dalle proteste contro la sconsiderata (polpetta avvelenata, l’ha chiamata qualcuno) e dissennata decisione di Trump di prendere atto che Gerusalemme è (da tremila anni!) la capitale di Israele.
POST SCRIPTUM: David Pacifici, autore del video e voce fuori campo, in quel 9 ottobre 1982 alla sinagoga di Roma, ha avuto il figlio ferito.
La sinagoga è quella di Roma. L’attentato è quello del 9 ottobre 1982 – già più volte e con vari documenti ricordato in questo blog – che ha provocato la morte di Stefano Gaj Tachè di due anni e il ferimento di 37 persone, alcune delle quali in modo molto grave.
Il libro, riccamente documentato, ripercorre gli avvenimenti che hanno preceduto l’attentato e, parallelamente, gli atteggiamenti e i sentimenti predominanti in Italia nei confronti di Israele, influenzati anche da una stampa in gran parte faziosa, soprattutto quella di sinistra, influenzata a sua volta dalle direttive dell’Unione Sovietica, che a partire dal 1967 aveva scelto di abbandonare Israele e passare al campo arabo. Libro prezioso, anche per chi, per età, ha potuto seguire quelle vicende in diretta, perché raccoglie documenti e umori a 360°, mettendoci a disposizione anche tutto quello che all’epoca potrebbe esserci sfuggito.
Peccato solo che un incomprensibile pregiudizio ideologico induca i due autori a prendere per buona la rinuncia al terrorismo da parte di Arafat, quando era sotto gli occhi di tutti che fino al suo ultimo giorno di vita a continuato a invocare la distruzione di Israele e a promuovere il terrorismo (e gli articoli che prevedono la distruzione di Israele quale obiettivo primario e irrinunciabile sono tuttora presenti nella costituzione di al-Fatah), e l’esame di coscienza e lo spostamento verso posizioni più equilibrate e meno ostili – se non addirittura amiche – verso Israele da parte della sinistra italiana: davvero difficile da comprendere una simile cecità in due studiosi così seri.
Resta comunque un libro che vale la pena di leggere per la sua documentazione, davvero imprescindibile.
Arturo Marzano – Guri Schwarz, Attentato alla sinagoga, Viella barbara
Sabato 9 ottobre 1982. Si celebra la festività ebraica di Sheminì Atzeret, giorno in cui è prevista la grande benedizione dei bambini. La sinagoga centrale di Roma è gremita. Alle 11.55 escono dal Tempio i primi ebrei, passano dalla porta laterale su via Catalana, in corrispondenza del numero civico 1/A. Due uomini lanciano bombe contro le famiglie che si accalcano all’uscita. Chi corre, chi cerca riparo dietro le macchine, mentre raffiche di mitra vengono sparate dai terroristi che si dileguano in direzione di via Arenula e poi di Campo de’ Fiori. Muore un bambino di due anni, Stefano Taché, il primo ebreo ammazzato sul suolo italiano in quanto ebreo dai tempi della deportazione nazifascista. Adesso un libro, uscito per i tipi della Libreria editrice Viella e a firma di Arturo Marzano e Guri Schwarz, “Attentato alla sinagoga”, ripercorre il tragico episodio nel ghetto di Roma (il libro sarà presentato domani al Salone del Libro). Non è la spy story del perché la polizia quel giorno non montò di guardia di fronte alla sinagoga (Francesco Cossiga avrebbe rivelato successivamente il “lodo” vergognoso, il patto fra il governo italiano e i terroristi palestinesi perché non attaccassero obiettivi italiani, un patto però che non includeva, anche se in Italia, obiettivi “sionisti”). Il libro è piuttosto il viaggio dentro la disumanizzazione che Israele, e con essa il popolo ebraico italiano, ha subito nel periodo precedente l’attentato. “Attentato alla sinagoga” dimostra in particolare come si fosse messo in atto un processo di diluizione dell’ebreo in carne e ossa nell’“ebreo in generale”, facendo riaffiorare sentimenti di rimorso e odio, inchiodando un intero popolo a un destino oscuro che perpetua il mito di una razza coinvolta in tragedie sanguinose. Per dirla con le parole dello psicanalista Antonio Semi sulla prima pagina del Gazzettino di Venezia nel 1982, “se fossi un ebreo, di questi giorni, nella nostra civilissima Europa, avrei paura”. Era l’epoca della guerra del Libano e a forza di fomentare l’odio, in questo clima di sordida ostilità, il terrorismo palestinese prese il coraggio di compiere l’assalto armato al Tempio che vide l’uccisione del piccolo Stefano Taché e il ferimento di decine di persone. L’Associazione nazionale partigiani del comune lombardo di Palazzolo sull’Oglio fece affiggere manifesti murali intitolati “Massacro ebreo a Beirut”, e si rivolse ai cittadini e alle autorità affinché fosse posta fine a un “genocidio che non ha precedenti nelle storie di ogni popolo civile”, chiamando gli ebrei “assassini”. Sulla rivista Quaderni piacentini apparve un articolo di Paolo Sornaga e Ugo Adilardi, un grande elogio della “guerriglia palestinese”, definita come “l’unica valida alternativa di sinistra al tentativo sempre più scoperto di risolvere la questione medioorientale”. Il quotidiano Lotta continua accusò Israele di usare “i metodi classici delle invasioni hitleriane”. E’ la “ferocia del genocidio sionista” contro cui si oppone “la resistenza venuta dai mitra kalashnikov dei feddayn”. Israele, che utilizzava metodi “hitleriani” ed era colpevole di “genocidio”, era il “nuovo nazismo” contro cui combattevano i palestinesi, novelli partigiani, con il solo obiettivo di liberarsi dagli oppressori. In teatro spopolava intanto lo spettacolo “Feddayn” con la regia di Dario Fo e la partecipazione di Franca Rame. Israele vi era presentato come un insediamento coloniale da abbattere, mentre il feddayn veniva definito il “nemico numero uno dell’imperialismo, del sionismo e della reazione araba”. La presenza in scena di attori italiani e palestinesi dimostrava, persino visivamente, come il proletariato italiano e i guerriglieri palestinesi fossero “uniti in scena da un comune impegno di lotta”. Nell’atto di seppellire uno dei feddayn morti durante un attacco terroristico, infatti, veniva intonato un canto che aveva evidenti assonanze con “Bella ciao”. Fondi vennero raccolti per la “causa palestinese”. Commentando l’attacco terroristico compiuto a Monaco nell’ottobre 1972, il periodico Movimento studentesco scrisse che Israele era prossimo “a una mostruosa ‘soluzione finale’”. E nel marzo successivo accusò “il governo fascista israeliano” di perseguire “una politica di terrorismo, di massacri, di vero e proprio genocidio”. Lotta continua non esitò di nuovo a parlare di “fascismo espansionista di Tel Aviv”. Il Manifesto accostò alle SS naziste gli agenti israeliani che si erano infiltrati in Libano per uccidere i dirigenti di Settembre nero nell’aprile 1973. A Bologna il movimento studentesco, impegnato in una manifestazione a sostegno della Palestina, cercò di arrivare alla sinagoga, ma venne bloccato per poco dalla polizia. Per la prima volta dalla fine della guerra si era tentato un assalto contro un edificio della comunità ebraica. A Padova venne lanciata una bottiglia molotov contro il portone d’ingresso della sinagoga di via San Martino e Solferino. Il mese successivo alla strage di Monaco, a Torino, sul muro esterno della sinagoga di via San Pio V venne ritrovata la scritta “Viva settembre nero” con falce e martello disegnati accanto. Nel frattempo a Roma venivano distribuiti volantini per contestare lo spettacolo teatrale di David Zard, uno dei tanti ebrei libici rifugiatosi in Italia dopo il 1967. Zard era apostrofato con una serie di ingiurie antisemite, come “torturatore delle forze di Dayan”. In corrispondenza del Capodanno ebraico furono poi lanciate cinque bottiglie molotov contro la sinagoga centrale di Roma. Il gesto, avvenuto in concomitanza con una serie di attentati a ditte israeliane e americane, venne rivendicato dal Commando antisionista Ghassan Kanafani, dal nome dell’intellettuale palestinese portavoce del Fplp, ucciso nel luglio del 1972. Fu in questo clima che, il 15 settembre, giunse a Roma Yasser Arafat. L’aveva invitato Giulio Andreotti, in qualità di presidente dell’Unione interparlamentare. Il presidente del Consiglio Spadolini fu l’unico a rifiutarsi di incontrare il terrorista dell’Olp, che allora persino formalmente doveva ancora rinunciare alla lotta armata. I segretari dei tre principali partiti politici, Dc, Pci e Psi, dal canto loro, accolsero Arafat con gli onori di un capo di governo. Un articolo di fondo sul Manifesto, a firma di Valentino Parlato, paragonò Ariel Sharon ai capi nazisti Kesselring e Göring, perché a suo giudizio il “reale obiettivo israeliano” non era altro che “la ‘soluzione finale’ della questione palestinese: il massacro o la condanna alla diaspora di questi palestinesi, i veri ebrei del nostro tempo”. Un intellettuale come Lucio Lombardo Radice, all’epoca autorevolissimo membro del comitato centrale del Pci, scrisse che Israele stava mettendo in atto a Beirut ovest la strategia seguita per la liquidazione dei ghetti dell’Europa orientale nella Seconda guerra mondiale. E anche il celebre Fortebraccio scrisse che Menachem Begin e Ariel Sharon “somigliano a dei nazisti”. Era scontato che il Pci e i suoi dirigenti esprimessero contrarietà all’operazione politico-militare israeliana in Libano. Ma nel più grande partito della sinistra si impose con forza qualcosa di più: l’immagine dei “nazisionisti” e l’identificazione dell’ebreo con l’israeliano. Sulle pagine del Corriere della Sera Giuseppe Josca parlò di “soluzione finale”, mentre la Repubblica accusava Sharon di aver imposto al Libano il “nuovo ordine” d’Israele, con una chiara allusione al “nuovo ordine” di Adolf Hitler. Maurizio Chierici sul Corriere della Sera paragonò più volte l’assedio di Beirut alla liquidazione del ghetto di Varsavia e i comandanti militari israeliani a Hans Frank, il governatore nazista della Polonia occupata. Lo stesso giornalista aveva già fatto ricorso a orrendi confronti di quel tipo, descrivendo la fuga della popolazione da Beirut con queste parole: “Viene in mente la fila delle vittime dell’assedio di Varsavia”. Sulla Stampa Giorgio Forattini raffigurava Hitler tra le fiamme dell’inferno mentre leggeva un quotidiano e diceva: “Vedrete che questi mi fregheranno anche i diritti d’autore”. Si può poi ricordare la copertina del mensile comunista Nuova Società, dove un ritratto di Begin era sovrapposto a bandiere naziste, e il titolo sovraimpresso recitava: “Beirut, soluzione finale”. La rivista satirica il Sale raffigura un Begin dall’incarnato giallognolo, le unghie come artigli, le mani insanguinate. Un mostro che si impone sullo sfondo di una Beirut in macerie e che incombe minaccioso sul cadavere insanguinato di un neonato. Un altro Forattini raffigura Begin seminudo, con la kippah e gli occhiali, e come Gesù porta la croce sulle spalle. La croce è però rovesciata, perché la sua punta, affilata tanto da sembrare una spada, gronda sangue. La didascalia recita: “Anch’io ho la mia croce”. Un’altra vignetta, tra le tante immagini disegnate da Forattini, mostra un Begin impiccato a un cedro, dalle cui tasche cadono delle monete, come Giuda, il traditore. Nelle strade d’Italia si aizzavano le masse contro gli ebrei. Durante l’imponente manifestazione promossa il 25 giugno 1982 dalla triplice sindacale contro Israele, nel passare sul Lungotevere nei pressi della sinagoga alcuni manifestanti gridarono slogan antisemiti e giunsero a depositare una bara davanti al muro dove erano apposte le lapidi che ricordavano gli ebrei romani trucidati alle Fosse Ardeatine. L’episodio fu denunciato pubblicamente dal rabbino capo di Roma, Elio Toaff. Al suo allarme seguì una risposta ambigua del segretario della Cgil, Luciano Lama, che giustificava l’accaduto e suscitò critiche tanto dure da costringere il segretario a un secondo intervento in cui corresse il tiro. Michele Magno, responsabile del dipartimento internazionale Cgil, ammise per primo la confusione ideologica da cui nasceva l’ostilità antiebraica. Non mancarono atti di ostilità contro singoli ebrei. Al teatro San Carlo di Napoli il giovane direttore d’orchestra Daniel Oren fu ripetutamente insultato da un gruppo di sindacalisti che lo infamarono al grido di “ebrei nazisti, massacratori, assassini”, mentre a Torino un ragazzo venne aggredito, insultato e pestato poiché portava addosso una catenina con la stella di David. A Milano la rappresentanza sindacale di un grande albergo – adducendo preoccupazione per “eventuali ritorsioni internazionali” – impedì lo svolgimento di un ricevimento di una famiglia ebraica. Il clima di antisemitismo indusse molte personalità ebraiche a prendere le distanze da Israele, secondo il vecchio adagio sovietico per cui erano da separare ebraismo e sionismo. Un noto appello “Perché Israele si ritiri” vide tra i firmatari (presto seguiti da altri mille) Franco Belgrado, Edith Bruck, Ugo Caffaz, Miriam Cohen, Natalia Ginzburg, Primo Levi, Luca Zevi. I promotori presero posizione “in quanto democratici ed ebrei”, con l’obiettivo di tutelare la democrazia israeliana da derive nazionaliste, e di sostenere una “convivenza pacifica con il popolo palestinese”. Affermarono che “la soluzione militare” scelta da Israele evocava “un linguaggio di triste memoria per ogni ebreo”, facendo così un’implicita concessione alla retorica dei “nazi-sionisti”. Dura fu la risposta sul mensile Shalom di Sion Segre Amar, un celebre esponente della comunità ebraica di Torino, coraggioso corsaro sionista della prima ora condannato dal tribunale speciale fascista e gettato in cella assieme a Leone Ginzburg, che si recò anche a casa di Primo Levi per convincerlo a non portare ulteriori attacchi contro Israele. Rosellina Balbi denunciò con forza quel clima in un memorabile articolo sulla Repubblica: “Davide discolpati”. Fu un periodo cupo. Le umilianti giaculatorie di molti ebrei di sinistra non servivano a placare le arroganti richieste di dissociazione. Gli ebrei di Roma che conobbero di nuovo la violenza antisemita sul suolo italiano dopo il 1945 erano stati disumanizzati da anni di antisemitismo giornalistico e ideologico imbracciato pressoché da tutta la classe politica e sociale italiana, con qualche nobile eccezione a sinistra e fra i liberali. Bruno Zevi rivolse un famoso j’accuse alla classe politica e sindacale, per il modo in cui aveva reso omaggio al leader palestinese, che non aveva mai riconosciuto il diritto all’esistenza dello stato d’Israele e si era speso, tramite la sua organizzazione, per promuovere atti terroristici contro israeliani ed ebrei. Ma anche e soprattutto ai mezzi d’informazione e agli intellettuali e giornalisti, che avevano contribuito a stimolare un clima antisemita. Una responsabilità collettiva ben sintetizzata da un manifesto, intitolato polemicamente “GRAZIE”, redatto dai giovani del Movimento culturale studenti ebrei, in cui era scritto in stampatello con un pennarello nero: “Ringraziamo la stampa: la Repubblica, l’Unità, Paese Sera, il Messaggero, l’Avanti, il Manifesto, Panorama, l’Espresso, il presidente Pertini, Andreotti, il Papa per i loro articoli e i loro incontri con Arafat. Questi hanno causato antisemitismo come durante il fascismo. Non desideriamo articoli di compassione”. Una ventina di giorni dopo alcuni militanti dei Gruppi comunisti metropolitani – una delle tante sigle dell’estremismo politico che affollavano quegli anni – marciarono sulla sinagoga di via Garfagnana, a Roma, e sul cancello impennarono la scritta: “Bruceremo i covi sionisti”. L’ultimo giorno di quell’anno di lutto il presidente della Repubblica Sandro Pertini si chiederà infastidito: “Ma cosa vogliono questi ebrei?”. Se il 16 ottobre 1943 è il giorno in cui gli italiani tradirono migliaia di connazionali ebrei diretti a Birkenau, il 9 ottobre 1982 deve essere ricordato come il giorno in cui l’Italia diede in pasto gli ebrei ai terroristi. A sparare furono i palestinesi di Abu Nidal. Ma ad avvelenare le coscienze fu la classe dirigente del nostro paese. Fu, in questo senso, un pogrom tutto italiano. Perché come avrebbe osservato Arnaldo Momigliano in un discorso pronunciato alla Brandeis University nel 1984, “sarebbe una follia concludere su una nota di ottimismo quando accade che un bambino ebreo possa essere assassinato nella sinagoga di Roma, come avvenne nel 1982, senza che si manifesti un sollevamento dell’opinione pubblica”. Giulio Meotti, Il Foglio, 18 maggio 2013
Questi i feriti:
Enrica Amati Moscati
Lello Anav
Anna Arbib
Jacqueline Arbib
Fabio Calderoni
Lucia Correale
Benedetto Carucci Viterbi
Renata Conforty Orvieto
Sandro Di Castro
Giuseppina Di Castro Fiano
Ester Di Segni
Rosa Di Veroli
Leonardo Donati
Lucienne Durso Levaccare
Mario Funaro
Elia Gerbi
Daniela Gaj
Rita Jonas
Nessim Hazan
Jole Marino
Giacomo Moscati
Nereo Musante
Giuditta Orvieto Pacifici
Nathan Orvieto
Joram Orvieto
Shulamit Orvieto
Leone Ouazana
Emanuele Pacifici
David Pacifici
Jonathan Pacifici
Alberto Pavoncello
Eliana Pavoncello Hazan
Elena Pelosio
David Piazza
Laura Piperno
Alba Portaleone Anav
Gabriele Sonnino
Giuseppe Baruch Sermoneta
Max Shamgar
Gadiel Tachè
Joseph Tachè
Poi, per chi ha qualche minuto in più, un mio post di tanti anni fa, il memorabile discorso di Bruno Zevi, quello di Gadiel Taché, fratello di Stefano,
e una rievocazione ad opera di Focus on Israel.
(Perché anche qui, oltre a piangere, sarebbe il caso di provare a imparare qualcosa. E invece non si impara mai niente)
barbara
Quello che segue è il testo del discorso pronunciato l’11 Ottobre 1982 in Campidoglio da Bruno Zevi, a nome della Comunità ebraica romana.
Noi, popolo di Israele, protestiamo e accusiamo
L’antisemitismo ha una storia millenaria, ma quello culminato nella strage di sabato scorso alla nostra sinagoga ne ha anche una specifica, le cui componenti furono denunciate qui in Campidoglio nell’ottobre 1976, esattamente sei anni fa. Qualcuno di voi forse ricorda quell’avvenimento.
Giulio Carlo Argan era stato eletto da poche settimane sindaco di Roma. Si avvicinava il 16 ottobre, trentatreesimo anniversario del giorno in cui i nazisti accerchiarono il ghetto e 1.259 ebrei furono deportati. Argan volle che la ricorrenza fosse celebrata in Campidoglio, e questo costituì l’occasione per esaminare le cause di un nascente antisemitismo, manifestatosi poco tempo prima con il lancio di bottiglie incendiarie contro la sinagoga, in strumentale concomitanza con un comizio di sinistra.
Furono spregiudicatamente individuate tre cause, dirette e indirette, di questo nuovo antisemitismo.
La prima riguardava lo Stato d’Israele, la campagna antisionista, già allora estesasi in maniera abnorme e velenosa. Avvertimmo che l’antisionismo non era altro che una mascheratura dell’antisemitismo, com’era e come è divenuto sempre più evidente dai paesi arabi all’Unione Sovietica.
La seconda causa poggiava sul secolare antisemitismo cattolico, che il Concilio Vaticano non era riuscito a debellare, pur sollevando finalmente gli ebrei dalla turpe condanna di popolo deicida. Rilevammo allora come fosse urgente, per l’indipendenza e il carattere laico della repubblica italiana, procedere ad una profonda revisione del Concordato firmato dal fascismo e dei relativi Patti Lateranensi.
Terza causa la posizione marxista sulla questione ebraica, posizione inquinata dall’«odio ebraico di sé» di Carlo Marx, dall’ostilità di Lenin nei confronti del bund ebraico, e dall’atteggiamento illuministicamente antisemita di molti leaders che si richiamavano al marxismo. Chiedemmo allora che, alla luce del pensiero di Gramsci, si pervenisse ad una svolta decisiva del pensiero marxista ufficiale sulla questione ebraica.
Sono trascorsi sei anni, e queste tre cause dell’antisemitismo, già allora evidenti, non sono state rimosse. Anzi si sono aggravate a tutti i livelli, dalle scuole elementari all’università. Dalle fabbriche ai palazzi del potere economico condizionati dai petrodollari.
Se gli ebrei romani, l’altro giorno e ieri, hanno scelto di vivere il loro lutto da soli, rifiutando lo spettacolo di una passerella di uomini politici, di giornalisti e di intellettuali, che si offrivano di venire in ghetto per esprimere il loro sdegno e la loro solidarietà, è perché ritengono che non sia oltre accettabile una solidarietà che si concreta soltanto quando ci sono ebrei morti, bambini di due anni assassinati.
E’ gravissimo dirlo, e per me liberal-socialista particolarmente angoscioso, ma quanto è accaduto l’altro giorno nella tragica realtà era stato prefigurato, quasi simulato qualche mese fa, durante una manifestazione sindacale. Tra ignobili urla «gli ebrei al rogo!» e «morte agli ebrei!», dal corteo sindacale era stata scaraventata una bara contro la lapide della sinagoga che riporta i nomi dei martiri del campi di sterminio e delle Fosse Ardeatine. Alle proteste contro tale aberrante, preordinato, inconcepibile episodio di delirio antisemita fu risposto in maniera sofisticata ed equivoca, naturalmente deplorandolo ma capziosamente spiegandone i moventi con la politica dello Stato d’Israele. Ennesima conferma che dall’antisionismo si passa automaticamente all’antisemitismo. Quella bara simbolica oggi è diventata reale. Contiene un bambino crivellato di colpi, caduto insieme ad oltre trenta persone all’uscita della sinagoga. Non può quindi meravigliare che, dopo un’indiscriminata campagna contro lo Stato e il popolo di Israele e le comunità della diaspore, dopo gli attacchi feroci ed isterici contro i cosiddetti «olocausti», stermini ed eccidi che gli israeliani avrebbero compiuto, gli ebrei di Roma si siano chiusi per due giorni in un silenzio peraltro politicamente significativo.
In questi mesi, hanno avuto pochissimi veri amici, tra i partiti minori dello schieramento democratico. I partiti di massa, la stampa con rarissime eccezioni, la radio e la televisione di Stato in tutti i suoi canali hanno invelenito l’atmosfera e creato un terreno fertile per l’antisemitismo. Di fronte ai fatti, le lacrime esibite oggi sembrano davvero tardive.
E’ inutile affermare che In Italia, che a Roma non c’è antisemitismo. Al massimo, si può dire che non c’era mai in questa forma virulenta, perché neppure durante il fascismo, neppure durante l’occupazione nazista, furono attaccate le sinagoghe come è accaduto a Milano e a Roma. Ma chi di voi ha ascoltato le radio e le televisioni private nelle scorse settimane è rabbrividito di fronte alla incredibile quantità di testimonianze d’odio antisemita. Ancor più inquietante il fatto che, a parte la radio e la televisione dei radicali, ben poche trasmittenti private ribattevano e combattevano questo livore.
Dopo la tragedia dell’altro ieri, i giornali, le radio — e teletrasmissioni — le dichiarazioni di uomini politici sono unanimemente solidali con gli ebrei, ma non c’è giornale, né radio, né televisione, né uomo politico che abbia detto: «Una parte, sia pur minima e indiretta, della responsabilità di quanto è accaduto ce l’ho anch’io!».
Perciò noi accusiamo:
1) II Ministero degli Interni e i dirigenti delle forze dell’ordine per non aver apprestato dispositivi difensivi nel ghetto e intorno alla sinagoga, malgrado fossero stati insistentemente richiesti, a seguito delle continue minacce dirette agli ebrei. (Durante una cerimonia in sinagoga) è stato osservato che l’Italia manda i suoi bersaglieri in Libano per proteggere i palestinesi, ma non protegge i cittadini ebrei italiani;
2) il mondo cattolico per il modo pomposo in cui ha ricevuto Arafat in Vaticano e per aver quasi ignorato che il massacro nei campi palestinesi è stato compiuto da cristiani, mentre all’esercito di Israele può essere ascritta, se provata la sola colpa di una corresponsabilità morale,
3) la classe politica e sindacale, con ben poche eccezioni, da alcune delle massime autorità dello Stato ai leaders di molti partiti e a numerosi amministratori locali, per il comportamento tenuto durante la visita di Arafat a Roma, per la gara di strette di mano, di abbracci, di baci, di relative accoglienze fraterne verso il capo di un’organizzazione che, se oggi si presenta con un ramoscello d’ulivo, nel passato ha perpetrato innumeri stragi terroristiche contro Israele e contro gli ebrei, e non ha ancora riconosciuto il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, anzi anche ultimamente ha confermato di volere non la pace, ma una «guerra santa»;
4) la stampa e la radiotelevisione che, salvo rare eccezioni, hanno distorto fatti e opinioni, confondendo volutamente lo Stato di Israele con la politica del suo attuale governo, con il popolo e le comunità ebraiche, determinando un clima incandescente, entro il quale si è inserita la strage dell’altro giorno;
5) i molti, moltissimi intellettuali, giornalisti o meno, che in questi mesi si sono divertiti ad esaminare i risvolti psicologici, le «malattie» di Israele, i moventi segreti della politica di Begin e di quella dei suoi oppositori, facendo sfoggio di elucubrazioni e sofismi tutti adducenti, magari contro il loro proposito, all’antisemitismo. Noi accusiamo. In un mondo sconvolto dalla violenza, con 30.000 persone al giorno che muoiono per fame, i nostri mezzi di informazione di massa hanno dato il massimo rilievo solo alle azioni dell’esercito israeliano. I morti in Afganistan, i morti in Iran, i morti in Siria, le decine di migliaia di morti in Libano dopo l’arrivo dei palestinesi, i bambini della Galilea bombardati, questi morti non valgono, e anche i terroristi palestinesi sono considerati mansueti, pacifici: avevano immensi arsenali di armi in Libano, ma solo per giocare. Signori consiglieri regionali, provinciali e comunali; noi siamo sinceramente commossi dalle manifestazioni di solidarietà emerse in quest’aula. Lo siamo come ebrei romani, e lo siamo ancor più in quanto cittadini italiani che sanno come l’antisemitismo sia un preciso sismografo della civiltà di un paese.
Nessuno ci chieda di distinguerci dal popolo di Israele, di accettare una differenziazione manichea tra ebrei e israeliani. Noi apparteniamo al popolo di Israele che comprende le comunità disperse in ogni parte del mondo, a cominciare dalla più antica, quella di Roma, e la comunità di coloro che hanno fatto ritorno alla terra degli avi. Inoltre, lo Stato di Israele, indipendentemente dal giudizio che possiamo dare sul suo governo, vale per un’altra ragione: perché è uno Stato democratico esemplare.
In quale altro Stato sarebbe ammesso che militari, anche di alto grado, rifiutassero di combattere una guerra di cui non condividono le finalità e, invece di essere processati e fucilati per tradimento, sono tranquillamente mandati a casa?
In quale democrazia in stato di guerra si istituirebbe una commissione d’inchiesta sul comportamento dell’esercito?
In quale democrazia in stato di guerra si potrebbe svolgere una manifestazione di 400.000 persone che protestano contro la guerra, senza alcun atto repressivo da parte del potere?
E concludo. L’antisemitismo è esistito per duemila anni, non dal 1948, dalla proclamazione dello Stato di Israele. Non crediamo all’antisionismo filosemita: è una contraddizione in termini.
Abbiamo espresso con franchezza la nostre accuse. Siamo preoccupati, allarmati come ebrei, come antifascisti, come democratici, come uomini della sinistra. L’antisemitismo, come tutti avete affermato, è un segnale inequivocabile di corrosione democratica. Ebbene, in Italia, a Roma l’antisemitismo emerge in forme inedite nella storia del nostro paese. Era un segnale già chiaro sei anni fa, ma oggi esplosivo. Insieme, teniamone conto e corriamo ai ripari. (Fonte: Il Tempo, 11 Ottobre 1982, grazie a lui).
Può essere utile rileggerequesto, e vedere questo filmato.
Ripropongo infine un commento lasciato a suo tempo nel blog:
Qualche giorno dopo l’attentato, passavo con un collega (anche lui non romano) sul lungotevere, davanti alla sinagoga. Lui disse: ma è qui? in pieno centro? ma non si vergognano a tenere in centro una fonte di pericolo per chi passa e non ha niente a che fare con loro?
Vergognoso, effettivamente, permettere che ogni volta che a qualcuno viene voglia di fare il tiro al piccione sugli ebrei, si corra il rischio di fare ammazzare, al posto loro, qualche innocente.