Stalin non aveva tardato a cogliere, anche se non pubblicamente conclamati, gli intendimenti delle potenze occidentali manifestati con la resa di Monaco a Hitler: spingere cioè il dittatore tedesco a realizzare i propri sogni espansionistici verso Oriente, in chiave antisovietica. Il momento di scelte decisive si stava rapidamente avvicinando. Egli decise pertanto di convocare per il marzo del 1939 il congresso del partito, che non si riuniva più dal gennaio del 1934. Tutti i suoi oppositori, veri o presunti, erano stati nel frattempo fisicamente soppressi a ogni livello. Il paese ancora una volta dopo le sanguinose purghe si trovava in uno stato di profonda debilitazione, con le nuove leve dirigenziali fedeli allo stalinismo ma impari ai compiti cui erano chiamate, in particolare tra le forze armate, i cui vertici erano stati letteralmente massacrati.
Era tempo di porre fine alla carneficina. Come suo costume, Stalin parlando ai congressisti, scaricò le proprie responsabilità sugli apparati: «Non si può dire che le epurazioni siano state condotte senza gravi errori. Purtroppo sono stati commessi più errori di quanto si potesse prevedere». E dalla tribuna vennero elencati in gran copia episodi di palesi ingiustizie e illegalità. Il messaggio che il dittatore intendeva inviare era chiaro: l’epoca del terrore di massa doveva considerarsi conclusa. Lo richiedeva in particolare la preoccupante situazione internazionale, per far fronte alla quale era necessario riportare un minimo di tranquillità e di ordine negli sconquassati apparati del potere sovietico. Fu difatti alla politica estera che Stalin dedicò la parte preponderante del suo intervento. Un evidente messaggio rivolto a tutti gli interlocutori. Germania, Italia e Giappone vennero da lui definiti «paesi aggressori» contro i quali però le potenze occidentali non sapevano che indietreggiare «facendo una concessione dopo l’altra». La condanna dello spirito di Monaco non poteva essere più esplicita anche perché ne veniva svelato il disegno recondito: quello di portare allo scontro Germania e Unione Sovietica di modo che «si indeboliscano e si logorino reciprocamente, e poi, quando saranno ufficialmente spossate, farsi avanti con forze fresche… e dettare ai belligeranti indeboliti le proprie condizioni. Con eleganza e a buon mercato». Fin dal marzo del 1939, dunque, Stalin metteva in guardia l’Occidente democratico: l’Urss non si sarebbe prestata a togliere le castagne dal fuoco per conto terzi, e ad assistere impotente alla propria distruzione. La fulminea occupazione di Praga da parte delle truppe tedesche, proprio in quei giorni, denotava del resto l’assoluta libertà d’azione del nazismo, che non esitava a farsi beffe degli stessi pur vantaggiosi accordi di Monaco.
Il definitivo scacco costrinse finalmente i governi di Parigi e di Londra a prendere atto del fallimento della politica di «appeasement» verso Hitler. Si apri un periodo confuso nel quale le democrazie occidentali attivarono canali diplomatici con Mosca ma senza un disegno organico. Si chiese a Stalin se fosse disposto a garantire le frontiere di Polonia e Romania, presumibili nuovi obiettivi del Führer, ma quando egli rispose, il 17 aprile 1939, proponendo un patto a tre, Urss, Francia e Inghilterra, che garantisse l’intangibilità di tutti i paesi che dal Baltico al Mar Nero si interponevano tra Germania e Russia, non ricevette alcuna risposta. La pregiudiziale anticomunista continuava a fare velo, del resto identica a quella di Polonia, degli Stati baltici e della Romania, anch’essi convinti che il pericolo principale risiedesse nel bolscevismo.
Il messaggio che Stalin aveva inviato alla tribuna del congresso del suo partito non veniva dunque recepito. Non ci si rendeva conto che senza precise garanzie di alleanza e di reciprocità, l`Urss non poteva impegnarsi da sola contro la sempre più possente e temibile forza militare tedesca. È bene tener presente questo inoppugnabile dato di fatto per comprendere gli avvenimenti successivi, tanto più oggi quando uno sconsiderato revisionismo tende ad addossare a Stalin la responsabilità primaria nello scoppio della seconda guerra mondiale.
Il 28 aprile 1939, Hitler, in uno dei suoi consueti sfoghi oratori, lanciava al mondo una nuova sfida rivendicando pretese territoriali nei confronti della Polonia. Il discorso produsse ulteriore e profonda preoccupazione al Cremlino: l’apertura della vertenza polacca preludeva a un confronto che avrebbe avuto come posta in palio un paese confinante con l’Unione Sovietica. Se si fosse risolto come già accaduto in Cecoslovacchia, il risultato sarebbe stato quello di vedere le armate naziste proiettate verso Leningrado, Mosca e Kiev. Stalin ritenne giunto il momento di avere le «mani libere»: insistere con gli occidentali per un’alleanza che continuava a non tradursi in realtà lo esponeva a un grave pericolo, quello di uno scontro diretto con Hitler, senza poter fruire di alcun appoggio internazionale. Il 3 maggio il Cremlino lanciava un segnale inequivocabile: il ministro degli Esteri Litvinov, fautore da anni di un’intesa, purtroppo mai realizzata, con le democrazie occidentali, veniva sostituito da Molotov, uno dei fedelissimi del dittatore, a riprova che le redini della politica estera erano tornate nelle mani di Stalin. La cecità di Londra e di Parigi permaneva intatta: quei governi si affannavano difatti a concedere patti di mutuo appoggio a singoli Stati, come Polonia e Romania, senza comprendere che in mancanza del sostegno militare sovietico sarebbero rimasti pezzi di carta, data la lontananza dall’apparato bellico di Francia e Inghilterra.
Nel mese di luglio mentre Hitler accentuava la pressione su Varsavia per ottenere il corridoio di Danzica, così da consentirgli la contiguità territoriale con la Prussia orientale, e i rumori di guerra si facevano sempre più concreti, Stalin, ancora esitante sulla linea da scegliere, avviò contemporanei contatti con la Germania e con le potenze occidentali. Con la prima accettando di intavolare trattative commerciali «senza condizioni «politiche» – e con le altre dichiarandosi disposto ad accogliere a Mosca una missione militare per un serio negoziato. Giorni febbrili in cui si giocavano i destini del mondo. Il Führer si era spinto troppo avanti nella questione polacca, indietro non poteva più tornare. Pur di vincere era disposto a tutto. L’11 agosto a un gruppo di collaboratori illustrerà senza infingimenti e con lucido cinismo le proprie intenzioni: «Tutti i miei sforzi sono diretti contro la Russia: se l’Occidente è tanto stupido e cieco da non capirlo, sarò costretto a mettermi d’accordo con i russi, colpire l’Occidente e poi, dopo la sua sconfitta, rivolgermi con tutte le mie forze contro l’Unione Sovietica. lo ho bisogno dell’Ucraina, così che non ci si potrà affamare nuovamente come durante l’ultima guerra».
A vincere le ultime esitazioni del Cremlino concorsero due fatti: l’aperto rifiuto opposto da numerosi e influenti circoli occidentali di «morire per Danzica», che confermava la pochissima voglia di battersi in difesa della Polonia, e l’irridente comportamento dei governi di Londra e Parigi a proposito della loro missione militare in procinto di partire per Mosca. Composta da personalità pressoché sconosciute e prive di qualsiasi vincolante mandato negoziale, essa decise di avviarsi servendosi di una nave, un viaggio che sarebbe durato ben 11 giorni col risultato di giungere nella capitale sovietica il 12 agosto, a giochi ormai quasi fatti. Hitler – secondo il suo nuovo progetto – premeva sui vertici del Cremlino affinché accettassero la proposta di un’alleanza che tenesse conto degli interessi sovietici nel caso di un’invasione tedesca della Polonia.
La guerra voluta dai nazisti bussava alle porte: non era più il tempo delle sofisticate manovre diplomatiche. Di fronte a un nuovo perentorio invito del Führer, quasi un ultimatum Stalin accondiscendeva a ricevere a Mosca il ministro degli Esteri nazista, Ribbentrop, latore di un piano segreto che prevedeva la spartizione della Polonia: due terzi alla Germania, un terzo all’Unione Sovietica. Il dittatore georgiano lo accettò, convinto di avere dalla sua quattro buone ragioni: 1°) un accordo con Hitler avrebbe impedito uno scontro diretto con la Germania, impossibile da sostenere a causa dell’impreparazione militare dell’Armata rossa; 2°) l’annessione della Polonia orientale consentiva di tenere l’esercito tedesco a distanza di sicurezza dai centri nevralgici del paese; 3°) il disegno delle potenze occidentali di servirsi di Hitler in chiave antibolscevica veniva temporaneamente stroncato; 4°) Se la guerra fosse scoppiata tra Germania e anglo-francesi, l’Unione Sovietica ne sarebbe rimasta fuori, in posizione d’attesa e pronta a sfruttarne le potenzialità «rivoluzionarie».
Gianni Rocca, Caro revisionista ti scrivo, Editori Riuniti (1998), pagg. 76-79
In una fonte che al momento non trovo ho letto di un’ammissione di Churchill di avere ricevuto da Stalin diverse “oneste proposte” e di averle regolarmente respinte. A questo punto, per salvare l’Unione Sovietica, non era rimasta altra carta da giocare che l’osceno patto col diavolo e lo smembramento della Polonia.
Morale della favola: se metti la Russia con le spalle al muro, poi sono cazzi acidi. E te li devi digerire tu.
83 anni più tardi… Lo leggerete domani.
(Nel frattempo aggiungo una piccola nota a margine: i veri profughi di guerra, come sempre, passano la frontiera e lì si fermano in attesa di poter rientrare il più presto possibile, non appena le acque si saranno calmate. Chi si sposta di 3000 chilometri tutto potrà essere, ma profugo di guerra proprio no)
Sempre nel frattempo, visto che il post è relativamente corto, facciamo anche un salto a casa nostra.
Come è accaduto con Trieste al tempo della pandemia, è dal mondo del lavoro, quello vero, che arrivano sempre le risposte più incisive e concrete.
Massimo sostegno ai lavoratori di Pisa, veri costruttori di pace.
Non si spengono gli incendi con la benzina.
Dall’aeroporto di Pisa armi all’Ucraina mascherate da “aiuti umanitari”: i lavoratori rifiutano di caricare gli aerei. Sabato 19 manifestazione USB al Galilei
Alcuni lavoratori dell’aeroporto civile Galileo Galilei di Pisa ci hanno informato di un fatto gravissimo: dal Cargo Village sito presso l’Aeroporto civile partono voli “umanitari”, che dovrebbero essere riempiti di vettovaglie, viveri, medicinali e quant’altro utile per le popolazioni ucraine tormentate da settimane da bombardamenti e combattimenti. Ma non è così!
Quando si sono presentati sotto l’aereo, i lavoratori addetti al carico si sono trovati di fronte casse piene di armi di vario tipo, munizioni ed esplosivi.
Una amara e terribile sorpresa, che conferma il clima di guerra nel quale ci sta trascinando il governo Draghi.
Di fronte a questo fatto gravissimo, i lavoratori si sono rifiutati di caricare il cargo: questi aerei atterrano prima nelle basi USA/NATO in Polonia, poi i carichi sono inviati in Ucraina, dove infine sono bombardati dall’esercito russo, determinando la morte di altri lavoratori, impiegati nelle basi interessate agli attacchi.
Denunciamo con forza questa vera e propria falsificazione, che usa cinicamente la copertura “umanitaria” per continuare ad alimentare la guerra in Ucraina
Chiediamo:
1) alle strutture di controllo del traffico aereo dell’aeroporto civile di bloccare immediatamente questi voli di morte mascherati da aiuti “umanitari”;
2) ai lavoratori di continuare a rifiutarsi di caricare armi ed esplosivi che vanno ad alimentare una spirale di guerra, che potremo fermare solo con un immediato cessate il fuoco e il rilancio di dialoghi di pace;
3) alla cittadinanza di partecipare alla manifestazione di sabato 19 marzo di fronte all’aeroporto Galilei (ore 15) sulla parola d’ordine “Dalla Toscana ponti di pace, non voli di guerra!”.
Unione Sindacale di Base – Federazione di Pisa.
E come se non bastasse
E quando ci ritroveremo sopra la testa i caccia russi a bombardare – legittimamente – le nostre città, sappiamo ESATTAMENTE chi dovremo ringraziare.
E per concludere, il russo stavolta ve lo metto anche in divisa
barbara
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