E per cominciare uso quelle di Giulio Meotti. L’aborto come “concetto”.
“Abbiate il coraggio di soffrire il disprezzo dell’opinione dominante”
L’America che abbatte il totem dell’aborto è la vittoria postuma di Antonin Scalia, il super giurista rispettato anche dagli avversari che diceva: “I giudici che elargiscono diritti sono pericolosi”
Se c’è una cosa che Antonin Scalia detestava sono i magistrati militanti, i magistrati che vogliono cambiare il mondo, i magistrati attivisti giudiziari, i magistrati che fanno le leggi anziché servirle. Non a caso, in piena Tangentopoli definì il sistema giudiziario italiano “una ricetta per l’ingiustizia”. Secondo Scalia, il fatto che in Italia il pubblico ministero risponda del suo operato all’ordine dei magistrati e non al governo o agli elettori, come avviene negli Stati Uniti, è in contrasto con il principio democratico della separazione dei poteri. “Un magistrato non deve diventare una celebrità” diceva. “Una volta sola, all’aeroporto, il mio nome ha attirato l’attenzione di un impiegato: mi aveva scambiato per l’attore Jack Scalia”. O per dirla con Frank Easterbrook, docente alla University of Chicago Law School, “Scalia è uno dei pochi che è voluto diventare giudice per diminuire il potere dei giudici”.
Una volta un collega della Corte gli chiese di condividere l’opinione che aveva scritto. Scalia gliela rimandò indietro con un appunto: “Lo faccio se la modifichi in questi diciannove punti”. Durante una conferenza, mentre i suoi colleghi magistrati dovevano decidere se vi fosse un “diritto di morire”, Scalia, facendo il verso a un annunciatore tv, disse al pubblico: “Restate sintonizzati! Una corte magnanima darà alle persone anche questo nuovo diritto”.
“Io dissento” era diventato il motto di questo super magistrato. Quando dissentí sul matrimonio gay disse: “La Corte suprema degli Stati Uniti è retrocessa dal ragionamento legale accorto di John Marshall e Joseph Story agli aforismi mistici dei dolcetti della fortuna”. E ancora: “Abbiamo trasformato una istituzione sociale che è stata la base della società umana nei millenni per i Boscimani dell’Africa meridionale come per gli Han della Cina, per i Cartaginesi e gli Aztechi. Mi domando: ma chi ci crediamo di essere?”.
Scalia, scomparso sei anni fa, ha appena visto la sua vittoria postuma piú grande: l’abbattimento da parte della Corte Suprema del diritto federale all’aborto, la sentenza Roe del 1972. L’aborto, da diritto costituzionale alla privacy, torna di competenza dei singoli stati, come Scalia voleva che fosse.
Scalia era infatti il pioniere del “testualismo”: ovvero anziché interpretare la legge, i giudici devono andare direttamente alla fonte, al linguaggio della Costituzione del 1791 che Scalia aveva definito inamovibile come “una statua”. La Costituzione non è viva, il suo significato è fissato nel momento in cui è stata scritta. O, per usare le sue parole, la Costituzione “è morta, morta, morta”. Una corrente giuridica, diceva Scalia, “così piccola che se prendi un cannone e spari contro qualsiasi scuola di legge importante non colpiresti un ‘testualista’”. Oggi quattro magistrati della Corte Suprema (Clarence Thomas, Neil Gorsuch, Samuel Alito e Amy Barrett) sono allievi di Scalia.
Scalia disprezzava il pensiero utopico. “La Costituzione non è una bottiglia vuota in cui versiamo qualsiasi valore”, diceva. “Perché si vuole lasciare questioni sociali enormemente importanti nelle mani di nove avvocati senza vincoli, non riesco a capirlo”. Secondo il giurista Joshua Hawley, “dal 1980 Scalia è stato l’unico giudice che ha costantemente invocato testo e significato originario per decidere di questioni costituzionali. Tre decenni più tardi, la sua analisi è un pilastro dei pareri del tribunale, tra i conservatori come fra i liberal. Lo stesso vale nell’accademia. Le idee di giustizia di Scalia hanno penetrato anche il dibattito popolare”.
Qualche anno fa il New Yorker gli aveva dedicato un ritratto monstre dal titolo “Fiducia suprema”. Scalia era nato nel 1936 a Trenton, nel New Jersey, allevato in una famiglia cattolica, patriottica e intellettuale. Il padre, Eugene, emigrato dalla Sicilia da adolescente, era un traduttore letterario e professore di Lingue romanze al Brooklyn College, nonché un esperto di Dante. La madre, Catherine Panaro, figlia di immigrati italiani, faceva l’insegnante di scuola elementare. Antonin era il loro unico figlio (lui, invece, ne avrà addirittura nove). Il professor Scalia era un accanito sostenitore del perfetto uso della grammatica e avrebbe sempre ricordato al figlio di “usare il congiuntivo” nell’atto di scrivere le sue opinioni per la Corte suprema. “Abbiate il coraggio di soffrire il disprezzo del mondo sofisticato”, disse Scalia a un’aula gremita di studenti. “Non rincorrete l’opinione pubblica dominante”. Lui non lo fece mai e ormai le sue furon sempre opinioni di minoranza che fecero giurisprudenza. In un articolo sul Yale Law Journal del 1990, “Il catechismo costituzionale di Antonin Scalia”, il giurista George Kannar ha scritto che l’educazione cattolica di Scalia e la sua esposizione alle passioni esegetiche del padre hanno profondamente influenzato il suo approccio alla giurisprudenza.
Scalia aveva frequentato la Xavier High School di Manhattan, un’accademia militare gesuita sulla 16esima strada (dove il futuro giudice era solito esercitarsi con una carabina calibro 22). Si era laureato nel 1957, primo della classe con una dissertazione sulla verità: “I nostri giorni sono stati spesi nella caccia; ma la nostra preda era più sfuggente e più preziosa di qualsiasi orso di montagna. Eravamo cercatori della verità. La verità non ha ossa, non ha carne, nessuna forma solida. Per coloro che la cercano, è ovunque; per coloro che non la amano, non è da nessuna parte”. Scalia sarebbe diventato l’unico giurista conservatore dei venticinque studenti del suo anno. Ma un giudice anche capace di sorprendere i democratici, come quando stabilì che “bruciare la bandiera americana può essere libertà d’espressione”. Nel 1974 Nixon lo nominò all’ufficio di Legal Counsel del dipartimento di Giustizia (e da allora ha continuato a spostarsi tra il governo e l’accademia, all’Università di Chicago, a Stanford, a Georgetown). Fu durante quell’incarico, nel 1982, che definì il Freedom of Information Act, vacca sacra dei liberal, come “il Taj Mahal della dottrina delle conseguenze impreviste”. Ronald Reagan in quel periodo cercava dei giudici “che non fossero troppo buoni con i criminali e troppo duri per gli affari”. Scalia faceva al caso suo.
Il giudice aveva una scrittura inconfondibile, condita di analogie (i cosacchi, Nietzsche), riferimenti storici (Pace di Westfalia) e attacchi al vetriolo al parere di maggioranza (“ridicolo”, “assurdo”, “terribile”). Le “buone società – scriveva il giudice – non vengono costruite da buone leggi, ma dall’effetto di una persona buona su un’altra”. In un saggio del 1987 aveva indicato gli esempi di “buona società”: l’Atene di Pericle, la Roma di Cicerone, la Firenze di Dante, l’Inghilterra di Elisabetta I e l’America di George Washington.
Scalia andava a messa nella chiesa Santa Caterina da Siena a Great Falls, in Virginia, una delle ultime chiese cattoliche della zona di Washington dove si celebra una messa in latino. Un figlio, Paul, è sacerdote ad Arlington.
Scalia era a favore della commistione di governo e religione. Le istituzioni americane – aveva spiegato – “presuppongono l’esistenza di un Essere supremo”. Secondo Scalia, non c’è una costituzione che preveda il diritto ad abortire, semmai ce ne sono molte che tutelano il diritto contrario: il diritto alla vita. Da qui tutti i suoi pareri di minoranza nei casi in cui la Corte suprema aveva rinnovato la validità della sentenza Roe vs. Wade. “Abbiamo leggi contro la bigamia, l’incesto e la prostituzione”, disse una volta a un pubblico liberal: “Se siete in grado di persuadere i cittadini del contrario, abolite tutte le leggi sessuali. Ma non venite a dirmi che sono state loro imposte. Non è questione se mi piaccia o meno, ma chi decide. Il popolo! E’ questo il motivo per cui aborto e sodomia sono stati proibiti per duecento anni e non si trovano nel Bill of Rights”. Non esattamente un paladino dell’Lgbt.
Era contrario a contaminare la legge americana con il diritto internazionale. “I giudici in molte parti del mondo sono arrivati a credere che hanno il mandato di decidere le più grandi questioni morali. Se ci credi ovviamente citi la Corte di Strasburgo perché quei giudici indossano toghe tanto quanto voi”, aveva argomentato con i colleghi. “Ma i giudici non sono gli arbitri morali del mondo”. Quest’antimoralista di rango una volta disse a un pubblico di studenti di legge che pendevano dalle labbra dei nove giudici togati: “Chi pensa che i giudici riflettano le idee del popolo ha bisogno di farsi visitare”.
E l’aborto come pratica.
63 milioni di aborti in America e il modello dei “paradisi comunisti”
I dieci paesi dove si abortisce di più al mondo tutti ex comunisti, ma in Occidente non va meglio. È un problema culturale, non legale. Se la vita non è neanche un po’ sacra, allora non è niente
Historia magistra vitae verrebbe da ricordare…
I primi dieci paesi con i più alti tassi di aborto secondo le Nazioni Unite sono Russia, Vietnam, Kazakistan, Estonia, Bielorussia, Romania, Ucraina, Lettonia, Cuba e Cina. Cosa hanno in comune tutti questi paesi? Sono o sono state dittature comuniste.
In Unione Sovietica, il primo stato al mondo a legalizzare l’aborto nel 1920, si arriverà a una distopia tale che nel 1991 al crollo dell’Urss c’erano 201 aborti ogni 100 nati. Due gravidanze su tre venivano abortite. Una fonte autorevole della fine degli anni 60, il professor H. Kent Geiger, nel suo lavoro sulla Harvard University Press, riferì: “Si possono trovare donne sovietiche che hanno avuto venti aborti”. Negli anni ‘70, quando in America si scelse la stessa strada, l’Unione Sovietica registrava in media 7-8 milioni di aborti all’anno, annientando intere generazioni future.
Il numero di bambine in Cina cui il regime maoista ha impedito di nascere quando era in vigore la “politica del figlio unico” si aggira attorno ai 30 milioni e il numero di aborti realizzati finora è di 336 milioni. “E’ il più grande crimine contro l’umanità attualmente in atto, lo sventramento segreto e inumano di madri e figli”. Con queste parole la dissidente Chai Ling, leader del movimento di Tiananmen (dove era celebre per i discorsi al megafono, in cui incoraggiava gli studenti a continuare lo sciopero della fame), ha denunciato gli aborti in Cina.
Nella Romania di Ceausescu l’aborto era arrivato a livelli tali che il dittatore comunista si vide costretto di metterlo al bando. E quando cadde il comunismo, nel 1991, l’aborto venne nuovamente depenalizzato e si arriverà a tre aborti ogni nascita, più che in Unione Sovietica.
Come scrive il Wall Street Journal, dal 1980 a oggi un terzo di tutte le gravidanze a Cuba sono finite in un aborto. Nel paese della Revolución castrista le interruzioni di gravidanza sono quattro volte di più di quelle negli Stati Uniti.
Perché in Occidente alle donne, alle famiglie e ai bambini non si è offerto un modello sociale, economico, educativo e morale migliore? Possibile che in Inghilterra ci sia ancora un aborto ogni tre minuti, 10 milioni di aborti in poco più di cinquant’anni? Nell’illuminata Inghilterra si è arrivati a incenerire 15.000 bambini dopo gli aborti per riscaldarci gli ospedali. Il saggista inglese Douglas Murray, che è ateo, sullo Spectator ha posto così la questione: “Qual è stata la vostra reazione alla notizia che migliaia di feti erano stati immessi negli inceneritori di ‘termovalorizzazione’ e utilizzati per riscaldare gli ospedali? Repulsione, immagino. Ma perché? Oserei che sia perché siete religiosi o perché le vostre convinzioni sono ancora a valle della fede, anche se la rifiuti. Perché se si ammette che un feto non ancora nato non è una vita e che una volta abortito non potrebbe più avere utilità, c’è almeno un argomento sul fatto che questi corpi potrebbero essere utilizzati. Perché non usare i bambini indesiderati per mantenere un ospedale al caldo? Come ha scritto Jonathan Sacks quando era rabbino capo, l’etica è evidentemente non evidente. Varia enormemente da un’era all’altra e l’etica giudaico-cristiane potrebbe benissimo, come T.S. Eliot ha detto, ‘sopravvivere a malapena alla Fede a cui deve il suo significato’. Il concetto di santità della vita umana è una nozione giudaico-cristiana che potrebbe facilmente non sopravvivere alla civiltà giudaico-cristiana”.
Durante il dibattito parlamentare sull’introduzione dell’aborto in Francia nel 1975, Michel Debré, che fu il primo ministro di De Gaulle, disse: “Si produrranno più bare che culle”. Lo disse con intransigenza gollista, ma vide giusto. Oggi in Francia un quarto delle nascite finisce in un aborto. Un francese su quattro. A fronte di 800.000 nascite ogni anno ci sono 220.000 interruzioni di gravidanza. 8 milioni di aborti dal 1975 (in Italia sono 6 milioni dal 1978). Fu una discussione concitata quella che accolse l’approvazione della legge Veil. “Il bambino, questo capolavoro in pericolo, merita ben altro che la morte”, esclamò uno degli oratori, e non poteva essere che vandeano.
La Spagna è oggi “il paradiso degli aborti”. L’interruzione di gravidanza è la prima causa di morte nel paese. Nel 1998 gli aborti erano 54.000. Oggi sono 100.000 all’anno. Così Madrid è diventato il terzo paese europeo per numero di aborti, dopo Francia e Inghilterra, ma il primo in relazione al numero di abitanti. Un paese in cui “una lince è più protetta di una vita umana”, come recitava un vecchio manifesto pro life.
Nessuno ha soluzioni ideali al vecchio dilemma abortista (per me dovrebbe essere illegale salvo pericolo di vita per la madre e depenalizzato). Ma so per certo che l’aborto è il simbolo di una spaventosa perdita di fiducia nel futuro e che quando raggiunge livelli simili a Stati Uniti, Francia, Spagna, Inghilterra e altrove in Occidente, significa che una civiltà sta morendo. L’America aveva imposto costituzionalmente l’assolutismo dell’aborto per un terzo di secolo dalla sentenza Roe (63 milioni di aborti da allora), ma era sempre stata più lontana che mai da una sua accettazione sociale (adesso la decisione tornerà ai singoli stati e ai rispettivi parlamenti) e a sinistra della vecchia posizione di Bill Clinton sull’aborto “sicuro, legale e raro” non resta niente. La società occidentale sul tema è a dir poco polarizzata. Ci sono quelli di noi che si oppongono all’aborto – io fra di loro in nome del giudeo-cristianesimo per cui se la vita non è sacra non è niente, del giuramento di Ippocrate e del fatto che da padre ogni volta che tengo in braccio un neonato mi commuovo – e quelli che sono addirittura favorevoli a uccidere bambini “parzialmente partoriti” (partial birth abortion) sani e a termine. Ma nel mezzo c’è anche una grande fascia di persone la cui posizione è più sfumata e il problema per gli assolutisti dell’aborto è che, grazie ai progressi della scienza medica e al fatto che l’aborto resta un problema morale molto più di altri temi divisivi come le nozze gay, tutte le sfumature si stanno muovendo nella direzione pro-vita.
So anche che il problema vero è morale e culturale, prima che legale come si discute in America, e che l’Occidente dovrebbe fare un esame di coscienza se non ha saputo produrre un modello superiore a quello che per un secolo ha dominato e distrutto le società governate dai regimi comunisti. Un anno dopo la sentenza Roe vs. Wade, il padre della fantascienza contemporanea Philip Dick pubblicò un racconto, Le pre-persone, immaginò una società in cui i genitori ottengono una deroga alla legge sull’aborto: si potranno eliminare i bambini fino ai 12 anni, prima dei quali non sono “persone”. Lascio le conclusioni a Philip Dick, ricordando che queste parole risalgono a quasi quarant’anni fa: “Guardate a cosa si è arrivati. Se un bambino non ancora nato può essere ucciso senza processo, perché non fare lo stesso con un bambino già nato?”. Per questo in America lo chiamano “aborto a nascita parziale” [qui un vecchio articolo di Meotti sul tema]: perché legalmente il bambino deve rimanere con la testa all’interno del corpo della madre, o sarebbe omicidio. Ma moralmente? Temo che l’Occidente non sappia più rispondere a questa domanda.
Proseguo con quelle di un commentatore di questo articolo.
Caro Giulio, sì l’aborto dovrebbe essere illegale e depenalizzato. Anche io sono padre e ho imparato che la vita è sacra da mia madre, una donna senza troppa istruzione, che mi ha insegnato molto con la sua vita più che con le parole. Ha lottato con un marito mussulmano (mio padre) e ha impedito con tutte le sue forze che io e mio fratello maggiore venissimo portati al suo paese per ricevere un’educazione islamica. Grazie a lei abbiamo potuto frequentare scuole ed amici tedeschi. Poi con mia madre siamo scappati da lui e siamo venuti in Italia, paese di mia madre. Qui ha conosciuto un uomo italiano, si è innamorata e finalmente si è sentita amata. Poi è rimasta incinta (due gemelli) e lui non ne voleva sapere, diceva “o me o loro.” Mia madre ha scelto i suoi bambini, nonostante parenti e amiche le dicevano di abortire. Io avevo 14 anni e mia zia mi disse: “vai da tua madre e dille che deve abortire. Non ha più un lavoro (il ristorante dove lavorava in nero l’aveva licenziata) e tu devi continuare a studiare.” Andai da lei, ma non riuscii a dirle niente. Lei capì, mi abbracciò e mi disse: “ce la faremo!” Trovai un lavoro 10 ore al giorno a lavare macchinari per il marmo). Mia madre mi disse: “basta, fai le scuole superiori, ci penso io a lavorare.” Nacquero i miei fratellini, incontrammo il Movimento per la Vita che ci diede una mano e io a scuola incontrai quelli di CL. È stato tutto un susseguirsi di incontri e miracoli. Davvero non posso pensare a come avremmo vissuto fino ad oggi, con quale dolore, se mia madre avesse dato retta alla mentalità che non accetta più la parola sacrificio.
E concludo con le mie. Voi lo sapete come si svolge un aborto? Nelle primissime settimane, quando è un grumetto di cellule, viene aspirato; in quelle successive, quando il corpo ha cominciato a prendere forma e sono presenti le ossa, il bambino deve essere fatto a pezzi, letteralmente: si taglia una gamba e si tira fuori, si taglia l’altra gamba e si tira fuori, poi le braccia, la schiena, e infine si frantuma il cranio e si tira fuori anche quello. Naturalmente la povera mamma è anestetizzata. Naturalmente il bambino no.



Diritto. Mi raccomando, chiamiamolo diritto. Rivendichiamolo come diritto, perché l’utero è mio e me lo gestisco io. E ora, se non siete troppo delicati di stomaco, guardatevi questo filmato
barbara