andavano e venivano dall’Avana sempre nella speranza di essere scelti da Fidel Castro per un’intervista. Lo arrestarono che Valladares aveva 22 anni nel dicembre del 1960 e ne sarebbe uscito nell’ottobre del 1982. Faceva l’impiegato presso la Cassa di risparmio postale. “Avevo solo espresso qualche dubbio sul futuro della rivoluzione”. Una paralisi gli bloccò le gambe, nel 1974, dopo che i dirigenti del carcere della Cabana gli rifiutarono il cibo per 46 giorni, non avendo Valladares accettalo di sottoporsi alla “rieducazione”.
Ci hanno raccontato tutto dei gusti personali del Líder Máximo. Ma niente di questi eroi. Come Valladares, che dirà: “Eppure mi sentivo libero. La libertà è un atteggiamento interiore”.
Bellissimo e sconvolgente il libro di Valladares, se riuscite a procurarvelo dovete assolutamente leggerlo.
Di Cuba in questo blog si è parlato spesso, tra l’altro qui, qui e qui.
barbara