DISTANZIAMENTO SOCIALE

È stato col covid che abbiamo sentito inaugurare questa orrida espressione. Che a me, poi, “distanziamento sociale” fa pensare cose tipo “non dare confidenza alle classi inferiori”, cosa per me impossibile dato che provengo dal sottoproletariato urbano, cioè proprio l’ultima, per cui di inferiori da tenere a distanza non ne ho. Comunque. Qualcuno a un certo momento ha stabilito che la distanza di sicurezza per non infettare e non infettarsi è di un metro, ma anche uno e mezzo, ma anche due, dipende, e ha deciso che quella (quelle) era (erano) le distanze a cui stare dalle altre persone (perché è la distanza a cui arrivano le goccioline quando si starnutisce, ci è stato spiegato. Ma voi avete mai visto persone starnutire dritto in faccia alla gente? Mah). E poi improvvisamente questa cosa che doveva essere una (presunta) distanza di sicurezza è stata ribattezzata distanziamento sociale, e non so voi, ma io ho sentito immediatamente puzza di manipolazione. Perché “sociale” ha a che fare con la società, con le persone, con i rapporti umani, non con le malattie, non con i contagi, non con la salute. E infatti la vita sociale l’hanno letteralmente annientata. A partire dalla nascita: una ragazza mi ha raccontato che aveva smesso di portare la bambina al nido: “Le educatrici senza faccia, gli altri bambini non li può abbracciare, non li può toccare, loro non possono toccare lei, non può toccare i loro giocattoli e loro non possono toccare i suoi, cioè ognuno sta nel proprio angolo a giocare da solo: che razza di socialità può sviluppare? Che razza di visione può avere dei rapporti con gli altri?” E fino alla morte: vedi le RSA, vedi i vecchi a cui non è stato mai più permesso di abbracciare, o anche solo di vedere figli e nipoti. Per il loro bene, dice. Ma qualcuno si è preoccupato di chiederlo a loro, che cosa desiderano per sé? E mi piace riportare questa testimonianza trovata su FB:

Di solito non condivido esperienze lavorative personali ma quella di oggi mi ha emozionato e mi andava di raccontarla:
Giornata di vaccinazione particolare oggi. Tra i tanti anziani perplessi e alcuni arrabbiati perché avrebbero ricevuto la prima dose Astra zeneca, mi ha emozionato un amorevole nonnino, uno di quelli ruspanti, col viso bruciato dal sole dei campi, di quelli che ancora provano un timore reverenziale nei confronti di medici, preti e autorità. Il simpatico nonnino completate le pratiche burocratiche presso la mia postazione, prima di allontanarsi per  ricevere la sua seconda dose, non senza imbarazzo, mi si è avvicinato e mi ha chiesto: “Ma adesso sono a posto”? E io,”sì ha finito è a posto può andare dall’infermiere per la puntura”. Lui a quel punto si è avvicinato ancora un po’, non contento della mia risposta e sempre più imbarazzato mi ha chiesto: “allora sono a posto? li posso riabbracciare i miei nipoti?”

Ma quelli bloccati nelle RSA, impossibilitati a spostarsi, si è preferito separarli d’autorità dai loro affetti, e per qualcuno il tempo del riabbracciarsi non è mai arrivato, condannati a morire soli come cani.

Contemporaneamente è andato sviluppandosi l’uso delle app, utilissime fino a quando usarle è una scelta, castranti quando vengono imposte come unica opzione, e resta il fatto indiscutibile che annullano i contatti umani. La scorsa estate ho dovuto rifare il passaporto perché il vecchio era scaduto e avevo in programma il viaggio in Israele. Per il precedente dieci anni fa, a Brunico, il lunedì sono andata alla polizia, dove mi hanno detto che l’ufficio passaporti era aperto il martedì e il giovedì, il giorno successivo sono tornata e mi hanno detto che cosa serviva, il giovedì sono andata a portare tutto e farmi prendere le impronte e due settimane dopo sono andata a ritirarlo. Adesso qui le informazioni si ricevono solo dal sito, per andare a portare le cose che servono bisogna prendere appuntamento e l’appuntamento si può prendere solo online, cioè il contatto tra le persone è stato ridotto al minimo possibile. Tra l’altro per prenderlo occorre avere lo spid, e per avere lo spid occorre avere lo smartphone, che io rifiuto, e quindi per poter avere l’appuntamento ho dovuto fare i salti mortali. E mi sa che il prossimo, fra altri dieci anni, non potrò averlo neanche coi salti mortali tripli avvitati carpiati scaravoltati.

E poi è arrivato il momento di partire per Israele. È stato un viaggio un po’ zingaresco, decidendo di tappa in tappa come proseguire e cercando di volta in volta dove dormire; per Tel Aviv però, dove saremmo arrivati di sera tardi, bisognava prenotare qualcosa prima. Avendo esigenze diverse, io e cdv abbiamo scelto alloggi diversi; io ho preso un monolocale in Ben Yehuda, prenotato e pagato online; poi per entrare il giorno dell’arrivo mi è stato fornito un codice con il quale aprire lo sportellino della scatoletta in cui si trovava la chiave del portone e un altro codice per recuperare la chiave dell’alloggio. Nell’edificio niente reception, niente personale, niente di niente, quindi il tutto senza vedere una sola persona. Con una persona dell’amministrazione ho dovuto parlare per telefono per la faccenda della carta di credito clonata e quindi bloccata, per cui non potevano ottenere il pagamento col numero che avevo fornito, ma senza questo intoppo i contatti sarebbero stati a zero. Ho visto anche un McDonald’s (non li frequento, ma per mettere qualcosa sotto i denti a un prezzo decente quando sono in viaggio può andare bene) in cui non c’era il banco a cui fare l’ordinazione, e magari chiedere qualche eventuale spiegazione, ma degli aggeggi tipo bancomat in cui si digitava il numero delle cose che si volevano e, immagino, qualcosa con cui identificarsi, e da lì l’ordinazione arrivava direttamente alla cucina. Me ne sono andata senza mangiare: mi rifiuto di trasformare anche i pasti in operazioni asettiche in cui non ci sia una sola faccia umana da guardare. E ieri, in un blog che frequento, l’amico WC (no, non nel senso che sia un cesso: sono le sue iniziali) ha scritto “Senza smartphone in pratica in Danimarca non puoi fare nulla. È tutto gestito da app online…” Cioè si sta sempre più andando verso l’obbligatorietà, verso la spersonalizzazione, verso la disumanizzazione. Intendiamoci, io non sono pregiudizialmente contro il progresso, ma mi rifiuto di vivere in un mondo artificialmente – e programmaticamente – privato degli umani.

C’è da dire che questo processo sembra essere allegramente sostenuto da una fetta consistente della popolazione. Penso per esempio alle persone che dopo avere convintamente accettato reclusione, coprifuoco, chiusura di ogni sorta di locali e attività e cancellazione della faccia, tuttora, col covid che, tranne che per gli ottantenni cardiopatici diabetici ipertesi ipercolesterolemici, raramente è qualcosa di più di un raffreddore, girano ancora privi di faccia. Forse sono davvero convinti di farlo per proteggersi – anche se in realtà stanno semplicemente distruggendo la propria fabbrica di anticorpi – ma la verità è che stanno cancellando il mondo intorno a sé, sono stati offerti loro gli strumenti per poterlo fare, e ci si sono avidamente buttati sopra. E penso, sempre a questo proposito, a quelli che girano costantemente con gli auricolari infilati nelle orecchie, isolati dal mondo, isolati dalla società, isolati dalla vita reale, autentici zombie oltre che bersaglio prediletto di ogni sorta di predatori, aspiranti scippatori, stupratori, o dispensatori di violenza gratuita che siano.

Restando sostanzialmente in tema, un’altra causa di autentico distanziamento sociale è la “musica” – rigorosamente fra virgolette – a palla che esplode nelle orecchie ormai nella maggior parte dei locali, bar, ristoranti, negozi, supermercati. Per quanto mi riguarda la trovo una cosa di una violenza inaudita, che rende praticamente impossibile dialogare, chiacchierare, discutere, intollerabile l’impossibilità di scegliere, di scegliere se ascoltarla o non ascoltarla, di scegliere, in caso, il tipo di musica, di scegliere il volume. Le persone per sentirsi sono costrette a gridare, obbligando le altre a gridare di più in un infinito crescendo. Quanto a me, se posso scegliere mi rifiuto categoricamente di entrare in questo genere di locali, che diventano purtroppo sempre più numerosi; se proprio sono costretta a entrarci, non riesco a fare altro che rannicchiarmi in un angolo con le mani sulle orecchie, incapace di mangiare, incapace di bere, incapace di fare qualunque cosa, con una sofferenza che mi devasta. Se è a volume basso la sopporto (se proprio devo) però mi dà ugualmente fastidio: mi disturba il fatto che mi venga imposta. Il punto è, mi fa notare l’amica Moon, che la maggior parte delle persone apprezza la musica, che il locale che la mette paga la Siae, e di sicuro non lo farebbe se i clienti non la gradissero. Cioè, per un bel po’ di gente, questa roba rappresenta un incentivo. Cioè un sacco di gente gradisce che le cose le vengano imposte. Gradisce che le vengano imposte cose che le impediscono di pensare, di comunicare, di dialogare. Secondo qualcuno il rumore è vita; no: il pensiero è vita, e il pensiero si sviluppa unicamente nel silenzio. La comunicazione è vita, e con un rumore di fondo la comunicazione è disturbata, falsata, quando non resa impossibile.

Ecco: da una parte sembrerebbe proprio, visti certi provvedimenti assurdi e controproducenti presi con la scusa del covid, e vista l’imposizione sempre più stretta di sistemi che fanno sbrigare ogni sorta di pratiche senza alcun contatto umano (anche telefonando alle carte di credito o alle compagnie telefoniche si parla in linea di massima con un robot), che si voglia cancellare dall’alto i contatti umani, ossia imporre un “distanziamento sociale” sempre più diffuso e capillare, dall’altra sempre più persone, al di là della comodità di sbrigare certe pratiche da casa con qualche clic, anche nella loro vita quotidiana abbracciano entusiasticamente questo distanziamento: escono con gli amici e passano il tempo a smanettare sullo smartphone, entrano in locali in cui si viene assordati da un frastuono che viene chiamato musica, vanno per strada con le orecchie tappate dagli auricolari, sorde e cieche alla VITA che le circonda. In poche parole, ci stiamo avviando a un mondo popolato da zombie. Che a me fa paura.

Anche se stavolta non c’entra col tema, voglio rendere omaggio a Tatiana Totmianina, 41 anni, due figli, incidentata pochissimi giorni fa (hanno dovuto portarla fuori di peso – e i segni sono ancora ben visibili) e tuttavia di nuovo in pista, rispettando gli impegni presi e il pubblico che l’aspettava. Godiamoci questo delizioso “Tenerezza”.

(L’ho già detto ma lo ridico: per un uomo con questa faccia posso fare qualunque follia. Perché col cavolo che mi distanzio, io)

barbara

  1. Il mio pensiero è questo: ci siamo avvicinati a smartphone varie app per necessità o comodità; poi, gradualmente, questi ci hanno reso schiavi. Vivendo in un paesello lontano da tutto la tecnologia mi ha sempre reso un bel servizio, ma poi a volte mi ci sento ingabbiata. Ed è difficile uscire, molto più che non entrarci affatto. E questo sì, hai ragione, ci rende un po’ zombie, sempre più asociali, tanto che poi la socialità sono anni che la ricerchiamo nel web, dal primo Facebook (ora, per quanto mi riguarda, è diventato impraticabile), agli altri social, dai vecchi forum allo stesso WP.
    Sto leggendo questo libro: https://www.amazon.it/non-cose-Byung-Chul-Han/dp/8806251090/ref=asc_df_8806251090/?tag=googshopit-21&linkCode=df0&hvadid=555055330730&hvpos=&hvnetw=g&hvrand=4778148534278486560&hvpone=&hvptwo=&hvqmt=&hvdev=c&hvdvcmdl=&hvlocint=&hvlocphy=1008463&hvtargid=pla-1607653823508&psc=1
    Devo dire che mi spaventa molto, nonostante a tratti lo trovi eccessivo, non posso che dargli ragione: ci stiamo allontanando dal reale. Finché, come ho scritto, non resterà che il Metaverso…

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  2. Grazie per questo post.
    Proprio ieri la maestra di mia figlia ha inviato a tutti i genitori un video con i bambini intenti a cantare jingle bells.
    Piccoli alunni disposti in banchi a formazione ferro di cavallo, con mia figlia distanziata e separata dagli altri in un banchetto singolo al centro della formazione. Tutto perché rientrata a scuola due giorni prima dopo un’influenza non COVID (tampone negativo). Ci mancava solo un segno distintivo sul grembiule.
    Quanto alla RSA, ho potuto vedere mia madre solo una volta al mese negli ultimi due anni. Se c’era bel tempo in giardino, se pioveva o faceva freddo, in sala colloqui (non è uno scherzo), attraverso un vetro .
    Poi un giorno mi hanno chiamato la mattina per dirmi che la mamma stava male e potevano derogare alla tabella delle visite. Mentre ero sulla strada per la RSA, un’altra telefonata: mia madre se ne era andata. Comunque l’impresario di pompe funebri mi stava aspettando in clinica per i dovuti accordi.
    Dovrei essere schifato, se, qualche mesi prima non avessi assistito alla letterale uccisione di mia suocera, trivaccinata, in una clinica di riabilitazione dopo un intervento per la protesi dell’anca. Entrata e uscita negativa dall’ospedale. Entrata negativa nella clinica. Contagiata nella clinica da un dipendente risultato positivo al COVID. Morta per polmonite dieci giorni dopo. Solo grazie ad una caterva di raccomandazioni (è l’Italia, bellezza!) mia moglie ha potuto vedere la mamma due giorni prima che morisse.
    E c’è ancora un buffone che gira in parlamento con la mascherina…

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  3. Vaado OT, decisamente
    E’ appena finita la Coppa del Mondo quatariota: ha vinto, mertitatamenteanche se ai rigori, l’Argentina. Bellissima partita, e te lo dice uno che proprio non ama il calcio.
    Succede che qualche giorno fa l’Autorevole, ilSerio Washington Post se ne esce con un articolo che lamenta che nella squadra Argentina non ci sono abbastanza negri.
    Piccolo particolare: i neri, in Argentina, cìsono poco meno dello 0.3 (zerovirgolatre) % della popolazione (gli Italiani di origine sono quasi il 50%).
    Hanno ritirato l’articolo, ma Internet non perdona.
    Questa è la risposta più brillante:

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    • Mi sembra il caso della versione franco – canadese della serie USA Brooklyn 99, ribattezzato Escoudade 99.
      Gli attori della serie USA hanno rimproverato i loro colleghi di non avere tenuto conto della “diversità” nella composizione del casting: c’erano troppi bianchi.
      Peccato che in Canada i bianchi siano il 70%% della popolazione, i neri sono solo il 4,3%. Il resto sono asiatici. Il cast era fin troppo sbilanciato, visto che il capo stazione era interpretato da un nero come nella serie USA.
      Trovo insopportabile questa negazione della realtà.
      Del resto in USA esiste l’affermative act, che crea corsie superpreferenziali per gli studenti neri. Peccato che pochi dei privilegiati riescano a fruirne con profitto. A differenza degli studenti asiatici, che senza trattamenti di favore si bevono tutti gli altri loro colleghi. Anche per questo molti neri aggrediscono e uccidono giovani asiatici; invidia razziale.

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      • in realtà azioni come l’affermative act spesso poi si rivelano essere una zappa sui piedi niente male. Lottare perché i negri abbiano “corsie preferenziali” rispetto ai bianchi equivale a dire che sono meno preparati di loro e quindi hanno bisogno di maggiore aiuto. Risultato? alla fine si pescano i “meno peggio” come “figure quota”* per evitare accuse di razzismo e scarti tutto il resto.
        Per i posti “tosti” ti rivolgi a gente che ha dimostrato di aver conquistatio i titoli e non di averli ricevuti grazie ai bollini del supermercato. Un negro avrà grossissime difficoltà a dimostrare che il suo titolo è stato meritato e che le sue conoscenze sono equivalenti a quelle di un bianco o di un asiatico a cui non hanno fatto sconti.
        Lo stesso problema ineliminabile delle quote rosa: è stata scelta perché capace o perché serviva una “mestruante o equiparata” per evitare accuse di sessismo?

        ***cioè figure lavorative assunte solo per evitare accuse di razzismo/omofobia/sessismo spesso parcheggiate in ruoli pomposi ma vuoti di contenuti come “direttore generale del karma positivo nell’assonanza universale”

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    • Pensano solo alla razza. Sono i veri razzisiti. C’è un dettaglio inevitabile: l’autore dell’articolo non è un gionalista del WP, ma una professoressa universitaria (è un op-ed, cioè un editoriale “esterno”).
      Insegna, e come ti sbagli?, storia razziale dell’America latina in un’Università del Texas, e naturalmente non si chiama Maria Gonzàlez, ma Erika Edwards.

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      • Ma è la stessa osservazione che tanti anni fa, all’università, fece uno studente di colore, in mia presenza, al mio compagno di camera argentino. Mi ricordo come fosse adesso la disinvoltura con la quale l’argentino spiegò la cosa al razzista.

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    • Beh ho letto polemiche, negli USA, perché il marocco era una squadra “troppo bianca” per essere una squadra africana.
      Il fatto è che mediamente il popolo americano è colossalmente ignorante, pensa per stereotipi e spesso crede che tutto il mondo sia identico agli USA. Molti rimangono sconvolti dallo scoprire che noi ragioniamo per metri e litri invece che di pollici e galloni.

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  4. Pingback: Because we are a country, not a Disney movie – Cavolate in liberta'

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