IL PRESTIGIOSO PREMIO NOBEL

Quello che per la letteratura viene dato a Dario Fo e a Bob Dylan (e io ci metterei anche Quasimodo, che come “poeta” per me sta allo stesso livello di quei due, se non al di sotto). Quello che per la pace viene dato a una signora africana che ha piantato degli alberi (sic!) e che sostiene a spada tratta le mutilazioni genitali femminili. E a Barack Hussein Obama – preventivamente, cosa che non sta né in cielo né in terra, cioè praticamente glielo hanno dato perché è negro, altre spiegazioni non si trovano – il peggior nemico della pace mondiale dopo Hitler, che ha leccato il culo a tutti i peggiori fondamentalisti islamici e voltato il proprio, di culo, a tutti i più sinceri amici, che ha lasciato affondare e massacrare gli studenti dell’Onda Verde in Iran, al quale Iran ha regalato su un piatto d’argento la bomba atomica finalizzata a cancellare Israele dalla faccia della terra, che ha fatto scatenare le cosiddette primavere arabe con un bilancio, molto provvisorio, di molte centinaia di migliaia di morti. Eccetera. E al terrorista Arafat. E all’Onu, per le cui nefandezze non basterebbe un libro delle dimensioni di Guerra e pace, e, in particolare, nella persona di Kofi Annan. Ecco, quel premio Nobel lì. A chi sarà mai andato quest’anno quello per la letteratura?

Nobel a Gurnah contro il colonialismo. Quello europeo, non quello arabo

Il premio Nobel per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah. Nelle motivazioni c’è la sua “intransigente e compassionevole analisi” degli effetti del colonialismo. Di quale colonialismo si parla? Di quello europeo. Eppure il colonialismo arabo a Zanzibar, in 13 secoli, deportò 12 milioni di schiavi. 

Il premio Nobel 2021 per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah, residente dal 1967 in Gran Bretagna dove ha insegnato inglese e letterature post coloniali presso l’università del Kent fino alla pensione. Gurnah è autore di dieci romanzi e di diversi racconti e saggi. I suoi personaggi, spiega la fondazione Nobel “si trovano in uno iato tra culture e continenti, tra una vita che era e una vita emergente” con il merito di “rifuggire dalle descrizioni stereotipate” e di “aprire il nostro sguardo su un’Africa orientale culturalmente diversificata, sconosciuta a molti in altre parti del mondo”.

La fondazione Nobel ha ragione. Le coste e le isole dell’Africa orientale sono state nei secoli uno straordinario luogo di incontro di etnie, culture e religioni. In quelle del Kenya e del Tanzania è nata e si è sviluppata la società swahili, urbana, una delle poche realtà africane proiettate verso l’esterno, con regolari rapporti commerciali lungo l’Oceano Indiano, fino in Cina, già a partire dall’VIII Secolo, con una lingua antica come quella italiana. Che sia un “melting pot”, un crogiuolo di culture ed etnie, come sostengono alcuni antropologi è opinabile. L’evidenza, lì come in altri contesti, è piuttosto di una supremazia della componente più forte: in questo caso, imposta dalla popolazione arabo-islamica – i Waswahili – e subita dalle tribù bantu originarie e da ogni altra componente via via aggiuntasi, almeno finché la regione non è stata colonizzata da Gran Bretagna e Germania alla fine del XIX Secolo.

Abdulrazak Gurnah è nato nel 1948 a Zanzibar, l’isola da cui per secoli gli arabi, la cui colonizzazione del continente africano è iniziata subito dopo la morte di Maometto nel 632, hanno controllato le coste africane e gestito il commercio sia con l’interno del continente sia con i Paesi asiatici. Gli schiavi erano una delle merci: uomini, donne e bambini comprati o catturati, più di dodici milioni di persone nell’arco di 13 secoli. La tratta degli schiavi è stata proibita sulla costa swahili dalla Gran Bretagna all’inizio del XX Secolo, ma il risentimento, il desiderio di rivalsa delle popolazioni bantù è rimasto vivo. Non si spiega diversamente la feroce rivolta delle popolazioni bantu di Zanzibar che nel 1964, istigate da due partiti di ispirazione comunista (Che Guevara all’epoca si stava illudendo di fare dell’Africa il centro da cui iniziare la rivoluzione comunista mondiale), hanno ucciso da 5mila a 12mila Waswahili su un totale di 22mila. Abdulrazak Gurnah e i suoi famigliari sono tra i sopravvissuti che hanno lasciato l’isola non appena hanno potuto, finendo per ottenere asilo in Gran Bretagna.

Il protagonista di Paradise, il romanzo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico anglofono nel 1994, è un ragazzino venduto dal padre per pagare un debito. Descrive  una situazione comune un tempo. Di solito erano le famiglie bantu dell’entroterra swahili a vendere i figli, preferibilmente le femmine, in caso di necessità. Oppure, durante una carestia, scambiavano un figlio con del mais che ai Waswahili della costa non mancava mai. Forse è questo mondo che Gurnah racconta nei suoi libri, insieme alla sua personale esperienza di profugo. La fondazione del Nobel ha deciso di conferirgli il premio “per la sua intransigente e compassionevole analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”.

Ma quando, riferendosi all’Africa, si dice “colonialismo”, senza specificare, si intende sempre unicamente il colonialismo europeo, non altri, di cui si dimentica o si rifiuta di ammettere l’esistenza. Forse quindi alla fondazione Nobel, di Gurnah, è piaciuto che nei suoi libri descriva i traumi culturali e sociali prodotti dall’impatto con la società occidentale, non quelli patiti a causa della colonizzazione arabo-islamica che pure tante sofferenze ha inflitto e continua a infliggere in Africa, dove l’intolleranza islamica, combinata con il tribalismo, fa vittime e danni anche quando non assume i caratteri estremi del jihad. 

Quanto ai rifugiati e al loro destino, l’ammirazione per l’analisi “intransigente e compassionevole” contenuta nei libri di Gurnah sarebbe condivisibile se non fosse che, come ormai fanno in tanti, lui confonde rifugiati ed emigranti illegali. “L’Europa dovrebbe accogliere gli emigranti con compassione invece che fermarli con il filo spinato – ha detto all’agenzia di stampa Reuters che lo ha intervistato il giorno in cui ha vinto il Nobel – e attualmente il governo britannico si comporta in modo davvero molto brutto con i richiedenti asilo e con chi chiede di entrare nel paese”. Non è che Gurnah non capisca la differenza. Come tutti i sostenitori dei “porti aperti”, delle frontiere aperte la conosce e semplicemente non la accetta. “Sembra così sorprendente al governo britannico – dice – che della gente che arriva da luoghi difficili voglia venire in un paese ricco? Perché si meraviglia tanto? Chi non vorrebbe venire in un paese più prospero? C’è della cattiveria nella sua risposta”.

E, seduto nel suo giardino di Canterbury, all’ombra di un acero – così lo descrive Reuters – parla in toni lirici dell’esperienza di emigrare, di lasciarsi alle spalle la famiglia e una parte della propria vita per vivere in una nuova società in cui si sentirà sempre in parte un estraneo. 

Anna Bono, qui.

Anna Bono è stata ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino fino al 2015. Dal 1984 al 1993 ha soggiornato a lungo in Africa svolgendo ricerche sul campo sulla costa swahili del Kenya. Dal 2004 al 2010 ha diretto il dipartimento Sviluppo Umano del Cespas, Centro europeo di studi su popolazione, ambiente e sviluppo. Fino al 2010 ha collaborato con il Ministero degli Affari Esteri nell’ambito del Forum Strategico diretto dal Consigliere del Ministro, Pia Luisa Bianco. Collabora con mass media prevalentemente di area cattolica.

Già, toccare i responsabili del peggiore schiavismo, in atto ininterrottamente da quasi un millennio e mezzo; del peggiore stragismo, in atto ininterrottamente da quasi un millennio e mezzo; del peggiore colonialismo, che in quasi un millennio e mezzo ha ormai invaso circa un quarto del pianeta

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e che, a differenza del colonialismo europeo da un pezzo morto e sepolto, sta continuando tuttora a espandersi guadagnando quartiere dopo quartiere tutte le nostre principali città e capitali – toccare quelli, dicevo, provare a pestare i calli a quei signori lì, richiede coraggio, che il Nostro evidentemente non ha. Molto più facile prendere a schiaffoni chi ti ha accolto, in fuga dalla rabbia di coloro che la tua etnia aveva oppresso e sfruttato colonialmente per secoli; molto più comodo sputare sul piatto che ti è stato offerto quando non avevi niente; molto più redditizio mordere la mano che ti ha nutrito senza chiedere niente in cambio. Com’era quel vecchio proverbio? Quando la merda monta in scranno, o fa puzza o fa danno. Soprattutto quando viene addirittura messa sul piedistallo dal Merdaio Supremo.

barbara

E SE…

E se il lupo in quel momento si fosse realmente percepito come nonna, il cacciatore sarebbe comunque un salvatore o non piuttosto un perverso e pervertito nonnicida da sbattere in galera e buttare via la chiave?
E di quel principe che va in giro con la scarpa in mano a fare catcalling, ne vogliamo parlare?
E del body shaming sul brutto anatroccolo?
E dell’ambiguità allusiva della principessa sul pisello?
E del vergognoso sfruttamento della disabilità intellettiva del povero corvo da parte della volpe?

Queste e altre cazzate di moda al momento erano già state messe alla berlina, tanti anni fa, da uno spettacolare Ciccio Ingrassia:

Grazie a Enrico Richetti che ha ripescato questa chicca.

Ma ora basta con le favole, e passiamo alla drammatica realtà degli infami bianchi ricchi egoisti che lasciano morire i poveri negri africani.

No, il problema non è l’egoismo dei paesi ricchi: i governi africani lasciano scadere i vaccini anti-Covid

La causa Lgtb in Italia ha conquistato la scena, mettendo almeno momentaneamente in secondo piano altre battaglie. Così quasi nessuno si è accorto che diversi personaggi dello spettacolo oltre a Fedez sono scesi in campo in questi giorni in difesa di diritti secondo loro negati e torti da raddrizzare. Sono Fiorella Mannoia, Gerry Scotti, Giobbe Covatta, per citarne alcuni, che hanno aderito alla campagna lanciata da due organizzazioni non governative, Amref Italia e Auser, per garantire che l’Africa riceva quantità sufficienti di vaccini anti Covid-19.

Ben diversa è stata l’attenzione prestata negli Stati Uniti al concerto Vax Live, l’evento per un equo accesso ai vaccini in tutto il mondo ideato dall’organizzazione no profit Global Citizen e svoltosi il 2 maggio nel SoFi Stadium di Los Angeles, alla presenza di 10 mila spettatori tutti vaccinati. Hanno aderito all’iniziativa, tra gli altri, Jennifer Lopez, Ben Affleck, Sean Penn. In video sono arrivati messaggi dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, da Papa Francesco, dal presidente francese Emmanuel Macron e dal primo ministro canadese Justin Trudeau. “Dosi e dollari” per i paesi poveri era l’appello e sono stati raccolti 53,8 milioni di dollari che saranno consegnati al Covax, il programma per assicurare vaccini a tutti nei paesi a reddito basso e medio-basso grazie al dono di dosi e fondi da parte dei paesi ricchi.

Con la cifra raccolta a Los Angeles si potranno acquistare quasi 10,3 milioni di dosi di vaccino. Sembrano tanti, ma è una goccia nel mare. L’Oms calcola che al Covax servano da 35 a 45 miliardi di dollari per fornire tutti i vaccini necessari ai paesi poveri.

La sola Africa, dicono all’Onu, ha bisogno da 1,4 a 1,6 miliardi di vaccini a doppia dose. Tutti sembrano convinti che tocchi ai paesi ricchi provvedere e, siccome i Paesi africani dovrebbero almeno assumersi l’onere della somministrazione dei vaccini, al G20 riunitosi all’inizio di aprile Banca Mondiale e Fmi hanno proposto ai Paesi membri una moratoria sul loro debito estero. Da mesi Oms e ong lanciano allarmi “a non lasciare indietro l’Africa” e appelli ai ricchi del pianeta a non essere egoisti, nell’interesse di tutti.

Tuttavia, finora in Africa pare siano arrivate solo circa 30 milioni di dosi. All’incontro dei ministri degli esteri dei G7 svoltosi il 4 maggio a Londra il responsabile africano del programma vaccini, la dottoressa Ayoade Alakija, osservando che finora solo pochi africani sono stati vaccinati, ha chiesto che si intervenga immediatamente, che si dichiari lo stato di emergenza mondiale. Al ritmo attuale di somministrazione ci vorrebbero tre anni per vaccinare il 60 per cento della popolazione. Quindi è urgente che il Covax consegni ai governi africani tutti i 600 milioni di vaccini già messi in conto.

Se non che persino quei 30 milioni di dosi già distribuiti in realtà sono troppi. Si sta infatti verificando quello che poche inascoltate voci vanno dicendo da mesi e cioè che in Africa il problema non è la mancanza di vaccini, ma di personale e centri sanitari, di infrastrutture, di condizioni di sicurezza in cui operare, oltre che di ministeri e amministrazioni capaci di organizzare le campagne di prevenzione e intenzionati a farlo.

La Repubblica democratica del Congo, che ha 0,07 medici ogni mille abitanti e tutto l’est in mano a gruppi armati, ha ricevuto dal Covax 1,7 milioni di dosi di vaccino il 2 marzo scorso. Ha avviato il programma di vaccinazione il 19 aprile. Il 24 aprile aveva vaccinato solo 1.265 persone. Vista la situazione, il 27 aprile è stato annunciato il trasferimento del 75 per cento dei vaccini, 1,3 milioni di dosi, ad altri stati africani, tra cui Senegal, Togo e Angola, nella speranza che siano più efficienti, che riescano a utilizzare tutte le dosi prima che scadano evitando che vadano sprecate come è già successo altrove, ad esempio in Malawi e nel Sudan del Sud.

Il 15 aprile il Ministero della sanità del Malawi ha deciso di distruggere 16.440 dosi di vaccini anti Covid-19 perché sono scadute, non si è fatto a tempo a somministrarle. Si tratta di dosi ricevute dall’Unione Africana, 102.000 in tutto. Sono arrivate anche 530.000 dosi fornite dal Covax. Ma finora sono state vaccinate solo 300.000 persone. Il 26 aprile anche il Sudan del Sud ha fatto sapere di dover distruggere ben 60.000 dosi, scadute prima di poterle usare. A gennaio il Ministero della sanità sud sudanese aveva chiesto cinque milioni di dosi. Avrebbe dovuto avviare la campagna di vaccinazioni il 29 marzo, nella capitale Juba, usando le prime 132.000 dosi ricevute, ma per “ragioni logistiche” non meglio specificate ne ha rimandato l’inizio. Al momento sono stati vaccinati 4.000 operatori sanitari e alcuni anziani. Si teme che anche tutte le altre dosi ricevute non vengano usate prima che scadano il 18 luglio.

Secondo l’Oms altri Paesi africani tra cui il Ghana e la Sierra Leone hanno lasciato scadere una parte delle dosi ricevute. A tutti ha chiesto però di aspettare a distruggerle e altrettanto ha fatto il direttore dei Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie, John Nkengasong, secondo il quale i vaccini si possono ancora somministrare. “Quando si tratta di prodotti preziosi come i vaccini contro il Covid – ha spiegato il rappresentante dell’Oms per il Sudan del Sud, Wamala Joseph Francis – di solito si prende contatto con il produttore e si restituiscono i lotti scaduti affinché possa effettuare dei test, ad esempio per verificare per quanto tempo il vaccino rimane effettivamente stabile ed eventualmente prolungare la data di scadenza”. Ma sia il Sudan del Sud che il Malawi non hanno dato retta. Il ministro della sanità del Malawi Joshua Malango ha replicato che ormai le dosi sono state tolte dal ciclo del freddo e quindi sono comunque andate a male. Inoltre distruggerle è necessario per rassicurare la popolazione che non saranno usate, rivendute, riciclate nel mercato nero dei farmaci.

“Il ritardo dell’Africa mette milioni di vite in pericolo”, ha detto la dottoressa Ayoade Alakija al vertice G7. Intanto però l’Africa continua a essere il continente meno colpito dal Covid-19. Secondo i dati diffusi dall’Oms, il 4 maggio i casi accertati nell’Africa sub-sahariana (più della metà dei quali in Sudafrica) erano 3.325.467 e i morti 83.115: meno di quelli dell’Italia che ha superato i quattro milioni di casi e conta 121.738 morti. Sommando gli stati del Nord Africa, si sale a 4.627.444 casi e 123.210 morti).

È da considerare inoltre la situazione demografica del continente. Le persone a rischio di complicazioni se contraggono il coronavirus sono quelle anziane. È fondamentale che loro siano vaccinate. In Africa gli ultra sessantenni sono 73,5 milioni. Le persone di 65 anni e oltre sono 46,7 milioni. Per contro, gli africani giovani, di età compresa tra 0 e 19 anni sono 679 milioni, più di metà della popolazione (il totale è 1,34 miliardi). Quasi 200 milioni hanno meno di quattro anni, altri 181 milioni sono di età compresa tra 5 e 9 anni.
Anna Bono, 7 Mag 2021, qui.

E infine godiamoci questo Matteo Bassetti da Oscar.

barbara

L’ACCOGLIENZA È UN DOVERE?

O criminale complicità?

«Io scafista, come Mosè». Storie di trafficanti di uomini

È approdata il 25 gennaio ad Augusta, Sicilia, la nave Ocean Viking dell’ong Sos Mediterranée. Trasporta 373 emigranti illegali che avevano iniziato il viaggio via mare su quattro gommoni. Erano stati trasferiti a bordo della nave mentre si trovavano al largo delle coste libiche. Non si sa che ne sia stato dei gommoni e di chi li pilotava. Verosimilmente sono tornati in Libia dove organizzeranno nuove partenze. 

Quando si parla di immigrati illegali si trascura quasi sempre, almeno in Italia, di considerare il ruolo determinante delle organizzazioni criminali a cui almeno il 90 per cento degli emigranti ricorrono per compiere il viaggio e giungere a destinazione.

Molti sanno solo dell’esistenza degli scafisti che li imbarcano sulle coste africane e turche e li portano in Europa, senza rendersi conto che gli scafisti fanno parte di reti transnazionali complesse con decine di basi lungo rotte di terra che si estendono per migliaia di chilometri in quattro continenti e decine di migliaia di dipendenti con diverse mansioni: intercettare i potenziali clienti, negoziare con loro prezzo e modalità di pagamento, organizzare le varie tappe del viaggio, di paese in paese, di città in città, fino all’imbarco per effettuare la traversata del Mediterraneo o dell’Oceano Atlantico e, se necessario, al trasferimento nel paese europeo scelto come meta finale.

L’Ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) spiega che il contrabbando di uomini segue le stesse dinamiche di altri traffici criminali transnazionali e quindi prevede attività di promozione, di vero e proprio marketing per attirare clienti, convincerli a emigrare, dando rassicurazioni sul viaggio e sul suo esito, fornendo descrizioni seducenti dei vantaggi di vivere nel paese che propongono come meta. Di solito inoltre i trafficanti incaricati del primo contatto contano per guadagnare fiducia sul fatto di appartenere alla stessa etnia, alla stessa comunità degli emigranti.

Sono loro, i trafficanti, che incoraggiano a emigrare tanti giovani africani e asiatici descrivendo l’Eldorado che li attende oltremare, persuadendo le famiglie che il costo del viaggio vale la pena, che i dollari spesi saranno presto ricuperati e tanti ne frutteranno non appena il familiare arrivato in Europa incomincerà a spedire denaro.

L’Unodc stima che il traffico frutti fino a 10 miliardi di dollari all’anno e anche di più. Rende milionari i capi delle organizzazioni e assicura allettanti introiti a tutti. I viaggi infatti costano migliaia di dollari: cifre che variano in funzione della lunghezza del viaggio, delle difficoltà da superare, dal numero di frontiere che occorre attraversare, dai mezzi di trasporto impiegati, dalla quantità di documenti – di viaggio, matrimonio, lavoro, identità… – falsi, contraffatti o ottenuti in maniera fraudolenta e dal rischio più o meno elevato di intercettazione da parte delle forze dell’ordine degli stati attraversati. Inoltre gli importi variano in funzione delle caratteristiche degli emigranti, soprattutto della loro situazione economica. Chi dispone di più denaro può infatti assicurarsi viaggi più sicuri e comodi.

Data la natura clandestina dell’attività, i dati disponibili sono incompleti, molto resta da sapere. Dei trafficanti – chi sono, perché hanno scelto di diventarlo, dove e come vivono… – si sa ancor meno. I pochi che accettano di farsi intervistare, ovviamente sotto falso nome, si giustificano, pretendono quasi tutti di “aiutare il prossimo”. Kabir, un pakistano che da anni porta i suoi connazionali in Italia per circa 7.000 euro e ne tiene per sé da 3.000 a 4.500 dopo aver pagato i suoi vari collaboratori, si vanta: “Tutti vogliono andare in Italia. Io aiuto le persone, realizzo sogni”. Un trafficante siberiano, Alexsandr, dice di sé: “Mosè è stato il primo scafista della storia e io sono proprio come lui, come Mosè”.

Omar, un siriano, addirittura dice a DPA Reporter di fare due cose buone: aiuta la gente a vivere al sicuro in attesa che finisca la guerra in Siria e provvede come è suo dovere ai bisogni della sua famiglia. Ha 31 anni, è sposato e ha quattro figli. Prima faceva il muratore, ma ha perso il lavoro quando è scoppiata la guerra. Viveva in un villaggio vicino al confine con la Turchia e così ha deciso di entrare nel business dell’emigrazione illegale: “Ho una famiglia, nella mia situazione si è disposti a fare qualsiasi cosa per guadagnare”. Sa di svolgere una attività illegale, ma dice che, al confronto con altri trafficanti, lui e i suoi colleghi sono altruisti, brave persone perché chiedono meno – anche solo 150 dollari a persona mentre certi gruppi prendono da 500 a 800 dollari – i figli piccoli dei loro clienti non pagano e se qualcuno viene arrestato restituiscono il denaro.    

La sua è una piccola “azienda”. Sono in tutto sette, ciascuno con il proprio incarico e non c’è un capo. Spiega che in Siria i trafficanti hanno regole non scritte: ad esempio, “ogni gruppo ha le sue rotte. Non possiamo usare quelle degli altri”. Il loro compito finisce quando i clienti oltrepassano la frontiera e entrano in Turchia, mentre altri gruppi hanno dei corrispondenti in Turchia che si incaricano di portare gli emigranti in Germania, Svezia o in altri stati europei.

L’afghano Elham Noor, che porta in Italia, Francia e Gran Bretagna i propri connazionali, invece è stato a sua volta un emigrante illegale. Alla BBC racconta di aver pagato 5.000 dollari per farsi portare in Gran Bretagna. Mentre era a Calais, uno dei trafficanti gli ha proposto un affare: 100 euro per ogni emigrante che avesse messo in contatto con l’organizzazione. Lui ha accettato e così è iniziata la sua carriera di contrabbandiere di uomini. Adesso ogni cliente gli rende fino a 3.500 dollari, al netto delle spese. È tornato in Afghanistan dove il suo compito è procacciare i clienti. Ha molte richieste perché vanta un alto tasso di successi dato che lavora in una vasta organizzazione. Ammette i costi umani, le vittime in caso di naufragio, ma, dice, i clienti sanno che ci sono dei rischi a emigrare clandestinamente e poi il traffico rende davvero molto: 1.000 dollari per il viaggio dall’Afghanistan alla Turchia, poi 4.000 dalla Turchia alla Serbia e da lì altri 3.500 dollari per arrivare in Italia. In tutto 8.500 dollari.

Il suo lavoro consiste nel fare telefonate, organizzare i trasferimenti di denaro e pagare le mazzette alle autorità afghane. Al momento dell’intervista, realizzata a fine dicembre 2020, si stava occupando di un centinaio di clienti. “Mi scuso molto con i famigliari – dice – se un loro parente muore durante il viaggio. Ma lo dico fin dall’inizio che può succedere di tutto e loro accettano i rischi. Dio deciderà se perdonarmi o no”.

Anna Bono *, qui.

* Anna Bono è stata ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino fino al 2015. Dal 1984 al 1993 ha soggiornato a lungo in Africa svolgendo ricerche sul campo sulla costa swahili del Kenya. Dal 2004 al 2010 ha diretto il dipartimento Sviluppo Umano del Cespas, Centro europeo di studi su popolazione, ambiente e sviluppo. Fino al 2010 ha collaborato con il Ministero degli Affari Esteri nell’ambito del Forum Strategico diretto dal Consigliere del Ministro, Pia Luisa Bianco. (Avevamo già incontrato Anna Bono qui e qui)

E mi raccomando, impediteci con tutte le vostre forze di andare a votare, non sia mai che stupidi come siamo votiamo nel modo sbagliato e torni al governo quello cattivo sovranista populista fascista razzista sessista ambarabacicìcocòista che cerca di fermare questo scempio, compreso quello delle morti in mare.

barbara

ALLARME RAZZISMO!

Il continente in cui più africani sono vittime di razzismo è… l’Africa

L’ipocrisia dei funzionari africani dell’Onu che puntano il dito contro gli Usa, mentre sanno che in Africa il razzismo, istituzionalizzato, si esercita, e nel modo più doloroso, in tutte le sue accezioni. I diritti sono in parte determinati dallo status sociale, a sua volta definito da fattori ascritti: il sesso, l’età, oltre che la comunità di nascita. Lo status di donne e bambini è inferiore a quello degli uomini

Il 14 giugno 22 alti funzionari delle Nazioni Unite hanno scritto una lettera per esprimere la loro indignazione per il razzismo che continua a pervadere gli Stati Uniti e il mondo. “Dobbiamo a George Floyd e a tutte le vittime della discriminazione razziale e della brutalità della polizia di abbattere le istituzioni razziste – si legge nel testo dai toni ieratici, in cui Floyd è descritto come “un mite gigante che lotta disperatamente per la vita” – è nostro dovere parlare per chi non ha voce e pretendere risposte concrete che consentano di lottare contro il razzismo, una piaga globale persistente nei secoli”. Gli autori della lettera affermano che l’Onu deve fare di più per rimuovere “l’onta del razzismo sull’umanità: non si dirà mai abbastanza del profondo trauma e delle sofferenze intergenerazionali derivanti dall’ingiustizia razziale perpetrata nei secoli in particolare contro le persone di origine africana. Limitarsi a condannare le espressioni e gli atti di razzismo non è abbastanza. Dobbiamo andare oltre e fare di più”.

Si può eccepire in merito al linguaggio usato, dissentire da alcune affermazioni, ma non dalla sostanza del messaggio: il razzismo, nell’uso estensivo del termine che include qualsiasi discriminazione e ingiustizia basate su pregiudizi, è davvero una piaga, fa torto all’umanità e la umilia.

Però i 22 alti funzionari Onu che hanno firmato la lettera sono tutti africani e sarebbero stati credibili se, dimostrando senso di dignità e preoccupazione autentica, invece di puntare il dito contro “gli Stati Uniti e il mondo”, avessero ammesso che anche nel loro continente, i loro connazionali devono impegnarsi ad abbattere le istituzioni razziste: gli africani sono tra i più accaniti difensori addirittura del diritto di discriminare, ragione per cui l’Africa nei secoli è stata devastata dal tribalismo e lo è tuttora nello scontro politico spesso spietato ed estremo, fino al genocidio. Ostilità, diffidenza, disprezzo oppongono famiglie, lignaggi, clan, tribù, l’appartenenza per nascita è definitiva, l’identità individuale e collettiva si completano nella distanza sociale e nell’esclusione.

Poiché si stenta a riconoscere l’esistenza di diritti universali, in Africa i diritti ancora sono in parte determinati dallo status sociale, a sua volta definito da fattori ascritti: il sesso, l’età, oltre che la comunità di nascita. Lo status di donne e bambini è inferiore a quello degli uomini. Ne deriva che la loro vita e la loro volontà sono tenute in minor conto. Per questo sopravvivono, ostinatamente praticate, istituzioni nate per disporre della loro esistenza in funzione del bene collettivo, così come veniva inteso e tutelato nelle società tribali basate su economie di sussistenza: lavoro minorile, matrimoni combinati, matrimoni precoci, prezzo della sposa, mutilazioni genitali femminili… In Africa il razzismo, istituzionalizzato, si esercita in tutte le sue accezioni.

Così il posto al mondo in cui più africani sono vittime di razzismo, e nel modo più doloroso, è proprio l’Africa. Gli alti funzionari Onu della lettera contro il razzismo lo sanno: in particolare Adama Dieng, che è consigliere particolare del segretario generale dell’Onu per la prevenzione dei genocidi; Kingsley Mamabolo, capo delle operazioni Onu nel Darfur, dove la conflittualità tribale ha decimato la popolazione; Mankeur Ndiaye, rappresentante speciale del segretario generale Onu per la Repubblica Centrafricana, dove lo scontro etnico-religioso esploso nel 2012 ha rischiato di trasformarsi in pulizia etnica; Leila Zerrougui, capo della Monusco, l’interminabile, e apparentemente inutile, missione Onu di peacekeeping nella Repubblica democratica del Congo, dove i delitti coloniali di cui è accusato re Leopoldo del Belgio impallidiscono al confronto dei massacri e delle violenze attuali; e ancora, Phumzile Mlambo-Ngcuka, direttore esecutivo di UN Donne.

Quanto alla brutalità delle forze dell’ordine, non c’è stato africano in cui i cittadini si sentano al sicuro. Gli alti funzionari dell’Onu sanno anche questo. Uno dei firmatari è Zainab Hawa Bangura, direttore generale dell’ufficio Onu in Kenya. Proprio in Kenya, da quando il 25 marzo il governo ha adottato misure per contenere l’epidemia, la polizia ha ucciso 15 persone e ne ha ferite 31 a colpi di arma da fuoco: per far rispettare il coprifuoco ha sparato ad altezza d’uomo. Sempre in Kenya, l’agenzia di stampa The New Humanitarian il 16 giugno ha pubblicato un reportage intitolato “I civili nel nord est colpiti sia dai jihadisti che dallo stato”. L’articolo inizia riportando la testimonianza di una donna: “Mio marito è stato ucciso dagli al-Shabab (jihadisti somali, ndr), mio cognato dalle forze di sicurezza. Siamo vittime di entrambi”. Il reportage prosegue spiegando che la gente ha paura del governo, da anni denuncia violenze da parte delle forse di sicurezza. Una inchiesta condotta nel 2016 nel Wajir, al confine con la Somalia, ha scoperto che, a partire dal 2015, 34 persone, tra cui due donne, erano scomparse ed erano stati rinvenuti i cadaveri di almeno 11 persone: tutte erano state viste per l’ultima volta mentre erano sotto custodia della polizia. Da allora sequestri e omicidi sono continuati.

Tra le vittime della polizia che in Kenya ha ucciso per far rispettare il coprifuoco c’è anche un bambino di 13 anni, Yassin Hussein Moyo, colpito a morte nella capitale Nairobi. Nessuno in Africa si è inginocchiato per piangere il piccolo Yassin o altre vittime della brutalità delle forze di sicurezza e per invocare giustizia.

Anna Bono, 19 Giu 2020, qui.

Anna Bono è stata ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino fino al 2015. Dal 1984 al 1993 ha soggiornato a lungo in Africa svolgendo ricerche sul campo sulla costa swahili del Kenya. Dal 2004 al 2010 ha diretto il dipartimento Sviluppo Umano del Cespas, Centro europeo di studi su popolazione, ambiente e sviluppo. Fino al 2010 ha collaborato con il Ministero degli Affari Esteri nell’ambito del Forum Strategico diretto dal Consigliere del Ministro, Pia Luisa Bianco. (Avevamo già incontrato Anna Bono qui)

Una volta, all’università di Mogadiscio, mi è capitato di dire in classe che siamo tutti uguali. Si sono incazzati da bestie: “Se Allah voleva che fossimo uguali ci faceva uguali; se ci ha fatti di colori diversi vuol dire che voleva che si vedesse ben chiaro che siamo diversi”. Per inciso detestavano i masai, che chiamavano negri, perché i masai sono più scuri dei somali. Ma andatelo un po’ a raccontare ai “progressisti” che esistono persone diversamente buone anche al di fuori della razza bianca e della cultura occidentale. O che l’islam ha fatto più morti di nazismo e comunismo messi insieme. Più sono aggrappati come piovre ai loro pregiudizi e più si sentono progressisti.

barbara

MIGRANTI LA PAROLA ALL’ESPERTA

Anna Bono è stata docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’università di Torino.

“Bisogna scoraggiare gli africani a emigrare, ecco perché…“ – Anna Bono, africanista, svela verità scomode sulle migrazioni di massa, danno per tutti i popoli

Che i fenomeni migratori di questi anni dall’Africa rappresentano un dramma è ormai comprovato. Masse di persone si avventurano in viaggi disperati, affrontano lunghi e impervi percorsi a piedi, si riversano su barconi alquanto precari e, quando non finiscono negli ostili centri libici o inghiottiti dalle acque del Mediterraneo, giungono a destinazione senza trovare quell’Eldorado che avevano sognato. Ma se queste ondate migratorie svantaggiano i Paesi di emigrazione, quelli di immigrazione e soprattutto i migranti, bisognerebbe forse intervenire per porre un argine. Ma come? In Terris ne ha parlato con la prof.ssa Anna Bono, africanista ed ex ricercatore in Storia delle Istituzioni dell’Africa all’Università di Torino, autrice del saggio Migranti!? Migranti!? Migranti!? (ed. Segno, 2017). Secondo lei, per affrontare la questione, è fondamentale anzitutto sgombrare il campo dell’analisi da alcuni falsi miti che aleggiano ancora intorno a questo fenomeno.

Prof.ssa Bono, anzitutto chi sono gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa?
“Per lo più, oltre l’80 per cento, sono giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di Paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da Paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana…”.

Mediamente qual è la condizione sociale di queste persone?
“Non è facile dirlo perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il Paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi”.

E allora come matura l’idea di emigrare, se non si è in condizioni di povertà e non si vive in zone di conflitto?
“Per rispondere ritengo importante citare il ministro dei Senegalesi all’Estero, che un paio d’anni fa ha detto in un’intervista: ‘Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più’. L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici”.

Come si alimenta questa illusione?
“Ad alimentarla sono vari fattori. Uno su tutti: i trafficanti, che come è noto gestiscono la gran parte dei viaggi verso l’Europa. Sono loro che rafforzano questa idea, lo fanno ovviamente per procurarsi clienti. È utile sottolineare che il 13 giugno è stato pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) un rapporto dal quale emerge che nel 2016 queste organizzazioni criminali hanno trasportato almeno 2,5milioni di persone, delle quali quasi 400mila verso l’Italia, ricavandone in tutto da 5,5 a 7 miliardi di dollari. Il rapporto spiega dettagliatamente come funziona l’avvicinamento ai clienti, l’opera di convincimento, nonché quali sono le varie tariffe”.

Esiste però un’opera di dissuasione da parte di chi è già arrivato in Europa e si è reso conto che il “Bengodi” era un’illusione?
“Al contrario, chi arriva in Europa per lo più non fa altro che alimentare verso i propri parenti e amici in Africa l’idea che sia giunto ad un traguardo per cui vale la pena spendere e rischiare. La tendenza è quella di descrivere situazioni positive, anche quando non lo sono, per giustificare la propria scelta. Ma va detto che spesso, in effetti, chi arriva non ha nulla di cui lamentarsi: siccome quasi tutti chiedono e ottengono asilo, almeno nei primi anni godono di un sistema di protezione e di assistenza da far invidia a chi non è ancora partito”.

D’accordo, ma le notizie delle traversate nel deserto, dei campi di detenzione libici, delle tragedie nel Mediterraneo non dovrebbero rappresentare un deterrente nei confronti di chi vuole partire?
“Il punto è che queste situazioni le conosciamo più noi che loro. L’accesso ai mezzi d’informazione degli africani, anche di coloro che vivono nelle città, è molto limitato. Detto ciò, molti conoscono i rischi e sono disposti ad accettarli, così come non si può escludere che molti altri, magari in un primo momento intenzionati a partire, desistano proprio alla luce di queste tragedie. A tal proposito vorrei sottolineare l’importanza del lavoro di controinformazione che stanno svolgendo alcuni soggetti in Africa”.

Prego…
“Alcuni governi, così come molte conferenze episcopali africane, si stanno spendendo per spiegare ai giovani quanto costa, quanto si rischia e quanto poco si ottiene nel lungo periodo ad emigrare in Paesi dove non c’è occupazione né possibilità concreta di integrazione economica e sociale”.

Quali governi stanno svolgendo questo lavoro?
“Quello del Senegal, del Niger, dal 2014 anche quello del Mali, il quale sta facendo una forte propaganda per dimostrare che un Paese dal quale emigrano i suoi cittadini più giovani e forti non crescerà mai. E ancora: quello della Sierra Leone a partire dall’anno scorso e in collaborazione con le autorità religiose, sia quelle cristiane che islamiche. Sono piccoli passi in avanti che incoraggiano i giovani non a fuggire ma a restare per migliorare il proprio Paese”.

E i rifugiati? Qual è il loro numero esatto?
“L’ultimo rapporto dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parla di oltre 60milioni di profughi in generale. Se poi parliamo di rifugiati, ovvero di persone che fuggono all’estero da guerre e persecuzioni, la cifra è di circa 20milioni. Di questi soltanto una minoranza esigua arriva in Italia, chiede asilo e lo ottiene: per quantificare, nel 2015 sono stati 3.555, nel 2016 4.940 e nel 2017 6.578”.

Perché sono così pochi? L’idea diffusa è che i conflitti siano la principale causa delle emigrazioni…
“Perché la maggior parte di chi fugge da una guerra trova asilo appena varca il confine, del resto la Convenzione di Ginevra prevede che il profugo chieda tempestivamente asilo nel primo Paese che ha firmato la Convenzione in cui mette piede. C’è poi un secondo motivo: chi fugge sotto la minaccia di persecuzione e di guerra cerca di rimanere il più vicino a casa perché l’idea è quella di tornarci il prima possibile”.

Quanto incide sull’emigrazione anche lo sfruttamento delle risorse? Penso ad esempio al land grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di Paesi stranieri o industrie…
“Sicuramente sono fattori che hanno una loro incidenza. Le responsabilità vanno trovate anzitutto nei governi africani, i quali – per restare al tema del land grabbing – preferiscono vendere le terre ad industrie o a Paesi che hanno fame di terre coltivabili (Cina, India, Arabia Saudita) incassando subito del denaro piuttosto che incentivare l’agricoltura locale anche tramite investimenti. L’Africa è ricca di risorse minerarie, penso al cobalto ma soprattutto al petrolio, il quale viene acquistato e pagato dalle compagnie, ma il problema è capire dove vanno a finire i soldi”.

Dove?
“Le do un dato: nel 2014 su 77miliardi di dollari che avrebbe dovuto incassare l’ente nazionale del petrolio nigeriano, 14 non sono mai stati depositati. Sono finiti in qualche conto corrente, mentre sarebbero dovuti servire per lo sviluppo sociale del Paese. La Nigeria, pur essendo il primo produttore di petrolio del Continente, importa il greggio già raffinato dall’estero. Tenga conto che l’Africa da oltre 20 anni registra una crescita economica notevole, e in prima fila ci sono i Paesi da cui proviene la maggior parte dei migranti, solo che queste risorse vengono dilapidate o se ne giovano poche elite”.

Al recente Consiglio europeo gli Stati si sono impegnati a contribuire ulteriormente al Fondo Ue per l’Africa inviando altri 500milioni. È un modo per “aiutarli a casa loro” o per alimentare la corruzione di cui ha parlato?
“Questi 500milioni sono un ulteriore quantitativo, che si aggiunge ai miliardi che ogni anno vengono destinati all’Africa dalla cooperazione allo sviluppo di Stati Uniti ed Europa. Infatti quando sento invocare un ‘piano Marshall’ per l’Africa resto basita, perché di risorse ne vengono già inviate in modo ingente, ma i destinatari, cioè i governi, sono poco affidabili. Le faccio un esempio: in Somalia, che è uno dei Paesi maggiormente assistiti, la Banca mondiale qualche anno fa ha dimostrato che ogni 10dollari che vengono elargiti al governo, 7 spariscono nel nulla”.

Lei ha citato la Somalia, dove forte è la presenza del radicalismo islamico: è possibile che questi soldi che spariscono nel nulla finiscano ad arricchire i gruppi jihadisti?
“Eh, chi lo sa… Certo è che questi gruppi hanno fonti di reddito molto robuste e sponsor molto potenti. Inoltre sono spesso invischiati in traffici illegali: spaccio di droga, di armi, bracconaggio. Anni fa si è scoperto che gli Al Shabaad della Somalia ottengono circa il 40 per cento dei proventi dalla vendita di zanne di elefante. Consideri che in Kenya c’è un detto: ‘Oggi è stato ucciso un elefante, domani sarà ucciso un uomo’, proprio per sottolineare la correlazione tra bracconaggio e terrorismo”.

Una ricerca delle Nazioni Unite rivela che nel 2050 ci sarà un’ulteriore crescita demografica dell’Africa e un declino dell’Occidente. L’immigrazione di massa non sarà sempre più un fenomeno ineluttabile?
“Anzitutto si tratta di proiezioni, non di dati certi. Non è affatto detto che tra trent’anni la situazione rimarrà la stessa di oggi in termini demografici. Delle buone politiche familiari e un cambio culturale potrebbero invertire la tendenza demografica in Occidente, così come è possibile in primo luogo che la popolazione africana non aumenterà come l’Onu prevede (già si registra una piccola variazione verso il basso rispetto ai pronostici di pochi anni fa) e poi che l’Africa diventi finalmente un continente in grado di svilupparsi e di convincere i propri giovani a non fuggire alimentando i traffici clandestini di migranti”.

Parlando di Italia, come valuta le recenti polemiche tra il governo italiano e le ong?
“A mio avviso il modus operandi di molte ong è molto discutibile, perché entrano in contatto diretto con i trafficanti e prevedono il trasbordo quasi in acque territoriali libiche per poi dirigersi verso l’Italia, anche se battono bandiera di un altro Stato e se il porto più vicino sarebbe altrove. Già il precedente governo, con il ministro Minniti, aveva sollevato il problema e aveva pensato di prendere provvedimenti. Il nuovo governo si sta dimostrando solo più determinato, ma l’intento è rimasto quello di far rispettare la sovranità nazionale e le leggi internazionali”.

Non c’è il rischio, per mutuare il motto di una recente iniziativa, che chiudendo i porti “non si resti umani”?
“L’Europa in generale, ma nello specifico l’Italia sono molto lontane dalla fase più prospera della loro storia: gli ultimi dati ci parlano di 5milioni di italiani in povertà assoluta e centinaia di migliaia di italiani emigrano all’estero, l’Italia è 20esima tra i Paesi di emigrazione. In questa situazione, è solo giusto impedire a delle persone di raggiungere un Paese che può assisterli nel breve periodo, ma che non è in grado di garantire loro un futuro dignitoso. Chi arriva dall’Africa in Italia ha remotissime possibilità di costruirsi una vita: il più delle volte è destinato a vivere di espedienti, a lavorare in nero e in condizioni disumane magari in qualche campo di pomodori oppure ad ingrossare le fila della criminalità organizzata”.

Chiudere i porti dunque può essere un modo per scoraggiare i viaggi clandestini?
“Esattamente. È importante che si alimenti il passaparola tra migranti stessi. Esistono tantissime testimonianze di giovani che hanno iniziato il viaggio verso l’Europa ma che non sono riusciti ad arrivare a destinazione, i quali affermano che se lo avessero saputo non avrebbero speso soldi e sprecato anni della propria vita per un’impresa così aleatoria. L’unico modo per scoraggiare questi progetti senza futuro è proprio quello di dimostrare che il viaggio della speranza è un’illusione, che a destinazione non si arriva: e chiudere i porti è il messaggio più netto che possa giungere”.

Federico Cenci, 11 luglio 2018, qui.

Chiudo con alcune considerazioni mie.

  1. I fautori della cosiddetta accoglienza sono come i novax: “salvi” un bambino dal vaccino, lui ne infetta dieci e uno di quei dieci muore; “salvi” cento migranti, dietro a loro, sapendo che si viene “salvati”, ne partono altri diecimila e mille di loro muoiono (gli altri invece arrivano qui e vanno a raccogliere pomodori – per fare contenta la signora Bonino – a mezza lira al giorno per orari massacranti, o trovano accoglienza fra i boss della droga e criminalità varie miste. Poi magari la droga te la viene a chiedere una ragazzina di diciotto anni sbandata problematica forse un po’ fuori di testa e tu la torturi, la stupri, l’ammazzi e poi la fai in venti pezzettini, che a te la carne piace alla tartara, lo sappiamo).
  2. I fautori dell’accoglienza sono DI FATTO, come ha spiegato Kawtar Barghout, complici dei trafficanti di carne umana: qualunque favola bella vi raccontiate per sentirvi moralmente superiori, cari signori, LE VOSTRE MANI SONO SPORCHE DI SANGUE.
  3. Accoglienza delenda est. Andrebbe ripetuto come quella di Cartagine, alla fine di ogni discorso, sistematicamente, a proposito e a sproposito: accoglienza delenda est. Se non siete d’accordo siete complici dei trafficanti di carne umana e le vostre mani sono sporche di sangue.

barbara