a vedere un po’ di cose che avrete qualche difficoltà a trovare sui mass media venduti, e ancora di più sui social isterici. Tappatevi le orecchie nei trenta secondi in cui Vauro straparla di Gaza (no, non c’entra niente, ma lui lo sapete com’è), ma guardate e ascoltate anche lui: ovviamente è filo russo ad oltranza in quanto comunista, però le cose che è andato a vedere e documentare prescindono da qualunque ideologia, e vanno viste, perché tutti noi abbiamo un buco di otto anni su quanto successo da quelle parti, e che è alla base di quanto sta succedendo adesso, ed è ora che cominciamo a riempire qualche lacuna.
Poi c’è anche quest’altra giornalista, da vedere e ascoltare in questo spezzone del 2015 (chi ha tempo e interesse può vedere il video lungo attuale qui – ne vale la pena – e magari leggere anche il suo libro, Donbass, la guerra fantasma nel cuore d’Europa).
Vi raccontano invece, i nostri ineffabili mass media, del devastante bombardamento del memoriale del massacro di Babij Jar con titoli urlati su tutti i giornali e drammatica denuncia del comico presidente fantoccio della NATO, ma era una balla. A essere colpita, come del resto mostrano inequivocabilmente le immagini, è stata la torre della televisione

(come quella ripetutamente colpita dalle forze buone della NATO in Serbia: e dato che in mezzo mondo è zittita la voce della Russia, non vedo perché la Russia non dovrebbe zittire quella del nemico). Vi raccontano anche che quel pazzo scatenato e pericoloso di Putin ha addirittura fatto bombardare una centrale nucleare, e questa non è solo una balla, ma è anche una colossale stronzata: la centrale è in mano ai russi, perché diavolo dovrebbero andarsela a bombardare? Ma chi è che può essere così ritardato da bersi una scemenza come questa? E propongo, in merito, una breve ma interessante riflessione:
Maja Mann
Il presunto bombardamento alla centrale nucleare di Zaporizhzhia era di nuovo infowar, non è la prima volta. Gli Ucraini sperano che ci spaventiamo abbastanza da far entrare la Nato nel conflitto. Adesso c’è nervosismo anche negli USA perché Putin non è caduto e hanno messo sul piatto le vite di 45 milioni di Ucraini per ottenere questo obiettivo. Chiamiamo Putin nei peggiori modi. Perfetto e corretto, anzi forse è pure peggio di come noi lo immaginiamo. Ma i c.d. buoni che usano 45 milioni di persone per far cadere Putin e mettono a repentaglio la sicurezza e la sopravvivenza di centinaia di milioni di Europei come dovremmo definirli? cominciamo a guardare le cose sul piano della razionalità anziché del tifo!
Tornano invece a tacere sul Matteotti ucraino

e sui sobri festeggiamenti (in stile palestinese, oserei dire) per l’uccisione di 9000 soldati russi:

certo, il sangue non è acqua, come si suol dire (ma li avranno contati uno per uno?).
E ora torniamo un momento indietro, per esaminare un altro dei passi che hanno reso inevitabile la guerra.
“Un’altra conferenza di Monaco che ci ha dato la guerra”
Così l’ex presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato: “Gli Americani volevano solo umiliare i Russi. Hanno ottenuto la guerra all’Ucraina, lasciata sola, e la fine dell’allargamento della Nato”
Joe Biden era così deciso a evitare la possibilità di un scontro militare tra Stati Uniti e Russia che ha ritirato dall’Ucraina le truppe americane che avevano addestrato il suo esercito. Ha poi avvertito che non avrebbe inviato truppe a evacuare gli americani bloccati in Ucraina. “È una guerra mondiale quando gli americani e la Russia iniziano a spararsi l’un l’altro”, ha spiegato Biden. “Non abbiamo intenzione di combattere la Russia”. Allora perché far precipitare l’Europa orientale nel caos? In queste ore il presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, ha ordinato alle forze armate dell’isola di rafforzare le difese. “Il risultato dell’Ucraina è davanti ai nostri occhi”, ha detto Chao Chien-min, ex viceministro di Taiwan. La Cina nelle stesse ore minacciava l’isola. Dopo il ritorno dei Talebani al potere e la guerra in Ucraina, sotto Joe Biden vedremo anche un Iran nuclearizzato e una Taiwan cinesizzata?
Pierre Lellouche è stato il presidente dell’Assemblea Parlamentare della Nato. Questo è il suo intervento pubblicato oggi su Le Figaro che ben descrive il fallimento occidentale.
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Nubi oscure della storia europea sono scese ancora una volta sul destino dell’Ucraina.
Il 29 settembre 1938, Adolf Hitler annunciò l’intenzione di “liberare” le popolazioni tedesche dei Sudeti dall'”oppressione cecoslovacca”. Pochi giorni dopo, quei territori, concessi 20 anni prima alla Cecoslovacchia dal Trattato di Saint-Germain-en-Laye, furono annessi al Reich, con il fatale consenso di Édouard Daladier e Neville Chamberlain, alla conferenza a Monaco.
Il 21 febbraio 2022, Vladimir Putin, dopo tre mesi di braccio di ferro con gli occidentali, ha deciso di porre fine alle “leggi discriminatorie contro i russofoni in Ucraina”. Le enclave separatiste del Donbass, controllate dal Cremlino dalla prima guerra del 2014, sono ora ufficialmente riconosciute come “Repubbliche Popolari” indipendenti, e la sera stessa l’esercito russo vi è entrato per una cosiddetta missione di “mantenere la pace”. In caso di reazione delle autorità di Kiev si troverà il pretesto per un’invasione dell’intera Ucraina.
Ironia della sorte, proprio alla vigilia del colpo di forza di Vladimir Putin, i capi della Nato con il vicepresidente degli Stati Uniti si erano incontrati a Monaco per proclamare solennemente la loro unità di fronte a una Russia accusata di invadere la giovane democrazia ucraina.
L’Ucraina, si affermava, conservava pienamente il suo diritto di aderire alla Nato. Ma, con una strana gesticolazione, gli americani, mentre isterizzavano l’imminenza della guerra, annunciavano in anticipo che non vi avrebbero preso parte – se non con possibili sanzioni economiche… Nonostante l’appassionata supplica del presidente ucraino Zelensky, presente a Monaco, e salutato con una standing ovation, la cruda verità è che al suo paese è stato chiesto dall’augusta udienza di combattere da solo e di prepararsi a morire per un principio, quello della “porta aperta”.
Un principio peraltro notoriamente impraticabile, visto il rischio della guerra e questo da molto tempo. Nel 2008, a Bucarest, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel si erano opposti, per questo motivo, all’adesione di Ucraina e Georgia alla Nato, che Barack Obama all’epoca spingeva. Ma il principio è rimasto.
Una via d’uscita diplomatica era possibile: unire una moratoria sui futuri allargamenti della Nato ai negoziati sugli armamenti convenzionali e nucleari in Europa. Ma Joe Biden e il suo Congresso uniti contro la Russia non volevano sentirne parlare.
Alla fine “Monaco II” avrà quindi prodotto il peggior risultato possibile. Ogni successivo allargamento della Nato è morto e sepolto. Nel 2014, durante la fase precedente di questa guerra durata otto anni, Barack Obama aveva reagito con disprezzo all’annessione della Crimea, definendo la Russia una “potenza regionale”. Vladimir Putin non ha mai digerito l’insulto [A parti invertite, Obama l’avrebbe digerito?].
Potevano scegliere tra trattare la Russia con disprezzo o coesistere pacificamente con essa, rispettando i suoi interessi di sicurezza. Ma non abbiamo voluto imparare le lezioni della storia: che non costruiamo la pace umiliando, né stabilendoci militarmente ai confini altrui, se rifiutiamo ogni confronto, e gli occidentali, e in primis gli americani, alla fine avranno consentito a Vladimir Putin di iniziare a realizzare il suo sogno più caro: ricostruire l’Impero.
Per favore, Sir Winston Churchill, torna!
Giulio Meotti
Ma dato che Churchill non c’è e la perfidissima Russia ha fatto scoppiare la guerra, che cosa si fa? Semplice: si castiga l’infame!
L’ipocrita mondo della cultura che vieta la Russia ma stende tappeti rossi a Iran e Turchia
Da Torino a Francoforte a Bologna si bandiscono libri e film russi (Andrej Tarkovskij oggi sarebbe persona non grata in Italia). Una demenza culturale che alimenta, anziché placare, la guerra
“Non ci sono più Russi ‘innocenti’ e ‘neutrali’”, ha scritto l’ex ambasciatore americano a Mosca, Michael McFaul, prima di cancellare il tweet. Qualcuno deve avergli detto che non era un gesto di grande distensione fra due potenze nucleari nel mezzo di una guerra in Europa.
Ma se le cose stanno come scrive McFaul, niente della cultura russa deve restare in piedi in Europa.
Il Festival del cinema di Glasgow ha cancellato la proiezione di due film russi. Russi, non “putiniani”, anche se ormai non fa differenza. Lo stesso ha fatto il Festival del cinema di Stoccolma. La Biennale di Venezia ha messo al bando i Russi, a meno che non siano oppositori politici. Nel mondo dei libri, Penguin Random House e Simon & Schuster (che hanno in mano praticamente tutta l’editoria mondiale) stanno interrompendo i rapporti con la Russia. La Fiera del Libro di Torino ha deciso di boicottare la Russia, nonostante nel 2020 abbia scelto l’Iran come paese ospite d’onore. Lo stesso ha fatto la Fiera del Libro di Francoforte, che ha messo al bando la Russia ma lascia che il Mein Kampf di Hitler campeggi allo stand ufficiale dell’Arabia Saudita. E poi la Fiera del libro per ragazzi di Bologna ha vietato la presenza dei Russi (l’Associazione Italiana Editori sostiene i boicottaggi delle fiere italiane).
Tutte le famose chiacchiere sulla “cultura che apre i confini”…Il presidente del Salone del Libro di Torino, Massimo Braj, ex ministro e poi direttore generale della Treccani, è volato a Teheran per incontrare il viceministro della Cultura iraniano Abbas Salehi, che ha detto che “la fatwa dell’imam Khomeini contro Salman Rushdie è un decreto religioso, non perderà mai il suo potere né si abrogherà mai”. Ma a nessuno a Torino, non al furbissimo scrittore Nicola Lagioia che oggi dirige la Fiera, è venuto in mente di interdire l’Iran. In un hangar a Teheran è stato scoperto un deposito di mezzo milione di libri. C’erano La fattoria degli animali di George Orwell, testi di George Bernard Shaw, l’Iliade di Omero e alcuni romanzi di Albert Camus. Questa specie di sepolcro della cultura era uno dei lasciti più terribili della rivoluzione islamica iraniana. Come scrive Censorship: A World Encyclopedia a cura di Derek Jones, il cui database è fermo al 2001, “la rivoluzione islamica dell’Iran ha comportato la distruzione di 5 milioni di libri”. Ma non c’erano motivi per non farne l’ospite d’onore a Torino…Fra i “libri dannosi”, l’ayatollah Khamenei ha inserito il Simposio di Platone, Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, le opere di James Joyce e Kurt Vonnegut, e tanti altri. Ed è impossibile tenere il conto degli scrittori iraniani che si sono suicidati. Come Siamak Pourzand, collaboratore della prestigiosa rivista francese Cahiers du Cinéma, decano del giornalismo iraniano, intellettuale dissidente, che si è buttato dalla finestra. Una volta fu costretto a confessare in tv. Quando un funzionario gli fece una domanda non concordata, Pourzand si rivolse al suo avvocato: “Questa non è nell’elenco, che devo dire?”.
Anche la Turchia è presente alla Fiera del Libro di Francoforte e Torino, nonostante il presidente turco Erdogan abbia definito il premio Nobel Orhan Pamuk “un terrorista”, nonostante abbia fatto arrestare “il dizionario vivente della lingua turca” Necmiye Alpay, nonostante abbia chiuso in carcere per quattro anni lo scrittore Ahmet Altan, nonostante la celebre romanziera turca Asli Erdogan fosse in carcere quando in Germania le hanno assegnato il “Premio per la pace” che porta il nome di Erich Maria Remarque, nonostante sia finito sotto processo il pianista di fama mondiale Fazil Say reo di aver postato poesie di Omar Khayyam e nonostante i procedimenti contro l’editore Irfan Sanci per aver tradotto Guillaume Apollinaire. Erdogan è uno dei principali persecutori al mondo della cultura. I numeri turchi fanno impressione: 29 case editrici chiuse, 135.000 libri banditi dalle biblioteche pubbliche, 300.000 libri eliminati dalle scuole e più di 5.800 accademici licenziati dai loro incarichi per dissenso. Il PEN International, un’associazione mondiale di scrittori, ha denunciato: “Nei quasi 100 anni di storia del PEN non abbiamo mai ha registrato così tanti scrittori in prigione in un paese alla volta come in Turchia…”.
Ah quanti nonostante si dovrebbero scrivere nel mondo della morale culturale…
E c’è a chi non basta. “Boicottaggio totale dei libri russi nel mondo!”, si intitola un appello lanciato dallo Ukrainian Book Institute, dal Lviv International Book Forum e da PEN Ucraina. Così la Federazione internazionale dei gatti ha bandito le esibizioni dei felini russi, anche loro “complici” della terribile guerra in Ucraina.
Organizzeremo roghi di classici russi? Perché non del Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, originario di Kiev? Perché non di Anime morte di Gogol, anche lui nato a Poltava, nell’attuale Ucraina?
“Per coloro che si oppongono all’attuale regime russo ci sarà sempre posto nelle mostre della Biennale”, ha detto il presidente della Biennale dell’arte di Venezia Roberto Cicutto. Dunque se non firmi una dichiarazione politica in cui prendi le distanze dal tuo paese, sei finito. Ma non tutti avranno la forza e il potere della soprano Anna Netrebko, che ha dato forfait alla Scala di Milano per il caso Gerviev: “Costringere a denunciare la terra d’origine non è giusto…”.
Se negli anni Ottanta ci fosse stato questo clima culturalmente suicida Andrej Tarkovskij, uno dei grandi maestri del cinema mondiale e il maggiore regista sovietico contemporaneo, morto nel 1986 Parigi, non avrebbe mai potuto girare alcuni suoi film in Italia. La rottura si era consumata con Nostalghia, il film realizzato in Italia (a Bagno Vignoni nella Val D’Orcia) che al Festival di Cannes del 1983 fu stroncato dal componente sovietico della giuria. Era famoso per il suo misticismo, Tarkovskij, per la sua profonda fede cristiana (“per me fare un film è come pregare in un altro luogo anziché in chiesa”), il suo amore per la poesia e il suo impegno. Fu durante una conferenza al Circolo della stampa di Milano di fronte a giornalisti e televisioni italiane e straniere, accompagnato dal violoncellista e direttore d’orchestra Mstlslav Rostropovich, che Tarkovskij chiese l’asilo in Occidente.
Chissà cosa penserebbe oggi quel grande regista e poeta di questo Occidente che non rispetta più niente.
Dopo l’insolubile dicotomia che opponeva pro e no vax, distruggendo amicizie, separando famiglie e designando ogni campo opposto campo come responsabile della fine del mondo, politica e media ci propongono una nuova linea Maginot culturale che esclude ogni sfumatura ed elimina ogni controversia… Diventa persino sospetto affermare che San Pietroburgo è una città straordinaria o apprezzare Alexander Solzenicyn.
La causa del Bene ha così pochi avversari che un giorno bisognerà pagare qualcuno perché incarni l’opinione contraria su tv e giornali. Non sto parlando dell’orrore naturale per la guerra in Ucraina e la sua condanna, di Rubens a Palazzo Pitti a Firenze dove Venere cerca di impedire a Marte, il dio della guerra, di entrare in battaglia. Sto parlando della guerra immaginaria che abbiamo dichiarato alle nostre società e che gode di una presunzione di evidenza (come tante altre cose, l’antirazzismo, la lotta all’“esclusione”, il rifiuto della “discriminazione”). In queste condizioni, metterlo in discussione, “problematizzarlo”, è una bestemmia. Un’oscenità. Fioccano le accuse di “putinismo” come un tempo di fascismo. Si bandiscono libri.
Ha ragione sul Telegraph la scrittrice, commentatrice e storica britannica Zoe Strimpel quando infilza questo ventre molle occidentale. Il woke per due anni ha normalizzato le accuse di “imperialismo”, “violenza” e “appropriazione culturale”. E la cultura occidentale che ha impiegato due anni a dare la caccia a scrittori e accademici che credono nel sesso biologico, come JK Rowling, o la filosofa Kathleen Stock, perché creavano uno spazio “pericoloso” per studenti e giovani, risponde mettendo al bando la cultura russa.
C’è stata una grande bugia per molto tempo sul fatto che la vita in Occidente fosse soltanto un gigantesco campo minato di “fobie” e che avremmo dovuto avvicinarci a noi stessi come a fiori delicati in un bisogno incessante di coccole “auto-calmanti”. Ora anche una guerra terribile a tremila chilometri di distanza è un segnale per uno svenimento culturale collettivo. E questa follia culturale ecciterà, anziché placare, la guerra.
Tempi difficili creano uomini forti. Uomini forti creano momenti buoni. Tempi buoni creano uomini deboli. Uomini deboli creano tempi difficili.
Giulio Meotti
Meotti ha dimenticato di dire – o forse non era ancora arrivata la notizia quando ha steso questo articolo – che il Comitato paralimpico internazionale ha bannato gli atleti disabili russi e bielorussi: bravi, così si fa!
A quelli che esultano perché “Putin sta perdendo la guerra” offro invece questa considerazione
E ora, visto che non li fanno più gareggiare, li ospito io
E questa la dedico a tutti i “pacifisti” del pianeta

barbara