L’IDENTITÀ DI GENERE SPIEGATA BENE

Qual è la prima necessità di un bambino, la più assoluta, la più imprescindibile? No, non è l’essere accudito: quello viene dopo. E non è neanche l’essere nutrito, no: anche quello viene dopo. Perché quando le cose di cui hai bisogno per sopravvivere non puoi procurartele da solo, la prima necessità, perché qualcuno provveda a procurartele, è quella di essere accettato. L’essere accettato è alla base di tutto il resto, se manca quello, tutto il resto non arriva.

Mio padre, visto che proprio gli toccava diventare padre, voleva almeno che fosse un maschio. Purtroppo, per sua disgrazia, il figlio che gli è nato era totalmente privo di pendagli. Ha quindi dovuto rinunciare ad avere un maschio, ma non ha rinunciato a crescere un maschio: a quattro anni mi ha fatto il saccone da box; a sei mi ha convinta, non ricordo con quali argomenti, che i miei boccoli biondi non erano per niente virili e da allora, fino a 16 anni, mi ha fatta rapare dal barbiere dei militari; a sette ha cominciato ad addestrarmi all’uso delle armi – armi vere, non armi giocattolo; a otto anni, quando ce ne siamo andati dal centro, impraticabile per un bambino, e siamo andati a stare in periferia, ho avuto la mia prima bicicletta, ed è stata una bicicletta da uomo.

Per poter essere accettata dovevo smettere di essere femmina, ed è quello che ho fatto. Attenzione, non ho fatto finta di crederlo, non ho recitato una commedia con la coscienza di stare recitando una commedia: il bambino non conosce la tecnica brechtiana dello straniamento, e neanche il bispensiero: il bambino diventa ciò che gli adulti da cui dipende vogliono che lui sia, e ci crede con tutto se stesso; qualunque cosa si vuole che lui sia, lui lo diventa: vuoi che sia uno spietato assassino? Diventerà uno spietato assassino. Vuoi che sia un delatore dei propri famigliari? Diventerà un delatore dei propri famigliari. Vuoi che sia di un sesso diverso da quello in cui è nato? Diventerà una persona di un altro sesso.  Io ho smesso di credere che nell’essere donna potesse esserci qualcosa di positivo, ho smesso di sentirmi donna, ho smesso di percepirmi come donna, ho smesso di pensare a me stessa come a una donna. Ho smesso di presentarmi come donna: “sesso neutro” mi definivo. E ci credevo. Sbagliavo, naturalmente: chi non ti accetta per quello che sei, semplicemente non ti accetta tout court, e non c’è niente che tu possa fare per modificare questo dato di fatto, non c’è niente che possa renderti accettabile e accettato, ci sarà sempre qualcosa che farà scattare la repulsione, il rifiuto, il castigo, il relegarti nell’angolo dei reprobi, il cancellarti dal paradiso degli eletti, dei meritevoli di vivere, la negazione di te come persona. Ma questo lo capisci a settant’anni, magari anche a cinquanta, forse a trenta, ma non a quattro, non a dieci, non a quindici.  A venti magari cominci a sentirti maledettamente a disagio in quella pelle che tu stesso ti sei cucito addosso, ma il perché non lo sai.

Ecco: l’identità di genere è tutta qui. Quando sentite un bambino, un ragazzino, un ragazzo dichiarare che lui si sente di un genere diverso dal sesso genetico, prendete una lente di ingrandimento gigante e andate a studiare i suoi genitori, o almeno quello dominante.

A essere nati settant’anni fa c’è, per lo meno, il vantaggio di non avere avuto a portata di mano ormoni in grado di trasformare, forse irreversibilmente, il corpo, e con un po’ di fortuna e tanta sofferenza, magari si riesce a recuperare ciò che la natura ci aveva fatti, e a diventare – a ridiventare – una donna felice e fiera di esserlo. Magari così:

barbara