Ovvero: la matematica non è un’opinione. Neppure quella ecologica. Neppure quando le intenzioni sono buone, o cercano di spacciarsi per tali.
Facciamo due calcoli semplici:
la chioma di un albero adulto di medie dimensioni ha un raggio di almeno (almeno!) 3 metri.
La superficie del cerchio è “raggio x raggio x 3.14” e, quindi, 3m x 3m x 3,14 fa poco più di 27 metri quadrati. Questo è una superficie minima (molto), ma la terremo come unità di misura per comodità.
Se il raggio fosse di solo un metro in più, la superficie balzerebbe quasi al doppio (4 x 4 x 3,14= 50 metri quadrati). E’ la matematica, bellezza.
La superficie di un chilometro quadrato (un quadrato di un chilo di metri di lato) è 1000 m x 1000 m, cioè 1.000.000 mq. Questa invece è una certezza.
E’ chiaro quindi che un chilometro quadrato può ospitare al massimo 1.000.000 mq diviso 27 mq = 37.037 alberi con una chioma di tre metri di raggio. Così come un campo sportivo ne terrebbe 7.000 mq / 27 mq = 260.
Ora non è per fare il maestrino ma, cari surfisti del cambiamento climatico, mi spiegate dove avete trovato, in Italia, uno spazio complessivo di 1620 chilometri quadrati (più della provincia di Milano) di terreno pubblico e inutilizzato, privo di panchine, parcheggi, fossi, campi sportivi, scuole, ospedali, sottoservizi, rotatorie e, soprattutto, adatto allo sviluppo di alberi vigorosi e che restino sani per un periodo ben più lungo di un mandato elettorale, nei quali piantare 60 milioni di alberi che abbiano la speranza di diventare adulti?
E’ che da queste parti noi viviamo già sovrapposti, in condomini sempre più alti.
Non sarà, forse, che per ora è sufficiente piantarne uno piccolino ogni metro quadrato, farci una bella “Festa dell’albero” e poi si vedrà?
Perché allora si, trovare 60 milioni di metri quadrati, 60 chilometri quadrati qui e là in Italia, è ben più facile.
Sapendo però che, fra 50 anni, di quei 60 milioni di piantine (che avete pagato una ad una) ne resteranno comunque una ogni 27 mq: due milioni o poco più.
Perché gli alberi, per fortuna loro e nostra, crescono.
Ma allora perché non pianificare l’impianto di 2 milioni di alberi da subito, per bene, dando loro un futuro certo?
E niente, gli ecologisti de noantri, come i climatologi de noantri e i pesciazzurri de noantri, non c’è bisogno di darsi da fare per sputtanarli: si sputtanano da soli, come quando uno scorreggia in autobus e poi si guarda intorno col nasino arricciato e la faccia schifata e l’aria interrogativa. Uguale.
La barca è quella del canottaggio; i ragazzi sono quelli che, sfida vinta dopo sfida vinta, finiscono per approdare a Berlino, nel ’36. Che cos’è che fa di questo libro un libro eccezionale? Pagine come questa, per esempio
Il canottaggio agonistico è un’impresa di straordinaria bellezza preceduta da un crudele castigo. A differenza di molti sport che si concentrano su specifici gruppi muscolari, il canottaggio fa un uso massiccio e reiterato praticamente di ogni muscolo del corpo, anche se un rematore, per dirla con Al Ulbrickson, «si dimena sulla sua appendice posteriore». E il canottaggio impone questi sforzi muscolari non a intervalli saltuari ma in rapida sequenza, per un periodo di tempo prolungato, ripetutamente e senza tregua. Una volta, dopo aver guardato allenarsi le matricole della Washington, Royal Brougham del «Seattle Post-lntelligencer» si meravigliò di quanto fosse implacabile questo sport: «Nessuno chiede mai il time out in una gara di canottaggio» osservò. «Non c’è un posto dove fermarsi per bere un’appagante sorsata d’acqua o prendere una boccata d’aria fresca e corroborante. Devi tenere sempre gli occhi fissi sul collo rosso e sudato del compagno davanti a te e vogare finché ti dicono che è finita. Ragazzi, non è uno sport per rammolliti.»
Durante la voga, i principali muscoli di braccia, gambe e schiena – in particolare quadricipiti, tricipiti, bicipiti, deltoidi, grandi dorsali, addominali, ischiocrurali e glutei – svolgono gran parte del lavoro più duro, spingendo in avanti la barca contro la resistenza implacabile di acqua e vento. Al tempo stesso, svariati muscoli più piccoli del collo, dei polsi, delle mani e perfino dei piedi sincronizzano in continuazione gli sforzi del corpo, garantendogli un bilanciamento costante per assicurare il delicato equilibrio necessario a mantenere stabile un’imbarcazione larga 60 centimetri, pressappoco quanto il girovita di un uomo. Il risultato di tutto questo sforzo muscolare, in grande e in piccolo, è che il corpo brucia calorie e consuma ossigeno a un ritmo che non ha eguali quasi in nessun’altra attività umana. Per l’esattezza, i fisiologi hanno calcolato che una gara di canottaggio di 2000 metri – lo standard olimpico – richiede lo stesso costo fisiologico di giocare due partite di basket consecutive. E lo richiede in circa sei minuti.
Un vogatore o una vogatrice in buone condizioni che gareggia ai massimi livelli deve essere in grado di incamerare e consumare fino a 8 litri di ossigeno al minuto; un uomo medio è in grado di incamerarne dai 4 ai 5 litri al massimo. In proporzione, i vogatori olimpici possono incamerare e processare tanto ossigeno quanto un purosangue da corsa. Va precisato che questo straordinario apporto di ossigeno è utile fino a un certo punto. Mentre il 75-80 percento dell’energia prodotta da un vogatore in una gara sui 2000 metri è energia aerobica alimentata dall’ossigeno, tutte le gare cominciano, e di solito terminano, con sprint durissimi. Questi scatti rendono necessaria una produzione di energia che eccede di gran lunga la capacità del corpo di generare energia aerobica, a prescindere dall’apporto di ossigeno. Pertanto, il corpo deve immediatamente produrre energia anaerobica. Questa, a sua volta, genera grandi quantitativi di acido lattico, che si accumula rapidamente nel tessuto muscolare. La conseguenza è che spesso i muscoli cominciano a fare un male terribile all’inizio di una gara e continuano fino alla fine. (pp.49-50)
O questa
La soffitta era luminosa e ariosa, con la luce del mattino che si diffondeva da una schiera di ampie finestre sulla parete in fondo. L’aria era densa della fragranza dolce e pungente di vernice marina. Sul pavimento c’erano cumuli di segatura e trucioli di legno. Una lunga trave a doppia T percorreva la stanza quasi in tutta la sua lunghezza, e sopra era appoggiata l’intelaiatura di un otto in costruzione.
Pocock si mise a spiegargli i vari attrezzi che usava. Gli mostrò le pialle, con i manici di legno usurati dai decenni di utilizzo e le lame talmente affilate e precise da affettare trucioli di legno sottili e trasparenti come carta velina. Gli porse una sfilza di vecchi raschietti, verrine, scalpelli, lime e mazzole che aveva portato con sé dall’Inghilterra. Alcuni, disse, avevano almeno un secolo. Spiegò che ogni tipo di strumento aveva molte varianti, che ogni lima, per esempio, era leggermente diversa dall’altra, che ciascuno aveva una funzione diversa ma erano tutti indispensabili per realizzare una barca di prima qualità. Condusse Joe a uno scaffale di legname e tirò fuori campioni dei diversi tipi di legno che usava: il Pinus lambertiana, morbido e malleabile; il duro peccio rosso; il cedro fragrante; il candido frassino bianco. Li tenne sollevati a uno a uno e li esaminò, rigirandoli tra le mani e parlando delle proprietà peculiari di ciascuno e di come servissero tutte le loro qualità individuali per costruire una barca da competizione capace di prendere vita in acqua. Afferrò una lunga asse di cedro da uno scaffale e fece notare gli anelli di accrescimento annuali. Joe aveva imparato parecchio sulle qualità del cedro e sugli anelli nel periodo passato a tagliare scandole con Charlie McDonald, ma era completamente assorbito mentre Pocock spiegava quel che significavano per lui.
Joe si accovacciò accanto al costruttore e lo ascolto con attenzione, studiando il legno. Pocock disse che gli anelli svelavano più della semplice età di un albero; ne raccontavano l’intera storia, che talvolta tornava indietro di duemila anni. La successione di anelli spessi e sottili rimandava ad anni difficili di dura lotta alternati ad anni prosperi di crescita improvvisa. I colori diversi rimandavano ai vari tipi di terreno e di minerali incontrati dalle radici: alcuni secchi, che ne avevano arrestato lo sviluppo, altri ricchi e nutritivi. I difetti e le irregolarità erano segno che gli alberi avevano sopportato incendi, fulmini, tempeste di vento e infestazioni, eppure avevano continuato a crescere.
Mentre Pocock parlava, Joe era incantato. Ad attrarlo non erano soltanto le parole dell’inglese o la sua cadenza schietta e soave, ma anche la pacata riverenza con cui parlava del legno, come se avesse qualcosa di sacro e inviolabile. Il legno, mormorò Pocock, ci insegna a sopravvivere, a superare le difficoltà, a vincere le avversità, ma ci insegna anche qualcosa sul motivo implicito della stessa sopravvivenza. Qualcosa sulla bellezza infinita, sulla grazia eterna, su cose più grandi e importanti di noi. Sui motivi per cui ci troviamo tutti qui.
«lo posso creare una barca, certo» disse. Poi aggiunse, citando il poeta ]oyce Kilmer: «”Ma solo Dio può creare un albero”». A quel punto tirò fuori una sottile lamina di cedro dello spessore di appena 9 millimetri e mezzo, di quelle che rivestivano le barche. Fletté il legno e disse a Joe di fare altrettanto. Parlò della bombatura e della vitalità che il legno impartiva a una barca quando era in tensione. Parlò della forza innata delle singole fibre di cedro che, abbinata alla loro resilienza, conferiva al legno la capacità di scattare e recuperare la forma, intero e intatto, o di come le fibre, esposte al vapore e alla pressione, potessero assumere una nuova conformazione e mantenerla per sempre. La capacità di cedere, di piegarsi, di mollare, di adattarsi, disse, talvolta era una fonte di forza anche per gli uomini oltre che per il legno, a patto che fosse governata da una fermezza interiore e da saldi principi.
Portò Joe a un’estremità della lunga trave a doppia T sulla quale stava costruendo l’intelaiatura per una nuova barca da competizione. Pocock scrutò la chiglia di legno per il lungo e invitò Joe a fare lo stesso. Doveva essere perfettamente rettilinea, spiegò, per tutti i suoi 18 e più metri, non un centimetro di differenza da un capo all’altro, altrimenti la barca non sarebbe mai andata dritta, una volta in acqua. E quella precisione poteva derivare soltanto dal suo costruttore, dalla cura con cui esercitava la sua arte, da quanto cuore vi metteva.
Pocock si interruppe, indietreggiò dall’intelaiatura e mise le mani sui fianchi, osservando con attenzione il lavoro compiuto sino ad allora. Disse che per lui l’arte di costruire una barca era come una religione. Non era sufficiente padroneggiarne i dettagli tecnici. Bisognava dedicarvisi spiritualmente, abbandonarvisi totalmente. Quando il lavoro era finito e ci si allontanava dalla barca, bisognava avere la sensazione di averle lasciato una parte di sé per sempre, un pezzetto del proprio cuore. Si rivolse a Joe. «Per il canottaggio» disse «vale lo stesso. E anche per molte cose della vita, perlomeno i momenti che contano davvero. Capisci cosa intendo, Joe?» Joe annuì con esitazione, un po’ nervoso e non del tutto convinto, poi tornò di sotto e riprese a fare gli addominali, sforzandosi di capirci qualcosa. (pp.259-261)
O questa
Anche Bobby Moch ebbe un’improvvisa rivelazione. Successe mentre sedeva all’ombra di un albero in un campo a Travers Island e apriva una busta. Conteneva una lettera del padre, quella che Bobby gli aveva chiesto, con gli indirizzi dei parenti che sperava di visitare in Europa. Ma conteneva anche una seconda busta sigillata sulla quale era scritto: «Leggila in privato». Ora, mentre sedeva allarmato sotto l’albero, Moch aprì la seconda busta e ne lesse il contenuto. Quando ebbe finito, aveva il viso rigato di lacrime.
La notizia era abbastanza innocua per gli standard del Ventunesimo secolo, ma considerando le tendenze sociali nell’America degli anni Trenta fu un profondo shock. Quando avesse incontrato i parenti in Europa, spiegò Gaston Moch al figlio, sarebbe venuto a sapere per la prima volta che lui e la sua famiglia erano ebrei.
Bobby rimase seduto a lungo sotto l’albero a meditare, non perché si era improvvisamente scoperto membro di quella che all’epoca era ancora una minoranza molto discriminata, ma perché, assimilando la notizia, aveva compreso per la prima volta l’atroce sofferenza che il padre doveva essersi portato dentro in silenzio per tutti quegli anni. Per decenni il padre si era convinto che per tirare avanti in America fosse necessario nascondere una parte fondamentale della sua identità ad amici, vicini di casa e perfino ai suoi figli. Bobby era stato educato a trattare gli altri sulla base delle loro azioni e del loro carattere, non di stereotipi. Era stato proprio il padre a insegnarglielo. Adesso era devastante scoprire che non si era sentito abbastanza al sicuro da seguire quel semplice suggerimento, che aveva tenuto dolorosamente nascosto il suo retaggio, come un segreto di cui vergognarsi, perfino in America, perfino con l’amato figlio. (pp.352-353)
O questa
Gli sembrò uno dei posti più pacifici che avesse mai visto.
Non poteva conoscere il segreto sanguinoso che si celava dietro Köpenick e le sue placide acque. (p.376)
L’indomani, dopo pranzo, i ragazzi gironzolarono per la città scherzando, curiosando nei negozi, usando le loro nuove macchine fotografiche, comprando qualche souvenir, esplorando angoli di Köpenick che non avevano ancora visto. Come gran parte degli americani a Berlino quell’estate, erano giunti alla conclusione che la nuova Germania fosse un luogo molto gradevole. Era pulita, la gente era fin troppo cordiale, tutto funzionava a dovere e con efficienza, e le ragazze erano carine. Köpenick era piacevolmente pittoresca; Grünau era verde, frondosa e con un fascino rustico. Erano cittadine amene e pacifiche quasi quanto quelle nello Stato di Washington.
Ma c’era una Germania che i ragazzi non potevano vedere, una Germania nascosta ai loro occhi, di proposito o per questioni di tempo. Non si trattava solo dei cartelli rimossi – FÜR JUDEN VERBOTEN, JUDEN SIND HIER UNERWÜNSCHT -, degli zingari radunati e portati via o del violento «Der Stürmer» ritirato dagli scaffali delle tabaccherie di Köpenick. C’erano segreti più grandi, oscuri e pervasivi tutt’intorno a loro. Non sapevano nulla dei rivoli di sangue che avevano macchiato le acque del fiume Spree e del Langer See nel giugno 1933, quando le squadre d’assalto delle SA avevano radunato centinaia di ebrei, socialdemocratici e cattolici di Köpenick, torturandone novantuno fino alla morte: ne avevano pestato qualcuno fino a spaccargli i reni o a squarciargli la pelle, poi avevano versato catrame rovente sulle ferite prima di gettare i corpi mutilati nei tranquilli corsi d’acqua della cittadina. Non potevano vedere il vasto campo di concentramento di Sachsenhausen in costruzione quell’estate a nord di Berlino, dove di lì a poco sarebbero stati rinchiusi oltre duecentomila ebrei, omosessuali, testimoni di Geova, zingari e infine prigionieri di guerra sovietici, civili polacchi e studenti universitari cechi, e dove decine di migliaia di loro avrebbero trovato la morte. (pp. 404-405)
O questa cronaca mozzafiato
Le barche si stavano avvicinando al segnale dei 500 metri, il primo quarto di gara, con Svizzera, Gran Bretagna e Germania in lotta serrata per la prima posizione, seguite a distanza da Stati Uniti e Italia. L’Ungheria era ultima. Eccetto i britannici, il gruppo di testa si stava avvicinando alla zona riparata a ridosso della sponda meridionale, dove l’acqua era quasi piatta. La barca americana aveva solo una lunghezza di ritardo ma era ancora nel punto più ampio del lago, in lotta contro il vento implacabile e massacrante, con l’acqua che schizzava dai remi a ogni rilascio. Un dolore lento e bruciante cominciò a pulsare nelle braccia e nelle gambe dei ragazzi, irradiandosi lungo la schiena. Molto lentamente iniziarono a perdere terreno. Ai 600 metri avevano una lunghezza e mezzo di ritardo. Agli 800 erano di nuovo ultimi. Le loro pulsazioni si alzarono a 160 o 170 battiti al minuto.
Nelle acque protette della seconda corsia, d’un tratto l’Italia rimontò e conquistò un leggero vantaggio sulla Germania. Mentre la prua della barca italiana superava il segnale dei 1000 metri a metà del tracciato, una campana informo gli spettatori al traguardo che i concorrenti si stavano avvicinando. Settantacinquemila persone si alzarono in piedi, e per la prima volta intravidero le barche che avanzavano verso di loro lungo la grigia distesa del Langer See come tanti ragni lunghi e sottili. Sulla balconata della Haus West, Hitler, Goebbels e Göring si premettero il binocolo contro gli occhi. Sulla balconata della rimessa lì accanto, Al Ulbrickson vide la Husky Clipper avanzare nella corsia più esterna accanto alla barca britannica. Alberi e edifici gli impedivano di vedere le corsie e le barche più vicine. Per un momento, dal punto in cui si trovava, sembrava che i suoi ragazzi e i britannici fossero soli al comando, in fuga. Poi sentì l’addetto stampa annunciare i parziali sui 1000 metri. La folla esplose. L’Italia era al comando, ma aveva un solo secondo di vantaggio sulla Germania, al secondo posto. La Svizzera era in terza posizione, a un secondo dalla Germania. L’Ungheria era quarta. La Gran Bretagna era finita in coda al gruppo, contendendosi sostanzialmente l’ultimo posto con gli Stati Uniti. I ragazzi di Ulbrickson avevano quasi cinque secondi di ritardo dal gruppo di testa.
[…]
Al segnale dei 1500 metri, la Germania riconquistò il primo posto superando l’Italia. Un altro enorme ruggito si levò dalla folla ormai vicina. Poi le grida si tramutarono in un coro – «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!» – sincronizzato con il ritmo della barca tedesca. In balconata, Hitler guardava da sotto la visiera del cappello e si dondolava avanti e indietro a tempo con la cantilena. Finalmente, Al Ulbrickson riuscì a vedere la squadra tedesca e quella italiana, che sfrecciavano a ridosso della sponda, chiaramente in testa, ma le ignorò e puntò gli occhi grigi sulla barca americana, all’estremità opposta del lago, cercando di leggere nella mente di Bobby Moch. Quella gara cominciava a somigliare a Poughkeepsie. Ulbrickson non sapeva se fosse un buon segno o un brutto segno.
[…]
Moch tornò a urlare: «Dobbiamo recuperare ancora una lunghezza, seicento metri!». I ragazzi si piegarono sui remi. La frequenza salì a trentasei, poi a trentasette. Quando il gruppo superò il segnale dei 1500 metri, la Husky Clipper era passata dal quinto al terzo posto. A riva, sulla balconata della rimessa, le speranze di Al Ulbrickson si riaccesero in silenzio vedendo la barca rimontare, ma la rimonta sembrò esaurirsi quando i ragazzi erano ancora lontani dalla testa della gara.
A 500 metri dal traguardo avevano ancora quasi una lunghezza piena di ritardo su Germania e Italia. Svizzeri e ungheresi avevano completamente mollato. l britannici stavano tornando all’attacco, ma anche questa volta Ran Laurie, con il suo remo a pala stretta, non aveva abbastanza presa sull’acqua per aiutare i compagni a contrastare il vento e le onde. Moch ordinò a Hume di aumentare appena la frequenza. Dalla parte opposta del campo, Wilhelm Mahlow, il timoniere della Germania, diede l’identico comando a Gerd Völs, il capovoga. Il trentenne Cesare Milani, sulla barca italiana, gridò la stessa direttiva al suo capovoga, Enrico Garzelli. L’Italia guadagnò qualche altro centimetro.
Mentre il Langer See si restringeva verso la dirittura d’arrivo, la Husky Clipper entrò in un punto più riparato dal vento, protetto sui due lati da alti alberi e edifici. La partita era aperta. Bobby Moch rimise il timone parallelo allo scafo, e finalmente la Clipper non ebbe più freni. Ora che il tracciato era lo stesso per tutti e Don Hume era di nuovo in vita, i ragazzi tornarono alla carica a 350 metri dal traguardo, recuperando il gruppo di testa un carrello dopo l’altro. A 300 metri, la prua della barca americana era quasi alla pari con quella tedesca e quella italiana. In prossimità degli ultimi 200 metri, i ragazzi passarono in testa di un terzo di lunghezza. Un fremito di apprensione scosse la folla.
Bobby Moch diede un’occhiata all’enorme cartello bianco e nero con la scritta ZIEL al traguardo. Si mise a calcolare quanto avrebbe dovuto chiedere ai ragazzi per essere sicuro di precedere le barche alla sua sinistra. Era tempo di cominciare a mentire.
Moch gridò: «Altri venti colpi!». Si mise a contarli: «Diciannove, diciotto, diciassette, sedici, quindici… Venti, diciannove…». Ogni volta che arrivava a quindici ripartiva da venti. Storditi, convinti di essere ormai giunti al traguardo, i ragazzi misero tutti se stessi in ogni palata, vogando come forsennati, impeccabili e straordinariamente eleganti. I remi si piegavano come archi, le pale entravano e uscivano dall’acqua pulite, lisce, efficienti, lo scafo unto d’olio di balena avanzava silenzioso tra un colpo e l’altro, la prua appuntita di cedro fendeva le acque scure, barca e uomini procedevano uniti, scattando furiosamente in avanti come una creatura vivente.
Poi entrarono in un mondo caotico. Erano in piena volata, vicino ai quaranta colpi al minuto, quando sbatterono contro un muro di suono. D’un tratto si trovarono di fianco alle enormi gradinate di legno sulla sponda nord del tracciato, a non più di tre metri dalle migliaia di spettatori che urlavano all’unisono: «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!». Il boato si rovesciò addosso ai ragazzi, riverberandosi da una sponda all’altra e soffocando del tutto la voce di Bobby Moch. Nemmeno Don Hume, che sedeva ad appena mezzo metro da lui, riusciva a capire cosa stesse sbraitando. Il rumore li assalì, li disorientò. Dall’altra parte del campo, la barca italiana tentò un’altra rimonta. Lo stesso fece quella tedesca, ed entrambe superarono i quaranta colpi al minuto. Guadagnarono faticosamente terreno, portandosi alla pari con gli americani. Bobby Moch li vide e gridò in faccia a Hume: «Accelera! Accelera! Dovete dare tutto quello che avete!». Nessuno riuscì a sentirlo. Stub McMillin non capiva cosa stesse succedendo, ma qualunque cosa fosse non gli piaceva. Lancio un’imprecazione nel vento. Neanche Joe sapeva cosa stesse succedendo, sentiva solo un dolore mai provato prima in barca: lame roventi penetravano nei tendini di braccia e gambe e fendevano la sua larga schiena a ogni colpo; ogni respiro disperato gli bruciava i polmoni. Fisso gli occhi sulla nuca di Hume e si concentrò sulla semplice, crudele necessità di dare un’altra palata.
Sulla balconata della Haus West, Hitler abbassò il binocolo lungo il fianco. […] Sulla balconata accanto, l’impassibile Al Ulbrickson era immobile e inespressivo, con una sigaretta in bocca. Era convinto che da un momento all’altro avrebbe visto Don Hume crollare sul remo. […]
Moch guardò a sinistra, vide i tedeschi e gli italiani tornare alla carica e capì che in qualche modo i ragazzi avrebbero dovuto aumentare ancora il ritmo e dare ancora più di quanto stavano dando, anche se sapeva che era già il massimo. Lo capiva dai loro volti, dalla smorfia contorta di Joe, dagli occhi sgranati e attoniti di Don Hume, che sembravano guardare oltre, verso un vuoto insondabile. Afferrò gli agugliotti di legno legati ai cavi del timone e cominciò a sbatterli contro le assi di eucalipto fissate ai due lati dello scafo. Anche se i ragazzi non potevano sentirlo, forse avrebbero avvertito le vibrazioni.
Le avvertirono. E ne colsero subito il significato: erano il segnale che avrebbero dovuto fare l’impossibile, aumentando ancora il ritmo. Da qualche parte, nel profondo, ognuno di loro si aggrappò agli ultimi brandelli di energia e volontà che non sapeva neppure di avere. l loro cuori pompavano a quasi 200 battiti al minuto. Erano andati oltre la spossatezza, oltre quello che i loro corpi avrebbero potuto sopportare. Il minimo errore di uno di loro avrebbe portato a prendere un granchio, e sarebbe stata una catastrofe. Nella grigia oscurità sotto le tribune piene di volti urlanti, le loro pale bianche guizzavano dentro e fuori dall’acqua.
Era un testa a testa, adesso. Sulla balconata, Al Ulbrickson spezzò in due la sigaretta con i denti, la sputò, saltò su una sedia e si mise a gridare a Moch: «Oral Ora! Oral». Da qualche parte una voce strillava isterica da un altoparlante: «ltalien! Deutschland! Italien! Achh… Amerika! Italien!». Le tre barche sfrecciarono verso la linea del traguardo, alternandosi al comando. Moch batté sulle assi di eucalipto più forte e più in fretta che poteva, sparando una raffica di colpi sulla poppa della barca come una mitragliatrice. Hume portò la frequenza sempre più in alto, finché i ragazzi non raggiunsero i quarantaquattro. Non avevano mai vogato così forte, non credevano nemmeno che fosse possibile. Passarono leggermente in vantaggio, ma gli italiani si avvicinarono di nuovo. I tedeschi erano alla pari con loro. «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!» rimbombava nelle orecchie dei ragazzi. Bobby Moch si mise a cavalcioni della poppa e si sporse in avanti, battendo il legno e gridando parole che nessuno poteva sentire. I ragazzi diedero un’ultima, potente palata e spinsero la barca oltre la linea. Nell’arco di un unico secondo tedeschi, italiani e americani tagliarono il traguardo.
[…]
Qualcuno sussurrò: «Chi ha vinto?». Roger Morris gracchiò: «Be’… noi… credo». (pp.420-426)
Che non può non richiamare alla memoria la mitica, indimenticabile telecronaca di Giampiero Galeazzi a Seul, 1988.
E infine questa nota personale dell’autore
Nell’agosto del 2011 andai a Berlino per vedere il luogo in cui i ragazzi avevano vinto l’oro settantacinque anni prima.
[…]
Mentre ero lì a guardare quei ragazzi, mi resi conto che settantacinque anni prima Hitler, osservando Joe e i compagni rimontare dal fondo del gruppo fino a superare Italia e Germania, aveva intravisto senza riconoscerli i segnali della sua condanna. Non poteva sapere che un giorno centinaia di migliaia di ragazzi come quelli, ragazzi che condividevano la loro stessa indole – onesti e modesti, non privilegiati né favoriti da qualcosa in particolare, semplicemente leali, impegnati e perseveranti -, sarebbero tornati in Germania con uniformi verde oliva per dargli la caccia.
Se ne sono andati quasi tutti, ormai, i tantissimi giovani che hanno salvato il mondo prima che io nascessi. Ma quel pomeriggio, sulla balconata della Haus West, provai un moto di gratitudine per la loro bontà e la loro grazia, per l’umiltà e l’onore, per la loro semplice civiltà e per tutte le cose che ci hanno insegnato prima di solcare le acque della sera e, finalmente, svanire nella notte. (pp.445-446)
È un libro di quelli che lasciano il segno, questo. Di quelli che li chiudi e poi ci mediti sopra. Di quelli che dopo un anno e dopo dieci ricordi perfettamente, e ricordi ogni singolo personaggio, ogni sua caratteristica, ogni suo segreto nascosto.
Ah, stavo quasi per dimenticare: in questo libro bisogna leggere anche i ringraziamenti; non lo faccio mai, ma qui bisogna proprio farlo, e se leggerete il libro e poi i ringraziamenti, capirete perché.
Daniel James Brown, Erano ragazzi in barca, Mondadori barbara
Ovvero il racconto di Emanuela parte seconda, dove però si racconta il prima, cioè come è nato tutto questo.
Terremoto del 2009 io e Fabrizio siamo due generosi e ci siamo messi in moto per raccogliere fondi per il piccolo paese di Lucoli che è a 14km dall’Aquila, dove i borghi erano distrutti e dove avevano predisposto tre tendopoli, parliamo di circa 900 abitanti.
Io mi occupo di project management, scrivo progetti, strutturandoli per fasi di avanzamento lavori, obiettivi e finalità, ho cominciato a lavorare con il sindaco per orientare la solidarietà che arrivava da ogni dove.
Abbiamo trovato i fondi per un poliambulatorio e per un Civil Centre (donazione di tre milioni di Euro). Però qualcosa non funzionava, tutto troppo lento, i soldi si perdevano in rivoli non identificati.
Degli amici di Roma ci hanno presentato il KKL abbiamo cominciato a pensare ad un memoriale alberato. Il sindaco (in fine mandato) ci indicò un’area di 6 ettari, una collina meravigliosa, ottenemmo la delibera politica. Cominciammo a progettare l’opera e per tale motivo venne un architetto da Gerusalemme che ospitammo in Abruzzo. Il progetto era singolare: gli alberi avrebbero disegnato il profilo delle antiche mura della Città dell’Aquila, che fu fondata su quattro quartieri
e uno di questi, fu fondato proprio dalla comunità di Lucoli (il paese che ora tributava, con il memoriale, l’omaggio ai morti del terremoto). Gli alberi prescelti erano ornielli, aceri montani, maggiociondoli.
Cambiò il sindaco e il nuovo, come accade nelle nostre realtà, non facilitò, ignorò e ci lasciò in balia di un Ufficio Tecnico insidioso e il risultato fu che ci chiesero circa 8mila Euro per la sdemanializzazione dell’area. Invece di essere aiutati visto che investivamo per la comunità.
Facemmo scrivere da un avvocato che rinunciavamo alla destinazione.
Mettemmo gli occhi su un bosco plurisecolare sempre nella zona, ma appartenente al clero, facemmo domanda, ma la politica del “o con noi o nulla” arrivò (si misero d’accordo i geometri dell’Istituto e del Comune) e ci chiesero 1000 Euro di fitto mensili per 3 ettari con querce di 300 anni. Declinammo, siamo una Onlus.
E così dopo un anno di lavoro e la maturata consapevolezza della melma imperante nelle amministrazioni locali, fummo accolti da un Parroco siciliano (anche lui non autoctono ed isolato), Abate di un’abbazia dell’anno mille, unico Signore anche del terreno circostante (per giurisdizione l’Abbazia è fuori anche dal controllo dell’Arcidiocesi dell’Aquila) ci diede 3mila metri.
Ma il progetto non poteva essere lo stesso: non più 309 alberi ma solo 70.
E così l’ordine degli agronomi di Roma predispose il progetto per i “frutti antichi”, un vivaista appassionato ricercatore di vecchie specie ci fornì le piante. Il costo del progetto, completamente autofinanziato, 13.000 Euro.
Questa immagine rappresenta il lay out attuale.
Abbiamo comunque bonificato un terreno incolto, lo abbiamo spianato e recintato.
La popolazione locale non ha accettato questo monumento verde visto che a Lucoli non c’erano state vittime per il sisma, non lo capiscono, gli alberi e l’ambiente non sono un valore ce ne sono tanti…..
Nessuno è profeta in patria.
Gli alberi sono adottati, l’astronauta Paolo Nespoli ha adottato un pero.
Molte le adozioni di stranieri: Lee Briccetti, ad esempio (Direttore della Poets House di New York) Leslie Korrick (professore dell’Università di Toronto), ogni albero ha la targa di riferimento di chi lo ha adottato.
Noi ci siamo trasformati in agricoltori, le piante ci tengono in catene, ma comunicano alle anime sensibili e ci chiedono di rinnovare in ogni momento della loro vita la custodia della memoria di quelle vite strappate dal terremoto orco. In un tempo contemporaneo centrato sui “flash” e sui “tweet” della vita questa nostra dedizione, continuata e ti assicuro sofferta, mi appare rivoluzionaria.
Abbiamo comunque un grande alleato: lo spirito di un antico eremita vissuto nel 1154 proprio nell’Abbazia circostante (per 25 anni, poi si ritirò nei boschi), San Franco è legato alle sorgenti e all’acqua, lui ci deve aver preso a benvolere….perché nel Giardino della Memoria non c’è acqua…..nessuno ci ha fatto un’utenza, ma le piante vegetano rigogliose! Nei momenti di grande caldo portiamo l’acqua con le cisterne.
Portiamo ogni tanto dei bimbi per fare attività didattica sul frutteto. Se la vedi te ne rendi conto subito: Emanuela è un caterpillar. Dolcissima, ma caterpillar, se decide di partire parte, se decide di arrivare arriva, e niente la può fermare (che fortuna averla incontrata!)
In quest’altra parte del parco si trovano cave che venivano usate per le sepolture da greci, sidoni ed idumei. Noi abbiamo visitato quella di Apollophanes,
capo della comunità sidonia. L’abbiamo raggiunta attraverso il solito paesaggio ricco di alberi,
abbiamo ascoltato le spiegazioni di Moti,
poi, attraverso questo passaggio
siamo entrati e abbiamo ammirato le decorazioni di cui la tomba è ricca, con animali sia reali che mitologici
(le foto dell’interno sono di Eyal).
La foresta di Baram si trova in Alta Galilea, nell’estremo nord di Israele, al confine col Libano.
Questa foresta è stata affidata all’Italia, ossia agli amici italiani del KKL che vi fanno piantare alberi alla memoria dei loro cari. Noi non abbiamo visitato la foresta, ci siamo solo fermati nella zona in cui sono le targhe con i nomi dei donatori che hanno contribuito con almeno 2000 euro (con una donazione di 10 euro si fa piantare un albero. È con questo sistema, con queste donazioni, che Israele è diventata l’unico Paese al mondo ad essere entrato nel XXI secolo con più alberi di quanti ne avesse all’inizio del XX), per recitare il kaddish (la preghiera per i morti) per la moglie di uno dei partecipanti al viaggio. Le foto che vedete qui di seguito le ho scattate intorno al punto in cui ci trovavamo.
barbara
La valle di Hula
si trova in Alta Galilea, nel nord di Israele, fra le alture del Golan a est, il monte Hermon a nord, i monti di Naftali a ovest e il mar di Galilea, o Kinneret (altrimenti conosciuto come lago di Tiberiade) a sud, ed è attraversata dal fiume Giordano, che del lago è immissario ed emissario.
Fino agli anni Cinquanta gran parte del terreno intorno al lago di Hula era paludoso; poi, come in tante altre parti di Israele, grazie al durissimo lavoro degli israeliani le paludi sono state drenate e il terreno reso coltivabile e abitabile. Noi abbiamo visitato una parte di questo paradiso a bordo di un carro dotato di tre file di sedili e aperto su un fianco, tirato da un trattore
– ma è possibile percorrere i sentieri della valle anche in bicicletta.
E dopo essere stati immortalati dalla nostra bellissima Martina,
siamo partiti.
Le foto sono quello che sono, essendo state prese al volo, sempre in movimento e senza il tempo di regolare le distanze. Scartate dunque le più storte, le più sfocate, le più disastrate (molte decine), cercherò di illustrare la valle con le foto un po’ meno storte, un po’ meno sfocate, un po’ meno disastrate. Insomma, accontentatevi.
Nel nostro giro abbiamo visto i campi coltivati,
grandi distese di prati, con o senza alberi,
canne palustri,
soprattutto in prossimità del lago e dei canali,
che percorrono la valle per un totale di cento chilometri, e i piccoli, graziosi ponti che uniscono le sponde. (continua)
barbara
Mettetevi per cinque minuti nei panni, o meglio nella corteccia, di un albero tagliato per produrre la carta delle schede elettorali su cui un esercito di ambientalisti apporrà una crocetta per esprimere il proprio incondizionato amore per la natura. Riuscite forse a immaginare un destino più cinico e baro di questo?!
Trovato in rete e piaciutomi un sacchissimo. barbara
Finita la guerra in Israele, le persone uscite dai rifugi erano alla ricerca di una risposta forte a Hamas, e hanno trovato quello che cercavano: Hamas voleva la morte, così hanno deciso di rispondere con la VITA! È iniziato un interessante progetto – ed è immediatamente partito in quarta, poiché il tempo è fondamentale.
Esattamente nelle aree in cui sono caduti oltre 1.000 razzi e missili, i contadini israeliani pianteranno 100.000 nuovi alberi da frutto! Cioè un rapporto di 100 a 1.
Molti di questi nuovi alberi di frutta saranno piantati proprio nelle buche fatte dai razzi!
Questa è una risposta positiva all’odio e alla distruzione!
Alberi da frutto significano nuova vita, sostentamento, cibo, bevande e benedizioni. Una coppa di vino per Shabbat, olio di oliva per accendere la Menorah e molto altro ancora.
Molte aziende agricole e vivai hanno dato a Zo Artzeinu alberi da piantare a credito, e gli agricoltori hanno fatto del lavoro straordinario per riuscire a piantare in tempo tutti gli alberi. Shmitta (l’anno sabbatico) inizia in Israele il capodanno ebraico Rosh Ha’Shanah (24 settembre), e per allora TUTTI gli alberi devono essere pagati.
La Torah lo dice molto chiaramente: “per sei anni puoi coltivare i tuoi campi… ma il settimo anno è uno Sabbath di Sabbath per la terra. È lo Sabbath di Hashem durante il quale non puoi coltivare tuoi campi…” (Vayikya / Levitico 25:3-4)
La più grande organizzazione in Israele per piantare alberi da frutto, “Zo Artzeinu” (ebraico per “Questa è la nostra terra”) condurrà questo progetto e assicurerà che tutto venga fatto correttamente.
I contadini israeliani hanno preparato il terreno e stanno facendo tutto il faticoso lavoro. Stanno facendo tutto il lavoro fisico, ma chiedono aiuto a tutto il mondo per l’acquisto degli alberi e del sofisticato sistema di irrigazione a goccia. Questo sistema è completamente computerizzato e utilizza una quantità di acqua minima per irrigare i campi.
Allora… fino a Rosh Ha’Shanah, è ANCORA possibile associarsi a un contadino, acquistare un albero da frutto e condividere il precetto e la benedizione di Shmitta, che avrà inizio a Rosh Hashana. Tutte le informazioni necessarie si possono trovare sul sito di Zo Artzeinu.
Oltre al precetto di Shmitta e all’aiuto agli agricoltori israeliani, questo progetto è anche un ottimo modo per portare benedizioni nella vostra vita!
Hashem promette di benedire chiunque aiuta ad osservare Shmitta, come si dice: Vitzivisi Et Birchasi, “destinerò la mia benedizione a voi” (Vayikra / Levitico 25: 20)
Infine, questo progetto non è solo una grande risposta ai nemici di Israele: è veramente il modo migliore per assicurare una pace duratura!
“Osservate i miei decreti e salvaguardate le Mie leggi. Se li osserverete, vivrete nella terra in modo sicuro. La terra produrrà il suo frutto, e voi mangerete a sazietà, vivendo così nella terra in sicurezza… Io dirigerò su di voi la mia benedizione…” (Vayikra / Levitico 25:18-21).
Auguriamo loro ogni bene per questo progetto di ricostruire la terra, piantare prima di Shmitta e portare una pace vera e duratura.
Per informazioni su questo progetto e su come piantare alberi, partecipare a Shmitta e condividere questa benedizione, andate al sito di Zo Artzeinu. (qui, traduzione mia)