Un’interessante analisi da parte di un fotografo professionista.
Cosa abbiamo visto l’11 settembre
Fra le migliaia – sicuramente decine di migliaia, probabilmente centinaia di migliaia – di fotografie scattate vent’anni fa alle Torri Gemelle in fiamme, c’è anche un dagherrotipo.
Lo realizzò Jerry Spagnoli, un appassionato di antiche tecniche fotografiche. Appena avuta la notizia dell’attentato, non ebbe esitazioni: salì sul tetto della sua casa di Chelsea, montò sul treppiede la pesante fotocamera di legno, inserì la lastra, tolse il copri-obiettivo e impressionò la veduta, con una esposizione di tre secondi.
Poche ore dopo, in orbita a 250 miglia di altezza sulla crosta terrestre, il comandante Frank Culberston puntò una videocamera digitale verso la superficie terrestre, affacciandosi all’oblò della Stazione Spaziale Internazionale, e prese una veduta zenitale di Manhattan attraversata da un pennacchio di fumo.
In qualche modo, lo spettacolare atto di guerra con cui si inaugurò il terzo millennio riuscì a convocare attorno a sé quasi due secoli di storia della fotografia, dalla prima tecnica efficiente alla ultima applicazione dell’era spaziale.
Obiettivo raggiunto. Bisogna dolorosamente riconoscerlo: progettato per essere il singolo più grande show sanguinario nell’era della riproducibilità tecnica, lo fu davvero. Un evento chiave, un punto di svolta nella storia mondiale, certo; ma anche nella storia delle immagini.
Una svolta che con meticolosa pazienza l’ex photoeditor di Life, David Friend, ricostruì qualche anno fa in un libro documentatissimo, Watching the World Change, da cui ho tratto queste notizie.
Chi organizzò l’attentato dunque fece bene i suoi conti. Voleva affermare un’era di terrorismo visuale. Lo fece.
Era, singolare e simbolica coincidenza, l’anno in cui per la prima volta una fotocamera veniva incastonata su un telefono portatile in commercio. Forse un po’ presto per sfruttare la novità.
Ma i registi del terrore sapevano di andare comunque a colpo sicuro. Prevedevano che il loro massacro pirotecnico sarebbe stato inquadrato dall’inizio alla fine, e riprodotto senza sosta, e rilanciato milioni di volte.
Che il preciso momento dell’impatto venisse registrato da qualche apparecchio, era per loro una certezza statistica.
Di fatto, alle 8.41 dell’11 settembre 2001, il momento del primo impatto, almeno tre video-fotoamatori (oltre a diversi sistemi video automatici) avevano la lente già puntata sulle Twin Towers.
Pochi istanti dopo, ovviamente, quelle lenti erano già migliaia. Pubbliche, private, professionali, amatoriali. Qualche coincidenza non premeditata accrebbe la feroce fortuna degli attentatori.
New York era piena di fotografi, quel giorno. La consegna degli MTV Award aveva attirato una sessantina di fotografi di agenzia. Il convegno periodico di Magnum riuniva quel giorno in città una quindicina di nomi del Gotha del fotogiornalismo.
Altri grandi star della fotografia erano casualmente lì. In poche ore, inquadrarono la tragedia celebrità come Steve McCurry, Alex Webb, Thomas Hoepker, James Nachtwey, David Turnley, Joel Meyerowitz, Mary Ellen Mark, Joel Sternfeld, Mike e Doug Starn, Jonathan Torgovnik, Eugene Richards e altri ancora.
Fu come gettare un sasso in piccionaia.
Senza mancare di rispetto alle quasi tremila vittime di quel giorno, si può dire che l’attacco all’America dell’11 settembre fu concepito, organizzato e realizzato essenzialmente come un assalto all’immaginario.
Armati di una sofisticata teoria semiologica, o forse di pura e semplice intuizione, i terroristi puntarono coscientemente sul potere destabilizzante delle immagini selvagge; sulla impossibilità, per l’avversario, di fermarle, di censurarle, almeno immediatamente.
Puntarono a colpire i loro nemici con la potenza delle immagini nude. Immagini all’arma bianca.
Fecero in modo che le immagini arrivassero al bersaglio grosso, l’anima del mondo intero, prima delle parole e della ragione. Fu la versione estrema, e criminale, del potere che tranquillamente abbiamo delegato alle nostre fotine relazionali: saltare direttamente al cuore.
Tutto, in quei giorni, ruotò attorno ad immagini ubique, travolgenti, irrefrenabili. Le dirette delle reti televisive rimasero per ore fisse sullo scenario. Le fotografie a piena pagina invasero le “prime” dei quotidiani. Le fotografie private, spontanee, vennero disseminate ovunque: piccoli schermi, in tutti i sensi, fra lo stupore terrorizzato di una metropoli e l’evento.
Non c’erano ancora i fotocellulari, ho detto. Non c’erano neppure i social network per condividere istantaneamente le foto prese per strada. Ma c’erano i blog, e si intasarono. Continua
Sicuramente una delle cose più interessanti in circolazione.
barbara