concediamoci un po’ di… Innocenti evasioni
Buon anno di evasione a tutti.
barbara
Dove si riparla delle famigerate auto elettriche, e che il Signore stramaledica loro, chi le ha inventate e gli stramaledetti signori dell’Europa che tentano di imporle all’intera umanità.
Perché l’auto elettrica rischia di essere un muro contro il quale andremo a sbattere? [Più che un rischio, io direi che è una certezza] Per dirla in modo sintetico: perché stanno incentivando il consumo green senza curarsi troppo della produzione green.
Mi spiego.
Guardavo ieri una pubblicità della nuova ID4 della Volkswagen (https://www.volkswagen.it/it/modelli/id4.html), un’auto che “apre la strada ad un nuovo modo di viaggiare ancora più sostenibile e digitale.”. Bellissimo: sostenibile e connessa, in linea con la svolta green che tutti desideriamo.
Poi vai a vedere che quest’auto ha una batteria di 77Kwh, che, dicono, puoi comodamente ricaricare da casa o da un impianto superveloce da 125 Kw.
E allora facciamo due conti. Immaginiamo di avere a casa un normalissimo impianto da 3 Kw. Superiamo di slancio fastidiosi dettagli del tipo “ma se abito al quarto piano e non ho garage, come l’alimento la macchina parcheggiata in strada?” e facciamo una divisione: 77/3= 25 ore circa. Attaccando l’automobile alla presa di casa, spegnendo tutto, dal frigo alla lavastoviglie, potrete ricaricare l’auto in comode 25 ore.
Troppe. Però, vi dicono, potete accedere ad una colonnina di ricarica ultraveloce da 125 Kw. Qui, facendo la divisione, vediamo che in una mezz’oretta ce la caviamo. A patto di tralasciare qualche fastidioso dettaglio, del tipo che fintanto che l’auto elettrica ce l’hanno uno su mille, quell’uno troverà sempre la colonnina libera e perderà mezz’ora. Ma se l’auto elettrica ce l’hanno venti su cento, è assai dubbio che siano così libere, e se il tempo di ricarica è di mezz’ora, il tempo di attesa può diventare piuttosto lunghetto. Meglio, se programmate un viaggetto che richiede un paio di ricariche, informarvi non solo su dove siano le colonnine lungo il tragitto, ma quante di queste abbiano annesso un servizio di motel.
Vabbé, limiteremo i viaggi lunghi e ne approfitteremo finalmente per leggere La Ricerca del tempo perduto che terremo in macchina, per poterla tirar fuori ad ogni ricarica. Tutto risolto?
Mica tanto. Immaginiamo un autogrill sull’autostrada, uno qualunque, uno di quelli che oggi ha una decina di pompe di benzina, gasolio, gpl o metano. E immaginiamo questo autogrill con una decina di impianti di ricarica a 125 Kw. Per alimentarli è necessaria una centrale da 1Mw (cioè 1.000 Kw) almeno, che eroghi tutta la sua potenza nel momento in cui 10 auto elettriche scariche chiedono la ricarica. Ma, come abbiamo detto, in genere un impianto domestico di città è di 3Kw, il che vuol dire che la centrale elettrica da 1Mw, sufficiente (e manco…) ad alimentare uno e un solo autogrill, sarebbe altrimenti sufficiente a provvedere al fabbisogno elettrico di (1000/3) oltre 300 famiglie. Un villaggetto. Quindi: 10colonnine ultraveloci = un villaggetto.
Bene, da dove peschiamo quest’energia per alimentare le 10 colonnine? Ma da fonti rinnovabili, è ovvio. Siamo o non siamo green?
Per esempio dal fotovoltaico. Correggetemi se sbaglio, ma per avere una potenza da 1 Mw è necessario un ettaro (cioè un campo di calcio) di pannelli (http://www.rinnovabilandia.it/quanta-superficie-occupa…/ ). I quali pannelli, peraltro, produrranno quel Mw se il sole splende nel cielo a mezzogiorno. Se è nuvoloso, molto meno, se è notte, niente. Allora con le pale eoliche. Ottimo, uno di quei bestioni alti mezza torre Eiffel è in effetti da 2 o 3 Mw. A patto che tiri vento, e pure sostenuto. Se non c’è un alito di vento, nulla. Se il vento è una brezza, quasi niente.
Il tutto per alimentare 10 colonnine che, in 24 ore, a mezz’ora di ricarica ciascuna, possono rifornire meno di 500 auto.
E allora? Oltre a viaggiare con la lista dei motel devo pure consultare un’app con le condizioni meteo lungo il tragitto? Ovviamente no, si provvederà in altro modo, vale a dire consumando fonti fossili (dal gas al carbone) per produrre quell’energia elettrica che fa del possessore di un’auto elettrica un vero Green.
In Italia, attualmente, circolano 37milioni di automobili (https://www.latuaauto.com/quante-auto-ci-sono-in-italia…). Ecco, fate il conto mentale di quante colonnine, quante mezze torri Eiffel, quanti campi di calcio a pannelli solari, sarebbero necessari per ricaricare un 10% (cioè circa 4 milioni) di automobili che percorrono una trentina di Km al giorno. Una traccia: immaginiamo che ogni auto abbia un’autonomia reale di 300Km a carica, se fa 30Km al giorno vuol dire che ogni giorno, se le auto sono 4 milioni, bisognerà ricaricarne 400mila. Se un autogrill da 10 colonnine ricarica (vedi sopra) 500 auto al giorno (ma a pieno regime nelle 24 ore), saranno necessari 800 autogrill, ciascuno da 10 colonnine da 125 Kw l’una. Per solo il 10% di auto elettriche, circa 8mila colonnine (ultraveloci: se sono le normali da 20Kw non ne parliamo) che funzionino 24 ore su 24. Hai voglia a mezze torri Eiffel e campi di calcio.
A questo punto del discorso generalmente salta fuori la parola “nucleare”. Fonte che, come sappiamo, ha impatto zero sulla Co2. Se ne può discutere e non sono affatto contrario, ma sarebbe il caso di non usare quella parola come Mago Merlino usava abracadabra. Perché costruire una centrale nucleare non è cosa semplice, e solo chi vive sulla luna non lo vede. Quanti anni passano, realisticamente, perché la si possa costruire e connettere alla rete? Dieci? Quindici (come più o meno ne ha impiegati l’appena inaugurata centrale finlandese https://www.huffingtonpost.it/…/dodici-anni-di-ritardo… )? Ecco, ma noi abbiamo un orientamento dell’Unione Europea che vorrebbe che siano vendute solo auto elettriche dal 2035. Il che farebbe sì che i possessori di auto elettriche non siano l’1 per mille di oggi, ma corpose decine di punti percentuali.
E, noterete, non ho nemmeno sfiorato altri fastidiosi dettagli. Del tipo: passati un po’ di anni, come succede nei telefonini, le batterie perdono capacità, e si scaricano prima. A quel punto il costo di ricambiare una batteria potrebbe essere maggiore del costo dell’auto sul mercato dell’usato. Insomma: dovete buttarla in qualche sfascia carrozze o, se siete un po’ più estroversi, farla esplodere con la dinamite (https://www.motorionline.com/tesla-model-s-fatta…/… ). Inoltre non ho nemmeno sfiorato il discorso di cosa succederebbe a tutte quelle fabbriche che costruiscono componenti per auto. Questo perché l’auto elettrica è enormemente meno bisognosa di “pezzi” rispetto ad una endotermica e una marea di imprese specializzate, semplicemente, falliranno. Con conseguente, inevitabile, disoccupazione.
Torniamo all’inizio. Spingere sull’auto elettrica significa spingere sul consumo green. Ma se poi non riesco a produrre green, il rischio è che noi abbiamo un’auto elettrica che marcia, di fatto, a carbone (https://formiche.net/2021/12/energia-europa-carbone-ue/). Come le locomotive del vecchio West che dribblavano gli Apaches.
Ottimo risultato. Però green.
Perché le favole sono belle, ma se invece di raccontarle ai bambini per farli addormentare le raccontiamo a noi stessi per fare finta di essere buoni belli bravi arguti intelligenti, non va mica a finire troppo bene, non va. (E non abbiamo ancora parlato dello smaltimento delle batterie esauste, per il quale ancora non si conosce soluzione, e di quello dei pannelli solari, e di quello delle pale eoliche, in gran parte non riciclabili. E della simpatica tendenza delle batterie elettriche a esplodere, così, per allegria. Eccetera)
barbara
Ho seguito e sto seguendo centinaia di persone vaccinate con 2 o 3 dosi di vaccino che hanno il Covid. Ebbene queste persone hanno un raffreddore o una forma influenzale che dura 3-4 giorni. Nulla a che vedere con il Covid di un anno fa e con il Covid di chi non è vaccinato. Dobbiamo quindi continuare con la stessa metodologia di affrontarlo dello scorso anno? Tracciamento? Milioni di tamponi? Isolamento di tutti i contatti? Quarantene dalle durate variabili e diverse a seconda di chi le decide? Reparti Covid dedicati con personale sottratto alle altre attività sanitarie? Colori delle regioni decise sulla base degli ospedalizzati senza distinguere malati da colonizzati asintomatici?
Non si può affrontare questa fase con le stesse regole. Abbiamo oltre l’80% della popolazione generale che è protetta. Chi non è vaccinato dovrebbe farlo presto, ma se non ha ancora capito o voluto capire l’importanza del vaccino difficilmente lo farà senza regole nuove.
Vedere code chilometriche nelle farmacie in questi giorni per fare il tampone serve a qualcosa?
Con oltre 50000 casi al giorno destinati a diventare molti di più nelle prossime settimane, dobbiamo vivere in maniera diversa la convivenza con il virus. Chi è malato deve stare a casa, come sempre si sarebbe dovuto fare per le malattie infettive contagiose e dobbiamo finire con il tracciamento. Non possiamo continuare a mettere in quarantena e in isolamento forzato decine di persone (i contatti) per ogni tampone positivo.
Il rischio, continuando così e’ trovarci tra pochissimo con milioni di persone isolate e in quarantena. Chi farà il pane, chi guiderà gli autobus, chi svolgerà le lezioni a scuola, chi garantirà la sicurezza, chi batterà lo scontrino al supermercato, chi lavorerà in ospedale?
Usciamo dalla visione del Covid come malattia devastante e entriamo nella fase endemica con una malattia più gestibile (nei vaccinati) costruendo regole diverse. Altrimenti sarà durissima.
Peccato solo che i signori lassù – quelli, per inciso, che da oltre due anni ci stanno imponendo governi uno più di merda dell’altro, incapaci, criminali, autori di politiche devastanti, e lontanissimi dall’orientamento attuale del Paese, pur di non lasciarci votare – abbiano tutt’altro tipo di interessi.
barbara
Normalmente quando sentite di “un ebreo, un cristiano e un musulmano” supponete che sia l’inizio di una barzelletta. Ma nel Sylvan Adams Children’s Hospital a Holon, Israele, è una straordinaria storia vera del potere della coesistenza.
Hannah, una bambina di 8 anni di Myanmar, è arrivata in Israele per un intervento cardiaco salvavita grazie all’organizzazione israeliana Save a Child’s Heart. I tre medici che hanno eseguito l’intervento erano un ebreo, un cristiano e un musulmano. (Qui)
(E no, non parlerò della morte di un famoso antisemita di merda)
barbara
Un pensiero al nostro amato governo
che però non è per mania di protagonismo: il motivo c’è:
e i miei due antidepressivi preferiti, uniti in un unico spettacolo
(quindici anni! Peccato solo quel fastidiosissimo battimani per segnare il tempo, che nella marcia di Radetsky ci sta d’incanto, ma altrove disturba proprio, e quegli imbecilli ormai lo fanno dappertutto, perfino sulla musica classica)
barbara
Per la notte di Natale regaliamoci un po’ di cultura alta (e mi sa che lo dovrò rileggere).
Buon Natale a tutti.
barbara
del clima.
A Glasgow, in occasione della nuova Conferenza internazionale sul clima, la Cop26, i principali leader mondiali parlano con una voce unica. Ed è quella del catastrofismo.
I discorsi fanno rabbrividire, parrebbe di essere presenti ad un convegno di millenaristi di tempi antichi. La fine del mondo è dietro l’angolo e manca anche la speranza di una vita e di una salvezza dopo la morte. Johnson apre subito dicendo che noi, senza rendercene conto, viviamo in un film di 007. Come “… James Bond in quei film in cui deve disinnescare un macchinario mortale pochi minuti prima che scatti, ma questo non è un film”. E quindi “Dobbiamo disattivare questo dispositivo del giorno del giudizio”. Il massimo lo raggiunge il principe Carlo: “Il mondo deve mettersi in una disposizione di spirito bellica, da ultima spiaggia, di fronte alla sfida dei cambiamenti climatici che incombono sul pianeta”.
Ma chi devono convincere? Perché parrebbero veramente tutti d’accordo. Mancano i leader di Cina e Russia, che hanno mandato i loro ministri. Non sono assenze da poco, considerando che Xi Jinping governa in modo assoluto sul Paese più inquinante del pianeta e Vladimir Putin su quello geograficamente più vasto, nonché seconda potenza nucleare (civile e militare) del mondo. Ma non sono i due leader antagonisti all’Occidente quelli a cui i messaggi sono rivolti. Non sono neppure menzionati, tanto meno contestati. E allora a chi sono rivolti tutti questi messaggi terrorizzanti? A Greta e agli ecologisti più radicali, che erano in piazza a Glasgow a spronare ancora più allarmismo? Non solo a loro. Non ce ne sarebbe bisogno.
Il target dei messaggi allarmistici dei capi di Stato e di governo riuniti alla Cop26 siamo noi. Noi, cittadini dei Paesi che governano. Quel che sta avvenendo, infatti, è un grande sforzo, da parte degli Stati, di cambiare modello economico, con il consenso, esplicito o anche solo passivo, di tutti i principali imprenditori. Questo è un tentativo di fare un “New Deal” mondiale. E, se quello di Roosevelt, almeno, aveva lo scopo di salvare il capitalismo (“da se stesso”), questo nuovo “Green New Deal” ha invece lo scopo teorico di salvare il pianeta dal capitalismo.
Mario Draghi, che piace ai liberali di oggi così come Roosevelt piaceva a quelli di allora (salvo Ludwig von Mises, Ayn Rand e pochi altri deplorables), parla da utopista e costruttivista, nel momento in cui afferma, alla conclusione del G20: “Stiamo costruendo un nuovo modello economico e il mondo sarà migliore”. [Come dopo la rivoluzione francese. Come dopo a rivoluzione d’ottobre. Come dopo la rivoluzione cinese. E quella cubana. E quella cambogiana – soprattutto si raccomanda quella cambogiana – eccetera] Un mondo migliore, né più, né meno. E come? Lo spiega alla Cop26: “Dobbiamo rafforzare i nostri sforzi sui fondi per il clima, far lavorare insieme pubblico e privato. Decine di trilioni sono disponibili. Ora dobbiamo usarli, trovare un modo intelligente di spenderli velocemente. Abbiamo bisogno che tutte le banche multilaterali e in particolare la Banca mondiale condividano con il privato i rischi”.
Attenzione ai termini. “Far lavorare insieme pubblico e privato”, considerando i rapporti di forza reali, vuol dire far lavorare il privato a seconda degli interessi dettati dal settore pubblico, cioè dal governo. “Trovare un modo intelligente di spenderli velocemente”, riferito alle migliaia di miliardi (triliardi) di cui parla Draghi, vuol dire: spenderli come dice il governo, sui progetti scelti dallo Stato. Perché “in modo intelligente”, in un mercato libero, è infatti un’espressione priva di senso: in un sistema liberale l’intelligenza è quella dei prezzi che sono fissati spontaneamente dall’incontro fra domanda e offerta. Spendere le migliaia di miliardi, disponibili nelle tasche dei privati, “intelligentemente”, cioè in modo diverso da quel che avrebbero fatto i loro detentori, vuol dire solo una cosa: pianificazione. Curioso che Draghi affermi anche di volerli spendere “velocemente”. Prima che ce ne accorgiamo? Probabilmente sì, giusto, comunque, per mettere ancora più urgenza in un discorso che si basa sull’emergenza, sull’imminenza di una catastrofe, sul poco tempo a disposizione per compiere scelte irreversibili.
E i cambiamenti previsti dovrebbero essere ormai noti, nei numerosi documenti di studio su come ridurre l’aumento della temperatura. Dovremo rinunciare ai combustibili fossili. Quindi dovremo cambiare tutti gli impianti di riscaldamento e viaggiare su veicoli elettrici. Dove non è possibile trasformare i motori, si dovranno limitare al minimo indispensabile gli spostamenti. Greta dice che solo i capi di Stato e di governo potranno prendere l’aereo. E per la produzione di energia, per ricaricare le batterie dei nuovi veicoli elettrici? Ci saranno le energie rinnovabili (i più avveduti costruiranno o manterranno anche le centrali nucleari, ma in Italia no). E se non basterà? Si dovranno ridurre i consumi, si dovrà rieducare la popolazione ad uno stile di vita più spartano. Anche la dieta sarà colpita: almeno il 20 per cento di consumo quotidiano di carne in meno. Quindi qualcuno dovrà controllare anche quel che abbiamo nel piatto, tutti i giorni. La riforestazione è il primo punto su cui i partecipanti alla Cop26 hanno raggiunto un accordo. Sarà un ritorno al passato: le terre che ora sono destinate all’agricoltura saranno di nuovo coperte dalle foreste, come nel Medioevo.
Cambiamenti così drastici richiedono certamente che le preferenze dei consumatori siano “reindirizzate”, con o senza il loro consenso. Richiedono controllo e pianificazione. In parole povere: un autoritarismo sempre più marcato, perché un mercato lasciato libero e una democrazia in cui “rischia” di vincere un Trump o un Bolsonaro, sarebbero ostacoli sempre più inammissibili nel nuovo modello. Solo “la scienza” può fissare gli obiettivi dei nuovi pianificatori che, si presume, devono essere così bravi e preveggenti da fissare le giuste quote di produzione nel lungo periodo, al punto da limitare la crescita della temperatura ad 1,5 gradi nei prossimi 30 anni.
Stefano Magni, 3 Nov 2021, qui.
Credete che questo sia il peggio? Ridicoli! Ingenui! Illusi!
Il manifesto del più puro ecologista: “Per il clima vostra madre e sorella saranno stuprate”. L’Olocausto? “Una stronzata”. “Sei miliardi moriranno”. Salviamo i giovani dai Nostradamus verdi
Il più puro, il più idealista, il più indomito dei salvatori del pianeta, il fondatore di Extinction Rebellion Roger Hallam, al settimanale tedesco Die Zeit aveva liquidato l’idea che l’Olocausto fosse un evento eccezionale: “E’ un fatto che milioni di persone nella nostra storia sono state regolarmente uccise in circostanze terribili”, per questo “a voler essere onesti” l’Olocausto “è un evento quasi normale” e “solo un’altra stronzata nella storia dell’umanità”.
Ora il fondatore di Insulate Britain, le cui tattiche sono state elogiate anche sulla bibbia della scienza inglese The Lancet, ha pubblicato un manifesto che invita i giovani a intraprendere azioni illegali per salvare la loro generazione dall'”annientamento”. Scrive Hallam:
“Il punto finale del collasso sociale è la guerra in ogni città, in ogni quartiere, in ogni strada. Questo è ciò che accadrà alla tua generazione e questa spaventosa situazione rischia di diventare un luogo comune. Una banda di ragazzi entrerà in casa tua chiedendo cibo. Vedrai tua madre, tua sorella, la tua ragazza violentate in gruppo sul tavolo della cucina. [Bello il dettaglio del tavolo da cucina: vero che vi commuove?] Ti costringeranno a guardare, ridendo di te. Prenderanno una sigaretta e ti bruceranno gli occhi. Non potrai più vedere nulla. Questa è la realtà del cambiamento climatico….”. [Non che il nesso sia molto chiaro, ma a chi mai verrebbe in mente di chiedere i nessi a uno schizofrenico paranoide?]
Cameron Ford, un noto attivista di Insulate Britain, ha appena detto: “I prossimi tre o quattro anni determineranno il futuro dell’umanità. Il collasso della società arriva e poi vedi il massacro. [Ah questo sì: continuate a far lievitare le bollette con le vostre politiche del cazzo e a contare sulle padelle solari e sui cazzi con le pale, garantito che il collasso arriva] Vedrai stupri. Vedrai omicidi”. [Oddio, io un omicidietto in mente lo avrei, se devo dirla tutta].
Una volta era l’orso polare che vagava spaesato. Ora sono gli stupri. E sbaglieremmo a pensare che siano soltanto degli spostati. L’arcivescovo di Canterbury ha appena paragonato il cambiamento climatico alla Shoah di sei milioni di ebrei, chiedendo poi scusa. D’altronde, come dice Hallam, il mondo è “una camera a gas”.
Hallam, che ha scritto il manifesto mentre era in prigione per aver lanciato un drone intorno all’aeroporto di Heathrow, scrive: “L’azione deve essere drammatica, epica, oltraggiosa, senza paura e illegale. Pensa alla tua idea più ambiziosa e moltiplicala per dieci… Ti renderà un eroe e, soprattutto, potrebbe salvare la tua generazione dall’inferno”.
Hallam non è un passante dell’ecologismo. Il suo movimento ha raccolto il sostegno del Labour, del giornale della sinistra inglese The Guardian, di divi del cinema come Emma Thompson, Jude Law e Benedict Cumberbatch, e ovviamente di Greta Thunberg, che ha detto: “Extinction Rebellion è il movimento più importante e promettente della nostra epoca”. Una frase di Greta campeggia anche nell’edizione italiana del libro di Hallam. [Ma perché non andate a estinguervi tutti quanti, tutti insieme appassionatamente cazzo, se ci tenete tanto alla salvezza del pianeta]
Tutto questo clima apocalittico non ha nulla a che fare con la scienza. Nessuna banda di ragazzi stuprerà vostra sorella o madre e vi brucerà gli occhi. Andrà tutto bene. E no, quello che ha predetto Hallam non si verificherà (“sei miliardi di persone moriranno a causa del cambiamento climatico”). Ma è urgente salvare i giovani da questi Nostradamus verdi.
Giulio Meotti
Certo che uno che si porta addosso una faccia così, cos’altro può desiderare, poveraccio, se non di estinguersi!
E ora, prima che ci facciano venire la tentazione di suicidarci (no, non per il clima: per non dover più vedere le loro facce e sentire i loro sproloqui), regaliamoci un po’ di sana dissacrazione.
Non è servito a un accidente. L’ha spiegato, come forse manco Cacciari, una ricerca nientemeno della Nasa. Che passi per i novax. Però i sivax, colleghi nostri e adoratori benedetti della sacra molecola, spostino il culo e se la vadano a leggere. Narra in due parole, quell’Everest dello studio, di come la concentrazione di gas serra nell’atmosfera, in particolare di CO2 e metano, abbia continuato imperterrita a salire e se ne sia sbattuta alla grande dell’inquinamento antropico crollato via lockdown. Stop agli impianti, taglio delle emissioni, traffico spento, petrolio al minimo e pulizia che manco alla Dixan, finché, tirate le somme: record assoluto di gas serra. Altro che dopobarba inquinanti: come se tutte quante le mattine fossimo andati tutti quanti al bagno su sei miliardi di tir. Bon. E il bello deve ancora venire. Dove? Ma in America. Sarà quando gli elettori democratici, pressati a non fare pipì per i prossimi due anni nel tentativo estremo di salvare il pianeta, piangeranno le loro verdi lacrime prendendo atto che, quel porcone di Trump, ha vinto le elezioni perfino a Filadelfia facendo a chi piscia più lontano.
Andrea Marcenaro
Ma se poi a uno, considerando che questo branco di pazzi criminali sta spingendo verso non solo la cancellazione della vita umana, ma anche la distruzione del pianeta, come più volte ampiamente documentato in questo blog, fosse colto da qualche istinto sbarazzino, diciamo così, potrebbe invocare la legittima difesa (no, non preventiva: effettiva, visto che stanno già riducendo un bel po’ di gente alla fame con le bollette)? Non so voi, ma io dico di sì.
barbara
Ritengo opportuno far precedere questo articolo da un inno appropriato.
Non sbarcano a Lampedusa, sono 9 milioni di venezuelani in fuga dal regime che ha realizzato l’uguaglianza: tutti poveri. Dai 5 Stelle ai Nobel, tutti compañeros alla “Mecca dei ciarlatani”
Le Nazioni Unite hanno avvertito che entro la fine del prossimo anno ci saranno 8,9 milioni di rifugiati venezuelani in tutta l’America Latina. Un esodo che supera di gran lunga quello siriano con 6,8 milioni di profughi. Ma se la Siria è finita così a causa di una guerra civile, il Venezuela ha fatto tutto da solo. Ha abbracciato il socialismo castrista, come racconta il Wall Street Journal.
Ma se per i migranti siriani e africani le tv, i giornali e le agenzie umanitarie sono tutte lì, alla frontiera polacca, nelle spiagge di Lesbo e nel porto di Lampedusa, per il grande esodo dei migranti venezuelani non c’è quasi nessuno.
“Nella prima metà del 2019, il Venezuela ha iniziato a soffrire di carenza di benzina” racconta il Journal. “La nazione aveva le più grandi riserve di petrolio del mondo. Eppure i conducenti si trovano ad aspettare giorni e giorni in fila davanti alle stazioni di servizio, ricordando la vecchia barzelletta su come se i comunisti si fossero impossessati del Sahara, la sabbia sarebbe finita. Allo stesso tempo, navi cisterna partivano dai terminal venezuelani pieni di petrolio dirigendosi… verso Cuba. Questa immagine racconta la storia fondamentale del disastro del Venezuela. I bisogni di Cuba vengono prima di tutto. Sempre”.
I dati sono spaventosi: “Il 95 per cento dei venezuelani è povero. Più di 3 venezuelani su 4 vivono in condizioni di estrema povertà e insicurezza alimentare. A 3 dollari al mese, il salario minimo legale non dà da mangiare a una persona per un giorno, figuriamoci a una famiglia per un mese. La metà della popolazione in età lavorativa ha abbandonato la forza lavoro. Il Pil pro capite è crollato a livelli che non si vedevano dagli anni ’50. La scarsità d’acqua è endemica in tutte le città. I blackout sono comuni. Le biciclette sono diventate il mezzo di trasporto preferito da coloro che possono permettersele. Il sistema sanitario è crollato, portando i tassi di mortalità infantile a livelli mai visti da una generazione. Malattie come la difterite e la malaria, che erano state debellate decenni fa, sono tornate. L’unico aspetto positivo? I tassi di omicidi sono diminuiti perché le munizioni scarseggiano”.
Un venezuelano in media ha perso 11 chili di peso…Il Venezuela è un luogo ideale per girare il sequel di “Hunger Games”. I giochi della fame. Nei giorni scorsi funzionari dell’Onu nello spiegare la gravità contrazione economica in Afghanistan hanno detto che “lo abbiamo visto soltanto in Venezuela”.
Perché curarsene? In fondo il Venezuela non siede forse nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu, anche se ha gli stipendi più bassi al mondo e l’inflazione più alta del pianeta?
Perché i 9 milioni fuggono da un regime incensato dai pundit di sinistra in tutto il mondo, dagli attori di Hollywood, dalle ong e da tanti, troppi funzionari delle Nazioni Unite. Donne che combattono per un pezzo di burro, madri che non riescono a trovare il latte, bambini che frugano nella spazzatura, scaffali vuoti nelle farmacie, ospedali senza barelle e antibiotici, medici che operano alla luce di un telefonino, donne che partoriscono fuori dagli ospedali. Sul New York Times, Bret Stephens si è domandato dove siano i progressisti sul Venezuela. “Ogni generazione di attivisti abbraccia una causa di politica estera: porre fine all’apartheid in Sudafrica; fermare la pulizia etnica nei Balcani; salvare il Darfur dalla fame e dal genocidio. E poi c’è la causa perenne – e perennemente indegna – della ‘liberazione’ della Palestina, per la quale non c’è mai carenza di creduloni fanatici”. Del Venezuela nessuno parla. “Le sue vittime stanno lottando per la democrazia, per i diritti umani, per la capacità di nutrire i loro figli”.
“Chiunque in Venezuela sarebbe felice di frugare nei cestini americani: i rifiuti sarebbero considerati gourmet”, scrive Business Insider. Caracas era la Mecca della sinistra europea, latinoamericana e americana.
Lo avevano cantato come un paradiso, ma era “una fiesta infernale”, secondo la definizione della New York Review of Books. Il settimanale francese Le Point ha definito il Venezuela “il cimitero dei ciarlatani”. Ancora quattro anni fa, il Manifesto si permetteva di pubblicare un articolo a firma di François Houtart in cui si elogiava un regime “fedele all’emancipazione del popolo”.
In Europa di ammiratori quel regime orrendo ne ha sempre trovati tanti: in Francia, il capo del terzo partito, Jean-Luc Mélenchon; in Inghilterra, il leader del Labour, Jeremy Corbyn; in Italia il primo partito, i Cinque Stelle; in Spagna, Podemos. E si sapeva già tutto, del famoso miracolo venezuelano.
Lo scrittore britannico Tariq Ali proclamava che il Venezuela era il paese più democratico dell’America Latina. Alfred De Zayas, esperto dell’Onu per la “promozione di un ordine democratico ed equo”, ha visitato il Venezuela per valutare il suo stato sociale ed economico. Tornando a Ginevra, De Zayas ha detto di non ritenere che ci fosse una crisi umanitaria. “Sono d’accordo con la Fao che la cosiddetta crisi umanitaria non esiste in Venezuela” ha detto De Zayas. Il premio Nobel per la Letteratura José Saramago ha elogiato il chavismo. Adolfo Perez Esquivel, il pacifista argentino Nobel per la Pace, definì Chàvez “un visionario”. Harold Pinter, un altro Nobel per la Letteratura, appose la sua firma a un manifesto in cui si difendeva il regime. Anche Black Lives Matter è vicino al dittatore venezuelano Maduro. “Attualmente in Venezuela, un tale sollievo trovarsi in un luogo in cui c’è un discorso politico intelligente”, scrisse Opal Tometi, fondatrice di Black Lives Matter.
Dalla Gran Bretagna, la campagna di solidarietà con il Venezuela, con sede a Wolverhampton, inviava in missione i membri del sindacato. Naomi Klein, l’autrice di No Logo, ha elogiato il Venezuela come un luogo in cui “i cittadini hanno rinnovato la loro fede nel potere della democrazia”, dichiarando che il paese era stato reso immune agli choc del libero mercato grazie al “socialismo del XXI secolo”. Gianni Vattimo si vantava di partecipare alla “Prima settimana internazionale di filosofia del Venezuela”. Mentre i venezuelani cercavano cibo nei rifiuti, il governo Maduro veniva premiato dalla Fao per aver “raggiunto l’obiettivo del millennio delle Nazioni Unite di dimezzare la malnutrizione”. “Il Venezuela può essere considerato uno dei paesi, come il Brasile e la Cina, che ha contribuito alla cooperazione”, ha osservato Laurent Thomas, direttore della Fao per la cooperazione.
Il premio Oscar Jamie Foxx si è presentato sorridente al palazzo presidenziale di Caracas per una foto con Maduro. L’attore Sean Penn ha incontrato i leader venezuelani in numerose occasioni, descrivendo quel paese come fautore di “cose incredibili per l’80 per cento delle persone che sono molto povere”. Dopo la morte di Chávez, Penn disse che “i poveri di tutto il mondo hanno perso un campione”. L’attivista afroamericano per i diritti civili Jesse Jackson ha visitato Caracas elogiando quel regime per la sua “attenzione al commercio libero ed equo”. Jackson ha offerto una preghiera al funerale di Chávez: “Hugo ha nutrito gli affamati”. L’attore Steven Seagal è appena andato a Caracas a regalare una spada a Maduro. L’economista Joseph Stiglitz, un altro Nobel, ha elogiato le politiche venezuelane per il “successo nel portare la salute e l’educazione alla gente nei quartieri poveri di Caracas”. Il senatore Bernie Sanders si è lanciato in una affermazione straordinariamente lungimirante: “Il sogno americano si è realizzato in Venezuela”. E un altro Nobel, Rigoberta Menchú, ha difeso il regime ancora lo scorso ottobre, dicendo che “per valutare un conflitto devi conoscere i dettagli dietro di esso”.
Se lo Yemen è piombato in un incubo umanitario a causa di una guerra, il Venezuela a causa del socialismo. “Nella sua incarnazione particolarmente virulenta e criminale” spiega il Journal. “Un’ondata di espropri iniziata nel 2005 ha messo gran parte dell’economia privata nelle mani dello stato. Salari, prezzi, assunzioni e licenziamenti, livelli di produzione, importazioni, esportazioni e investimenti: tutto è stato soggetto a regole minuziosamente dettagliate ideate da burocrati socialisti con poche nozioni su come gestire un’impresa. Caracas si era trasformata in un importante centro di riciclaggio di denaro, con cleptocrati neofiti in cerca di partner più esperti in grado di aiutarli a nascondere il loro bottino”.
Adesso il Venezuela, dopo averli mandati in bancarotta, sta tornando alla privatizzazione di ampi settori dell’economia, racconta Bloomberg.
Trent’anni fa, la notte di Natale del 1991, la bandiera rossa veniva ammainata sopra il cielo di Mosca. Era la fine dell’Unione Sovietica. Oggi – fra Corea del Nord, Vietnam, Cina, Cuba e Laos – 1,5 miliardi di esseri umani vivono ancora sotto dittature che, anche soltanto formalmente, si definiscono “comuniste” e “socialiste”.
I boia nordcoreani tormentano i prigionieri condannati, li mutilano dopo la morte e costringono le persone a guardare i cadaveri, afferma una inchiesta sulla pena capitale durante il decennio al potere di Kim Jong-un e rivelata dal Times. Il rapporto di un’organizzazione per i diritti umani di Seoul afferma che delle esecuzioni pubbliche che ha documentato, il maggior numero non sono per omicidio o stupro, ma per il reato di visione o distribuzione di video dalla Corea del Sud. “Il condannato è stato trascinato fuori da un’auto come un cane prima dell’esecuzione pubblica”, ha detto un testimone di un plotone d’esecuzione a Hyesan. “La persona che stava per essere giustiziata era già in una condizione di pre-morte e i suoi timpani sembravano danneggiati, impedendogli di sentire o dire qualsiasi cosa”. In un’altra esecuzione a Sariwon, nella provincia di North Hwanghae, il condannato è stato legato a un palo di legno con dei sassolini in bocca. Altri intervistati hanno descritto la mutilazione dei corpi. “A Pyongyang il corpo del giustiziato è stato bruciato con un lanciafiamme di fronte a una folla dopo l’esecuzione. La famiglia dell’imputato è stata costretta ad assistere all’esecuzione e a sedersi in prima fila per osservare la scena. Il padre è svenuto dopo aver visto suo figlio bruciare davanti ai suoi occhi”. A Hyesan, un bambino è stato giustiziato con i Kalashnikov. A studenti e lavoratori è stato ordinato di assistere alle esecuzioni, come avvertimento.
Come nella Germania dell’Est, in Venezuela manca anche la carta igienica.
Hasta el socialismo siempre!
Giulio Meotti
L’ovvia domanda è: tutti questi intellettuali, politici e paccottiglia varia, questi uomini senza fallo (e anche senza gli annessi), semidei che dall’alto dei loro castelli inargentati guardano l’umano desolato gregge a cui dichiarano di sentirsi vicini e stringono calorosamente la mano al suo carnefice, sono ritardati o sono prostitute in totale malafede? Io propendo per una combinazione delle due cose.
barbara
Sì.
Esiste qualcosa più brutto di una cardiopatia?
Sì.
Esiste qualcosa più brutto del cancro?
Sì.
Esiste qualcosa più brutto della sclerosi?
Sì.
Esiste qualcosa più brutto di una mutilazione?
Sì. Sì. Sì.
barbara
che non erano mai stati al governo ma hanno sempre comandato tutto lo stesso (qualche commento mio in corsivo, qua e là).
Così l’Italia censurò il dissenso anticomunista
30 anni fa cadde l’Unione Sovietica. Fra diktat, silenzi e stroncature codarde, il mondo della cultura per anni impedì che al pubblico arrivassero le voci dei grandi testimoni
Il 25 dicembre 1991 cadde l’Unione Sovietica. Trent’anni che meriterebbero una ricostruzione speciale su come in Italia si fece terra bruciata attorno al dissenso antisovietico [diciamo pure che la sinistra è allergica al dissenso tout court]. Il clima era tale che Italo Calvino definiva George Orwell “libellista di second’ordine” e portatore di “uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo” [la mia prof di italiano e latino al liceo considerava Italo Calvino uno scrittore di second’ordine (“Ha fatto un unico libro valido: Il sentiero dei nidi di ragno”): vuoi vedere che aveva ragione?].
In Italia il grande drammaturgo Eugène Ionesco¹ fu a lungo interdetto. La Stampa del 6 febbraio 1975 si espresse chiaramente: “Ionesco vede nero; soltanto nero anche come colore politico: è diventato un reazionario. Il che sarebbe affar suo (si cade in braccio alle destre che si meritano) se anche la sua arte non si fosse fatta reazionaria”. Per veder tradotto in italiano il saggio del 1961 di Martin Esslin “Il teatro dell’assurdo” si è dovuto aspettare vent’anni. Un testo critico che era considerato non solo nel mondo anglosassone “un classico della saggistica contemporanea”, dice Giovanni Antonucci nell’introduzione alla terza edizione del libro uscita nel 1990, ma guardato con sospetto dall’editoria italiana: “La motivazione era esclusivamente ideologica: era un libro reazionario perché si occupava di autori reazionari”. Quando Ionesco nel 1973 accettò un invito del Cidas (Centro italiano documentazione e studi) intitolato “Intellettuali per la libertà”, su L’Avanti! uscì un articolo titolato “Stavolta Ionesco è da dimenticare”. Sulle colonne del Corriere della Sera Luigi Malerba deprecava “la traduzione italiana di un romanzo ‘reazionario’ di Ionesco edito da Rusconi”. Gabriella Bosco nel libro “Ionesco metafisico” spiega che “Einaudi lo traduceva come autore di teatro, ma manteneva il silenzio quanto a interpretazioni o giudizi di valore, prendendo implicitamente le distanze”. Bosco ricorda che “Paolo Grassi, direttore del Piccolo di Milano, ostracizzò Ionesco perché a suo parere era un autore reazionario”. Sarà un altro drammaturgo, Fernando Arrabal, a dire: “Personaggi come Giorgio Strehler hanno impedito per anni la messa in scena di grandi opere come quelle di Ionesco”. Un altro articolo su L’Avanti! lo accuserà di “passare dal precedente cinismo reazionario al fascismo dichiarato”. Su L’Espresso, Corrado Augias irriderà Ionesco anche fisicamente: “Viso gualcito, occhi vacui virati in giallo da un permanente sospetto di itterizia, manine tozze dalle dita corte, spatolate, pancino bombato, piedini divergenti. I cinquantanove anni di Ionesco tendono decisamente alla caricatura. C’è chi assicura che l’unico vero teatro ioneschiano ancora esistente è quello cui la famiglia Ionesco al completo dà vita in salotto o attorno al tavolo da pranzo” [Quindi non è rincoglionito perché è vecchio: è proprio coglione di suo]. Augias è sempre rimasto lo stesso.
Ci fu il caso di Nicola Chiaromonte, esule antifascista in Spagna per partecipare alla guerra civile con la squadriglia aerea di André Malraux, in Italia isolato e inviso per essere un rappresentante dell’anticomunismo di matrice liberal-democratica. Quando nel 1968 chiuse la sua rivista, Tempo Presente, Chiaromonte chiese a molti editori di aiutarlo a continuare la rivista, ma ebbe sempre risposte negative. Gli ultimi anni di vita di questo straordinario intellettuale anticonformista amico di Ignazio Silone trascorsero nell’umiliante sequenza di richieste di aiuto agli editori italiani: richieste che rimasero sempre inascoltate. La moglie Miriam dirà: “Gli fecero il vuoto intorno”.
Ci fu il caso della mancata pubblicazione da parte di Einaudi di una prefazione del grande scrittore polacco Gustaw Herling (due anni nei Gulag) ai Racconti della Kolyma di Varlam Shalamov (uscirà presso la piccola casa editrice L’Ancora). L’accostamento del Gulag e del Lager nazista come “gemelli”² suonò all’Einaudi come motivo sufficiente per rimandare la prefazione a Herling. “Laterza era comunista, come comunista era Einaudi, il quale pubblicava anche autori non comunisti, ma che voleva stampare quel bandito di Zdanov”³, dirà Herling senza mezzi termini. “La dittatura culturale, dittatura tout-court, c’è stata in Polonia”⁴ racconterà Herling. “Qui, come dire, ha prevalso piuttosto una tranquillizzante abitudine alla reticenza. Tempo Presente poteva uscire senza che nessuna censura poliziesca glielo impedisse. Bastava farle il vuoto attorno, non parlarne mai”. Herling ricordava che poco dopo il suo arrivo in Italia, nel 1956, un amico gli propose di scrivere un articolo sulla rivolta di Poznan per L’Espresso diretto da Arrigo Benedetti. “Non conoscevo ancora bene la lingua italiana ma accettai di buon grado e con l’aiuto di mia moglie spedii l’articolo il più presto possibile. Dopo qualche giorno ricevo un biglietto di Benedetti più o meno di questo tenore: ‘Posso comprendere i suoi sentimenti di esule ma le cose che lei scrive non sono obiettive e appaiono per di più scarsamente documentate’. Mi trovavo con Nicola Chiaromonte al bar Rosati. A un certo punto entra Carlo Levi, amico di Chiaromonte sin dall’esilio, e si mette a sproloquiare sulla rivoluzione ungherese. Per un po’ Chiaromonte rimane in silenzio, ma quando Levi chiede ad alta voce: ‘Chissà quanto avranno speso gli americani per organizzare la rivolta di Budapest’, d’improvviso vedo Nicola avventarsi su Levi e cacciarlo dal tavolo davvero in malo modo”.
Questa era l’Italia.
Ci fu la casa editrice Garzanti, che acquisì i diritti di Raccolto di dolore di Robert Conquest, il libro che rivelò al mondo il genocidio ucraino per fame, lo fece tradurre ma non lo pubblicò mai (il saggio-verità sul genocidio ucraino uscirà grazie alla piccola Liberal Edizioni).
Ci fu il caso di Alexander Solzenitsyn. Vittorio Foa, il leader dell’azionismo, confesserà: “Quando uscì la traduzione del libro di Solzenitsyn lo vidi in libreria, lo sfogliai e non lo comprai. Ricordo questo come un vero atto di viltà: c’era qualcosa che volevo tenere lontano”⁵ [Una vigliaccheria riconosciuta come tale, dopotutto, è già un pochino perdonabile: diciamo il famoso orbo in un mondo di ciechi]. In un articolo su La Stampa del 1990⁶, Enzo Bettiza, uno dei pochi che subito si misero a difesa dello scrittore, spiegò: “Ero stato nel 1962 il primo traduttore in assoluto dal russo di ‘Una giornata di Ivan Denisovic’. Ricordo il fatto perché storicamente e filologicamente comincia da lì, da quella mia traduzione, la sequela dei falsi equivoci, delle perfidie sottili, dei malintesi interessati che hanno da sempre intossicato e reso pessimo il rapporto tra il grande deicida e la cultura più teologizzante d’occidente, quella italiana”. Bettiza si mise a tradurlo per L’Espresso, quando ricevette una telefonata del direttore, Arrigo Benedetti: “Ma che robaccia è mai questo Solzenitsyn? Mi sembra un Pavese russo, un decadente che fa il rustico! Questo gergo artefatto, questo stile falsamente gretto, tutta questa letteraria saggezza e mestizia contadine!”. Dieci anni dopo i medesimi pregiudizi si faranno meno innocenti, si tingeranno di malizia ideologica e raggiungeranno secondo Bettiza “il livello di una censura canagliesca nei confronti dell’ex ufficiale dell’Armata Rossa che aveva osato proclamare che il comunismo è soltanto delitto e menzogna”. Bettiza parlò di una “vergognosa offensiva di una vasta parte della cultura italiana contro Solzenitsyn” e che “negli anni in cui il compromesso storico avanzava e le Brigate rosse uccidevano nel nome del comunismo” si articolerà su tre piani: estetico, ideologico-politico, editoriale.
“Sul piano estetico ricordo una violenta polemica, in difesa anche artistica dell’opera sul Gulag, che mi oppose sulle pagine dei giornali a Carlo Cassola il quale, con maggiore pretenziosità politica di Benedetti aveva sostenuto su per giù le sue stesse banalità: il fenomeno Solzenitsyn era secondo lui nullo sul piano dell’arte, un pasticcio senza capo né coda fra storiografia dubbia e cattiva letteratura. Solgenitsin non era uno scrittore, non era neanche un vero storico, era soltanto il precario cronista di una sua disgraziata disavventura personale nei Lager staliniani che gli aveva dato alla testa”. Insomma: un povero matto. In una intervista al Mondo del 1974 Cassola aveva detto che Solzenitsyn era “un retore declamatorio che non vale niente come scrittore. Con Solzenitsyn mi sono trovato di fronte a uno scrittore anonimo: un corrispondente di provincia scrive meglio”.
“In molte recensioni italiane si videro diverse firme illustri impacchettarlo e stroncarlo come anticomunista viscerale e come capofila di un potenziale neofascismo russo. Un famoso letterato arrivò addirittura a esclamare in pubblico: ‘Bisognerebbe fucilarlo!’”. Ricordava Franco Fortini: “Ricordo l’ostilità di cui era circondato, qui in Italia. Penso all’area operaista, a intellettuali come Asor Rosa [quello che ce l’ha a morte con la razza ebraica, vedi qui e l’ultima parte qui (ma se avete qualche minuto leggetelo tutto) e che un noto saltimbanco ebreo rinnegato venduto alla causa del terrorismo palestinese ha difeso all’epoca a spada tratta], Tronti, Negri, Cacciari [quello che oggi si mette in cattedra a dare lezioni di etica all’Italia intera], tutta gente che rideva a crepapelle sui libri di Solzenitsyn”.
Sul piano editoriale non ci si poteva aspettare altro che la conseguenza commerciale e pubblicitaria della quarantena: “I suoi libri, dopo che erano stati dileggiati esteticamente e confutati ideologicamente, vennero sistematicamente boicottati editorialmente. Nello stesso periodo in cui Feltrinelli offriva a modico prezzo ai terroristi in erba manuali per la confezione di granate casalinghe, altri grandi editori rifiutavano la pubblicazione dell’opera solgenitsiana o, se ne pubblicavano uno spezzone, lo facevano quasi vergognandosene”. Zero pubblicità e quasi una vergogna a esporlo nelle librerie. “Nessuno vuole recensire ‘Arcipelago’, nessuno si vuole occupare di Solzenitsyn”, si lamentava Domenico Porzio, allora capo ufficio stampa della Mondadori.
Così Arcipelago Gulag finisce per languire in scaffali secondari. Durissimo il giudizio di Vittorio Strada, grande esperto di cultura russa, poi responsabile dell’Istituto di cultura italiana a Mosca: “Solzenitsyn da noi è stato prima svuotato e poi censurato. La sua verità era scomoda per tutti: per i comunisti che lo consideravano un nemico, per i non comunisti laici e cattolici – che non sapevano dove collocarlo”. Non da meno Lucio Colletti: “Da noi le anime belle dell’intelligencija hanno campato attaccate alla giacca del potere, ruminando nelle greppie di quelle maleodoranti associazioni che sono le burocrazie di partito. Questi opportunisti vigliacchi si facevano un punto d’onore a non avere letto i libri di Solgenitsin, ecco l’infamia”. Giancarlo Vigorelli, per dieci anni segretario generale del Comitato degli scrittori europei, dirà che “in Italia quasi nessuna voce si è levata in suo favore. Lui scriveva che il comunismo è un delitto contro la coscienza, da noi i letterati – per esempio quelli legati a una casa editrice come Einaudi – lo liquidavano dicendo che era uno scrittore mediocre”. Irina Alberti: “Non solo fu frainteso, diffamato, ridicolizzato, vilipeso, ma fu ignorato”.
Alberto Moravia [uomo dall’aspetto così come dalla prosa di rara bruttezza] lo definisce su L’Espresso “nazionalista slavofilo della più bell’acqua”, mentre Eugenio Montale sul Corriere della Sera: “Potrà conservare la proprietà, o l’uso, di due appartamenti, potrà scrivere quello che gli pare e permettere che a sua insaputa (!) altri suoi libri si stampino all’estero; e potrà – suppongo – incassare il premio Nobel che nel frattempo gli è stato conferito, ma in nessun modo potrà fregiarsi del titolo di scrittore sovietico con le carte in regola”. Paese Sera: “Ancora prima dell’analisi storica, è la stessa ricostruzione dei fatti che è carente o addirittura assente del tutto. Come si può pretendere, a questo punto, che trovino spazio e uditorio, nel vuoto lasciato dalla storiografia, le documentazioni e le interpretazioni di parte fornite da Solzenitsyn”. Una delle poche recensioni positive fu quella sul Corriere della Sera di Pietro Citati, mentre Umberto Eco lo definì “Dostoevskij da strapazzo”. [ognuno misura gli altri sulla base del proprio metro, si sa]
Provate a cercare in italiano i libri di Vladimir Bukovskij, lo scrittore che i sovietici rinchiusero per dieci anni nei manicomi. Se sarete fortunati, troverete qualche rimanenza delle edizioni Spirali, inesistente casa editrice milanese. Nell’ottobre del 1990 Bukovskij venne a Roma, ospitato dai gruppi parlamentari, mentre in Europa (e in Italia) la sinistra si beava delle “riforme” di Michail Gorbaciov. Bukovskij disse: “Non credo alla riformabilità del socialismo in Urss. L’Occidente si illude. E fa come l’uomo di quella storiella che voleva volare e si buttò dal ventesimo piano di un grattacielo. Per qualche secondo conobbe la felicità perché stava volando. Peccato che subito dopo si sfracellò al suolo”⁷.
A questi giganti del dissenso e ai testimoni dell’orrore, i custodi dell’utopia non perdonarono mai di non aver voluto volare insieme a loro. Gustaw Herling ricordava sempre un aneddoto: “Alberto Moravia a Francoforte, anno 1960, lui presidente di turno del Pen Club, doveva aprire la riunione con un ordine del giorno preciso: sospendere la sezione di Budapest per protestare contro l’incarcerazione degli scrittori ungheresi. Lo incontro la sera prima e mi dice: ‘è capitata una cosa, l’altro giorno a Roma l’ambasciata sovietica mi ha comunicato che presto i miei romanzi potranno uscire in Urss. E poi a casa mi hanno mandato una grande scatola di caviale’. Il giorno dopo Moravia pronunciò un discorso molto diplomatico, molto cinico. Disse: ‘nessuna ingerenza sulle questioni interne ungheresi’”⁸. [Si chiama prostituzione. È un mestiere molto antico, e se ciò che viene venduto è un po’ di sesso è un mestiere onesto. Altrimenti no]
Questa era la “cultura italiana”. E non è cambiata. Conformista. Codarda. Censoria.
Giulio Meotti
1 Arrabal con Vargas Llosa «La sinistra come Franco», La Stampa, 26 agosto 1994
2 Herling Einaudi, La Stampa, 23 maggio 1999
3 La Repubblica, 26 febbraio 1993
4 Herling due volte solo fra i rossi, La Stampa, 24 marzo 1992
5 Foa, confesso che ho taciuto, La Stampa, 2 novembre 2003
6 Solzenitsyn, il profeta rifiutato, La Stampa, 26 settembre 1990
7 Bukovskij: perché non ho applaudito, La Stampa, 16 ottobre 1990
8 Solzenitsyn, il profeta rifiutato, La Stampa, 26 settembre 1990
“E non è cambiata”. Già: lo stiamo vedendo.
barbara