E SE L’EMERGENZA CLIMATICA

fosse il fumo che ci viene gettato negli occhi per impedirci di vedere questo? Vale la pena di leggere questo articolo di Giulio Meotti, anche se lungo, per cercare di capire quale sia il pericolo reale che incombe su di noi.

“L’immigrazione islamica è la grande minaccia alla pace civile in Europa”

Si tratta del testo più impressionante, più articolato e più scenaristico che abbia letto finora da parte di un alto dirigente europeo della sicurezza sulla disintegrazione del continente. Nessun ex capo dei servizi segreti italiani ha mai usato parole tanto oneste e coraggiose.
L’ex capo dei servizi segreti francesi Pierre Brochand (Direction générale de la sécurité extérieure) ha tenuto una drammatica conferenza al Senato di Francia. Ne rende conto in esclusiva Le Figaro e lo pubblico per gli abbonati alla newsletter. Ci vuole pazienza e leggerla tutta. Perché c’é tutto: cosa abbiamo sbagliato, cosa accadrà, cosa possiamo e dobbiamo fare… Niente non è un’opzione, ma un suicidio. Riguarda i francesi, gli italiani, tutti gli europei. O almeno tutti coloro che hanno a cuore il futuro dell’Europa. Quella vera, non della lingua di legno.
Signore e signori senatori,
È un grande onore per qualcuno che ha iniziato a servire la Francia sotto il generale de Gaulle. Mi avete chiesto di parlare di immigrazione e io ho suggerito di aggiungere “questione centrale”.
Per due motivi:
da un lato, credo che, tra tutte le sfide che dobbiamo affrontare, l’immigrazione è l’unica che minaccia la pace civile e, come tale, la vedo come un prerequisito per tutte le altre. D’altra parte, l’immigrazione ha un impatto trasversale su tutta la nostra vita collettiva, che considero generalmente negativo.
L’immigrazione in generale non è affatto un male in sé, ma lo è l’immigrazione molto particolare a cui siamo sottoposti da 50 anni.
Chi sono io per suonare la campana?
Col tempo, mi sono reso conto, non senza angoscia, che le dure lezioni, tratte dalle mie esperienze all’estero, si rivelavano sempre più rilevanti all’interno, poiché, attraverso il gioco dell’immigrazione, questo “fuori” era diventato il nostro “dentro”.
Quali sono questi insegnamenti o queste verità che non sempre è bene dire?
Primo, che la realtà del mondo non è né bella né gioiosa e che è suicida prendersene gioco, perché, come un boomerang, si vendica centuplicata. Poi, che, nell’azione, il peggior peccato è assumere i propri desideri per realtà. Che, se il peggio non è sempre certo, è meglio prevederlo per prevenirlo. Che le società “multi” sono tutte destinate a disgregarsi. Che non siamo più “furbi” dei libanesi o degli jugoslavi nel far “convivere” persone che non vogliono.
Per prima cosa, non mi impantanerò nei numeri. Perché, con quasi mezzo milione di ingressi annui e un tasso del 40 per cento di bambini da 0 a 4 anni di origine immigrata, la questione mi sembra ovvia su questo piano.
D’altra parte, è chiaro che a questo livello, non siamo più nell’addizione di singoli casi – tutti singolari -, ma nella riattivazione di potenti forze collettive, ancorate nella Storia. Sicché procedere a ragionevoli generalizzazioni – quello che si grida in genere sotto il nome di amalgama – non ha infatti, per me, nulla di scandaloso.
Cominciamo torcendo il collo alla “papera”, secondo cui la Francia è sempre stata un paese di immigrazione. Per mille anni, dai Carolingi a Napoleone III, non è successo niente.
Dal 1850, tuttavia, abbiamo vissuto tre ondate:
La prima è durato un secolo. Di origine eurocristiana, discreta, laboriosa, grata, regolata dall’economia e dalla politica, ha rappresentato un modello insuperabile di riuscita fusione.
La seconda è iniziata negli anni ’70 e da allora è solo cresciuta. È l’esatto opposto della prima.
È un’immigrazione di insediamento irreversibile, che non è calibrata né dal lavoro né dalla politica, ma generata dai diritti individuali, soggetti all’unico giudice nazionale o sovranazionale. Siamo, quindi, travolti dai flussi col pilota automatico, “a ruota libera”.
Tutti provengono dal “terzo mondo”, da società fortemente fallimentari, e la maggior parte sono di religione musulmana, oltre che originari delle nostre ex colonie. Inoltre sono, come si dice oggi, “razzializzati”.
La terza ondata è stata innescata dieci anni fa dalla cosiddetta “primavera araba”, di cui è una delle nefaste conseguenze.
Non possiamo capire molto dell’immigrazione attuale se non abbiamo percepito fin dall’inizio che essa era virtualmente conflittuale, che questi conflitti non erano quantitativi ma qualitativi – quindi insolubili – e che facevano parte in ultima analisi del dolorosissimo contraccolpo antioccidentale innescato dalla globalizzazione.
Fingendo di ignorare questo determinismo, siamo stati così sciocchi da reintrodurre nelle nostre società gli ingredienti delle tre tragedie che hanno causato le nostre peggiori disgrazie in passato:
Discordia religiosa, antagonismo coloniale e razzismo, da cui pensavamo di esserci liberati dal 1945.
Per quanto riguarda la religione, cioè l’islam, questa confessione, interamente importata dall’immigrazione, non è un corrispettivo del cristianesimo, radicato in noi quindici secoli fa e da tempo addomesticato da una laicità tagliata su misura.
Da un lato, come fede, l’Islam è una religione “antiquata”, un codice onnicomprensivo di pratiche apparenti, un patchwork di certezze comunitarie, precipitato improvvisamente dal cielo nello stagno di un post-moderno dove la società, che non crede più a niente, è completamente spiazzata da questa devastante irruzione (oggi in Francia ci sono 25 volte più musulmani che negli anni ’60).
D’altra parte, come civiltà totale, orgogliosa, guerriera, offensiva, militante, l’Islam ha preso male per due secoli l’umiliazione dell’Occidente. Non appena la globalizzazione gli ha offerto l’opportunità, si è svegliato come un vulcano.
Conosciamo le manifestazioni di questa esplosione: jihadismo, salafismo, islamismo, reislamizzazione culturale. Tutti sintomi ormai presenti sul nostro suolo, come tante espressioni crisogene dell’insoddisfazione di un agente storico “anti-status quo”, che aspira all’egemonia là dove è presente, e, quando ci riesce, non condivide la nostra deferenza verso le minoranze.
Per questo bisogna avere un “cervello da colibrì” – come diceva de Gaulle – per dimenticare che musulmani ed europei non hanno smesso di battersi, da 13 secoli, per il controllo della sponda settentrionale e meridionale del Mediterraneo e bisogna essere piuttosto ingenui per non percepire, negli odierni andamenti demografici, un risorgere di questa secolare rivalità che, va ricordato, è sempre finita male.
Siamo stati così stupidi da immaginare che ricostituendo, sotto lo stesso tetto metropolitano, il faccia a faccia con persone che avevano appena divorziato all’estero, saremmo riusciti a rimetterle assieme. Errore fatale.
Di qui il fatto, mai visto da nessuna parte, di un’immigrazione con tendenza al vittimismo e alla rivendicazione, portata tanto al risentimento quanto all’ingratitudine e che, consapevolmente o no, si presenta come creditore di un passato che non passa.
Quanto al divario razziale, è dovuto alla visibilità dei nuovi arrivati ​​nello spazio pubblico, anch’essa senza precedenti. Il che porta, ahimè, a instillare nella mente delle persone una griglia di lettura etnica delle relazioni sociali, dove, per contaminazione, ognuno finisce per essere giudicato dall’aspetto. Che spostamento fraudolento e scandaloso, poiché porta i nostri immigrati a pensare che anche loro siano discendenti di schiavi.
Ma, non contenti di aver ravvivato questi tre fuochi mai spenti (religioso, coloniale, razziale), siamo riusciti nell’impresa di accenderne tre nuovi, sconosciuti alla nostra storia recente:
Il primo è dovuta all’incongrua intrusione di costumi comunitari d’altri tempi, ereditati dai paesi di origine e perpendicolari al nostro modo di vivere: primato dei legami di sangue, sistema di parentela patrilineare, controllo della donna, sorveglianza sociale della sessualità, endogamia, cultura dell’onore e suoi corollari (giustizia privata, diritto del taglione, omertà), ipertrofia dell’autostima, incapacità di autocritica. Senza dimenticare la poligamia, l’escissione, la stregoneria, ecc.
Un altro incredibile dissenso: l’alter nazionalismo dei nuovi arrivati, che, a differenza dei loro predecessori, intendono conservare la nazionalità giuridica ed affettiva del paese di origine, in gran parte mitizzata. Con tutti i danni che può causare questa rara dissociazione tra passaporto e fedeltà.
Infine, “ciliegina sulla torta”, queste comunità di altrove non solo hanno dispute con la Francia, ma anche tra di loro: nordafricani/subsahariani; algerini/marocchini; turchi/curdi e armeni; afghani, ceceni, sudanesi, eritrei, somali, pakistani, pronti a dare battaglia, ognuno dalla propria parte. Senza dimenticare lo spaventoso paracadutismo di un antisemitismo di tipo orientale. Così, una sorta di “bonus regalo”, assistiamo all’insolito spettacolo di un territorio, trasformato in campo chiuso per tutte le beghe del pianeta, che non ci riguardano.
I flussi di immigrazione sono cumulativi. Oltre agli effetti di flusso, ci sono effetti di stock, che a loro volta generano nuovi flussi. Queste correnti obbediscono anche agli effetti di soglia. Oltre un certo volume, cambiano natura e segno. Da possibilmente positivi, cambiano in negativi.
Questa soglia di saturazione viene raggiunta tanto più rapidamente quanto più profondo è il divario tra la società di partenza e quella di destinazione.
Lo scenario secessionista è la pendenza più naturale di una società “multi”.
Quando i gruppi sono ripugnati dal vivere insieme, si formano quelle che vengono chiamate diaspore, costituite da popolazioni extraeuropee, né assimilate né integrate e con una tendenza non cooperativa.
Una specie di controcolonizzazione, dal basso, che non dice il suo nome.
Di conseguenza, tra questo “arcipelago” e il resto del Paese, sta crollando la fiducia sociale, fondamento stesso delle società felici. Dove la sfiducia diventa sistema, l’altruismo presto scompare al di là dei legami familiari, cioè la solidarietà nazionale. A cominciare dal suo fiore all’occhiello: il welfare state, la cui perpetuazione richiede un minimo di empatia tra contribuenti e beneficiari. L’economista Milton Friedman diceva, a mio avviso giustamente, che il welfare state non era compatibile con la libera circolazione degli individui.
Tuttavia, di fronte a queste micro-contro-società, siamo paralizzati. Vi scorgiamo, non senza ragione, tante pentole a pressione, che temiamo soprattutto possano esplodere contemporaneamente. Siamo pronti a passare di compromesso in compromesso. Si tratta di ciò che viene chiamato, per antifrase, “accomodamento ragionevole”, che non è altro che negazioni della libertà di espressione, della giustizia penale, dell’ordine pubblico, della frode sociale e del laicismo o sotto forma di clientelismo agevolato.
Tutti questi accordi quotidiani possono moltiplicarsi, ma non bastano per comprare la pace sociale ed è allora che “accade ciò che deve accadere”: quando più poteri sono in aperta competizione, sullo stesso spazio, per ottenere il monopolio della violenza ma anche dei cuori e delle menti, questo è lo scenario che si verifica.
Il confronto. Quella che noi modestamente designiamo con l’espressione “violenza urbana” e di cui conosciamo bene la scala ascendente. Rivolte che ora degenerano in guerriglie a bassa intensità, una sorta di intifada alla francese o “remake” minori delle guerre coloniali. Con il culmine di questo continuum che è il terrorismo jihadista.
Alla luce di questo bilancio, la mia sensazione è che, se restiamo a guardare, andiamo incontro a grandi disgrazie.
Dove stiamo andando? Cosa fare?
Se si vuole affrontare un problema, è fondamentale definirne la reale dimensione. Tuttavia, l’apparato statistico, centrato sul criterio della nazionalità, non consente di valutare tutte le ripercussioni di un fenomeno che in gran parte gli sfugge. Per questo è imperativo orientarsi verso statistiche e proiezioni cosiddette “etniche”.
Per quanto riguarda il discorso intimidatorio, è l’incredibile predicazione che i media, le ONG, il “popolo” ci servono e il cui unico scopo è organizzare l’impotenza pubblica. Questi elementi di linguaggio sono, ai miei occhi, solo il riflesso di un’ideologia che, come tutte le ideologie, non ha nulla di sacro. Tranne che è stato dominante per 50 anni.
Il suo dogma centrale, come tutti sappiamo, è quello di far prevalere, ovunque e sempre, i diritti individuali e universali degli esseri umani che si presumono intercambiabili, rimovibili a piacimento, in un mondo senza confini, dove tutto sarebbe perfetto, senza l’ostacolo anacronistico dello stato nazionale, l’unico teoricamente capace di dire no a questo scempio. Per questo abbiamo lavorato molto attentamente per riabilitarlo, amputando le sue braccia regali per conformarlo al nuovo ideale: lascia andare, lascia correre.
La cosa più grave è che questa utopia si difende dall’assalto della realtà solo con un mezzo spregevole: il ricatto. Il ricatto del razzismo che, attraverso le fatwa, promette la morte sociale a tutti coloro che osano mettere la testa fuori dalle trincee. Tuttavia, questa doxa, in forma di fiaba, non dobbiamo temere di proclamarla falsa e incoerente.
Falsa, perché, se è vero che gli immigrati entrano come individui, non è meno vero che si stabiliscano come popoli. Ed è proprio questa limpida evidenza che la narrazione ufficiale ci vieta di vedere.
Ci viene detto contemporaneamente che l’immigrazione non esiste, che esiste ed è una benedizione, che esiste da sempre ed è inevitabile, che accoglierla è un dovere morale, ma che ci pagherà le pensioni e ci darà lavori che noi non vogliamo.
Ma, alla fine, si finisce sempre per imbattersi nello stesso argomento: “non gettare benzina sul fuoco, perché stai facendo il gioco del tal dei tali”. Argomento che è, probabilmente, il più stravagante di tutti, in quanto riconosce che c’è davvero un incendio in corso, ma che è meglio tacere per motivi che non hanno nulla a che fare con esso.
Portati a un tale livello di assurdità, ci troviamo di fronte a una triforcazione:
– O prendiamo sul serio queste sciocchezze e lasciamo che tutto scivoli via: rotoliamo verso l’abisso, premendo l’acceleratore.
– O ci limitiamo ad accompagnare il fenomeno, votando, ogni 3 o 4 anni, leggi che fingono di occuparsi dell’immigrazione, ma che, di fatto, rientrano nella sua gestione amministrativa e tecnocratica. È solo fare un passo indietro per saltare meglio.
– O riusciamo a toglierci la camicia di forza e a riprenderci, mostrando finalmente volontà politica, il volante del camion impazzito che da 50 anni guida da solo.
Avete indovinato che la mia scelta è ovviamente l’ultima. Ma più precisamente?
L’immigrazione – è facile intuirlo – funziona come una pompa che spinge indietro da una parte e risucchia da un’altra. Non possiamo fare nulla, o quasi, per impedire la partenza. Possiamo fare qualsiasi cosa per scoraggiare l’arrivo.
Quindi 6 passi principali:
Lanciare, urbi et orbi, il messaggio che la marea è cambiata di 180 gradi, attaccando frontalmente l’immigrazione legale, che dovrebbe essere divisa almeno per dieci.
L’accesso alla nazionalità deve cessare di essere automatico.
Contenere l’immigrazione irregolare, dividendo per 20 o 30 i visti, compresi gli studenti, concessi ai Paesi a rischio, non accogliendo più alcuna domanda di asilo sul nostro territorio, abolendo ogni premio per la frode (soccorso medico di Stato, alloggio, regolarizzazioni, sbarco delle navi di “soccorso”).
Attenuare l’attrattiva sociale della Francia, eliminando tutte le prestazioni non contributive per gli stranieri e limitando a 3 figli, per famiglia, gli assegni familiari, rivalutati senza condizioni di reddito.
Sgonfiare le diaspore, riducendo tipologie, durate e numeri dei permessi di soggiorno ed escludendo i rinnovi quasi automatici.
Rafforzare la nostra laicità cristiana per adattarla alla ben diversa sfida dell’Islam, non neutralizzando più solo lo Stato e la scuola, ma anche lo spazio pubblico, le università e il mondo delle imprese.
Se queste proposte rientrano nel quadro del diritto esistente, tanto meglio, altrimenti dovrà essere modificato a qualunque costo. Poiché l’inversione proposta è ora una questione di sicurezza pubblica, la sua ferocia è solo la controparte del tempo perduto.
Vi ho appena fatto una diagnosi. Vale a dire, se persistiamo nella nostra cecità, andremo verso un paese dove, al minimo, la vita non sarà più degna di essere vissuta, o, al massimo, in un paese dove, a forza di esplosioni, non saremo più in grado di vivere affatto.
Potremmo non condividere questa valutazione e, in questo caso, avrei parlato per non dire nulla. Ma possiamo aderirvi e, in questo caso, le misure avanzate sono la nostra ultima possibilità.
Sono consapevole che alcuni di voi potrebbero avermi trovato eccessivo, allarmista, irrealistico, senza sfumature, o generosità, cos’altro so.
Vi concedo volentieri altri due difetti. Da un lato, il mio carattere può essere descritto come ostinato, in quanto non accetterò mai di affermare che è notte in pieno giorno. D’altra parte, è vero, sono ossessionato, ma la mia ossessione è rivolta unicamente ai nostri figli e nipoti, verso cui il nostro dovere elementare non è lasciare in eredità un paese caotico, quando lo abbiamo ricevuto dai nostri anziani come un magnifico dono.
Ultima domanda, che suppongo che tutti ci poniamo di tanto in tanto: cosa farebbe il generale de Gaulle?
Nessuno lo sa, ma sono personalmente convinto di due cose: se fosse stato al potere non ci avrebbe mai messo nei pasticci che ho descritto stasera, e se fosse risorto, temo che mi prenderà per un moderato.
Grazie per avermi ascoltato.

Non vi sembra che sia qualcosa di un po’ più concreto della fantomatica emergenza climatica a causa della quale da oltre mezzo secolo ci stanno raccontando che ci restano ancora dieci anni? E ci fosse un cane che ci spiegasse che cosa succederà fra dieci anni se non cambiamo rotta.

barbara