COME AMPIAMENTE PREVISTO,

dopo quattro anni di sostanziale pace in Medio Oriente, ecco che in meno di tre settimane…

La spinta di Biden alla guerra in Medio Oriente

Lunedì, l’Iran ha testato un nuovo razzo . Il razzo Zuljanah è un razzo a tre stadi di 25 metri (82 piedi) con un motore a combustibile solido per i primi due stadi e un razzo a combustibile liquido per il terzo stadio. Può trasportare un carico utile di 225 kg (496 libbre).
La spinta dello Zuljanah è di 75 kilotoni, che è molto più di quanto richiesto per lanciare il satellite in orbita. La grande spinta rende lo Zuljanah più paragonabile a un missile balistico intercontinentale che a un veicolo di lancio spaziale. L’ICBM terrestre statunitense LGM-30G Minuteman-III, ad esempio, ha una spinta di 90 kilotoni. Lo Zuljanah può raggiungere un’altezza di 500 chilometri per l’orbita terrestre bassa o, se lanciato come un missile, la sua portata è di 5.000 chilometri (3.100 miglia), abbastanza lontano per raggiungere la Gran Bretagna dall’Iran.
Esperti missilistici israeliani stimano che l’Iran abbia pagato 250 milioni di dollari per sviluppare il progetto Zuljanah. Il solo lancio del razzo di lunedì è costato probabilmente decine di milioni di dollari.
L’Iran è oggi in profonda difficoltà economica. Tra la recessione globale del COVID-19, la corruzione e la cattiva gestione endemiche dell’Iran e le sanzioni economiche statunitensi, il 35% degli iraniani oggi vive in condizioni di estrema povertà. Il rial iraniano ha perso l’80% del suo valore negli ultimi quattro anni. I dati ufficiali collocano il tasso di disoccupazione al 25%, ma si ritiene che il numero sia molto più alto. L’anno scorso l’inflazione è stata complessivamente del 44%. I prezzi del cibo sono aumentati del 59%.
Se visto nel contesto dell’impoverimento dell’Iran, l’investimento del governo in un programma di missili balistici intercontinentali è ancora più rivelatore. Con il 35% della popolazione che vive in condizioni di estrema povertà e il prezzo del cibo in forte aumento, il regime ha scelto i missili balistici intercontinentali anziché nutrire la sua gente.
La maggior parte della copertura mediatica del lancio di Zuljanah non ha registrato l’importanza del progetto sia per quanto riguarda le capacità dell’Iran sia per ciò che rivela sulle intenzioni del regime. Invece, la copertura si è concentrata sulla tempistica del test. Gli iraniani hanno condotto il test mentre violano clamorosamente i limiti delle loro attività nucleari che hanno accettato quando hanno sottoscritto l’accordo nucleare del 2015.
Gli iraniani stanno ora arricchendo l’uranio al 20% di purezza, ben oltre il 3,67% consentito dal cosiddetto Piano d’azione globale comune (JCPOA). Stanno usando centrifughe avanzate proibite per l’arricchimento a cascata nel loro impianto nucleare di Natanz. Stanno iniziando le cascate di uranio con centrifughe di sesta generazione nel loro reattore nucleare sotterraneo di Fordo in totale sfida al JCPOA. Stanno accumulando scorte di uranio giallo ben oltre le quantità consentite dall’accordo. Stanno producendo uranio metallico in violazione dell’accordo. E stanno facendo lanci di prova con razzi che possono essere facilmente convertiti in missili balistici intercontinentali nucleari.
Il reportage sul nucleare aggressivo iraniano lo ha presentato nel contesto della nuova amministrazione Biden a Washington. Si sostiene che l’Iran stia adottando questi passi aggressivi per fare pressione sull’amministrazione Biden affinché mantenga la sua parola di far tornare gli Stati Uniti al JCPOA e abrogare le sanzioni economiche contro l’Iran. Nel 2018, l’allora presidente Donald Trump ha abbandonato il JCPOA e ha reintrodotto le sanzioni economiche che erano state abrogate nel 2015 con l’attuazione dell’accordo. L’idea dell’Iran è che per paura dei suoi rapidi progressi nucleari, il team di Biden si precipiterà a compiacere l’Iran.
In particolare, il test di Zuljanah ha messo in luce la follia strategica al centro dell’accordo, che è stato concepito, portato avanti e concluso dall’allora presidente Barack Obama e dai suoi consiglieri.
Il principale presupposto strategico che ha guidato Obama ei suoi consiglieri era che l’Iran fosse una potenza stabile e responsabile e dovesse essere visto come parte della soluzione – o “la soluzione” – piuttosto che del problema in Medio Oriente. La sponsorizzazione del terrorismo da parte dell’Iran, le sue guerre per procura e il suo programma nucleare, secondo Obama, erano spiacevoli conseguenze di un equilibrio di potere regionale che metteva troppo potere nelle mani degli alleati degli Stati Uniti – in primo luogo Israele e Arabia Saudita – e troppo poco nelle mani dell’Iran. Per stabilizzare il Medio Oriente, sosteneva Obama, occorreva potenziare l’Iran e indebolire gli alleati degli Stati Uniti. Come disse l’allora vicepresidente Joe Biden nel 2013, “Il nostro problema più grande erano i nostri alleati”.
Un nuovo equilibrio di potere, sosteneva Obama, rispetterebbe le “azioni” dell’Iran in Siria, Iraq, Libano e Yemen. Quanto al programma nucleare, che era illegale ai sensi del Trattato di non proliferazione nucleare, firmato dall’Iran, era del tutto comprensibile: dato che Pakistan, India e presumibilmente Israele hanno arsenali nucleari, hanno detto i consiglieri di Obama, il desiderio dell’Iran di costruirsene uno era ragionevole.
Con questa prospettiva che informa i suoi negoziatori, la legittimazione da parte del JCPOA del programma nucleare iraniano ha un senso. Lo scopo dell’accordo non era impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare, bensì “bilanciare” Israele delegittimando qualsiasi azione israeliana per impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare.
Mentre Israele e gli altri alleati dell’America sarebbero stati gravemente danneggiati da questo nuovo equilibrio di potere, Obama ei suoi partner europei hanno valutato che sarebbero stati più sicuri. Erano convinti che una volta al sicuro nella sua posizione di egemone regionale, l’Iran li avrebbe lasciati in pace. [Indubbiamente: lasciamogli rimilitarizzare la Ruhr e lui ci lascerà in pace, lasciamogli prendere l’Austria e lui ci lascerà in pace, lasciamogli prendere mezza Cecoslovacchia e lui ci lascerà in pace, lasciamogli prendere l’altra mezza Cecoslovacchia e lui ci lascerà in pace… E mi raccomando: che non ci venga in mente di voler morire per Danzica]
L’accordo rifletteva questa visione. Una clausola non vincolante del JCPOA chiedeva all’Iran di limitare la portata dei suoi missili balistici a 2.000 chilometri (1.240 miglia), che teneva gli Stati Uniti e la maggior parte dell’Europa fuori portata.
Molti commentatori considerano l’amministrazione Biden nient’altro che il terzo mandato di Obama. E dal punto di vista delle sue politiche iraniane, questo è certamente il caso. La politica iraniana del presidente Joe Biden è stata concepita e viene attuata dalle stesse persone che hanno negoziato il JCPOA sotto Obama.
A parte lo stesso Obama, il funzionario più responsabile del JCPOA è stato Rob Malley, che ha guidato i negoziati con l’Iran. In un articolo dell’ottobre 2019 su Affari esteri, Malley ha illustrato come dovrebbe essere la politica iraniana della prossima amministrazione democratica [Nell’ottobre 2019, mesi prima della comparsa del covid che ha indebolito la posizione di Trump, era talmente sicuro che la prossima amministrazione sarebbe stata democratica da prepararci addirittura dei programmi? Senti senti…]. Ha affermato che la strategia di massima pressione di Trump stava portando la regione sull’orlo della guerra perché si basava sul potenziamento degli alleati degli Stati Uniti – in primo luogo Israele e Arabia Saudita – per combattere l’aggressione regionale dell’Iran e il suo programma nucleare. In altre parole, si basava sul ripristino e sul rafforzamento dell’equilibrio di potere regionale che Obama si era prefissato di minare a vantaggio dell’Iran e a scapito degli alleati regionali dell’America.
Malley ha scritto che l’unico modo per prevenire la guerra era tornare al JCPOA e alla politica di Obama di rafforzare l’Iran a spese degli alleati degli Stati Uniti – in particolare Israele e Arabia Saudita.
Il test di Zuljanah lunedì ha dimostrato che l’Iran non condivide il punto di vista di Malley sulla sua posizione. Non ha speso $ 250 milioni per un razzo/missile che può colpire l’Europa perché ha paura di Israele e dell’Arabia Saudita. Ha sviluppato la Zuljanah perché vuole la capacità di attaccare l’Europa. E vuole attaccare l’Europa perché non è un regime stabile, bensì rivoluzionario, che cerca il dominio globale, non la stabilità regionale.
Per quanto riguarda i tempi, lo Zuljanah è stato testato nel febbraio 2021 anziché nell’ottobre 2020 perché l’Iran è stato scoraggiato da Trump e dalla sua strategia di massima pressione ed è autorizzato da Biden e dalla sua strategia di massimo appeasement. La prospettiva di una guerra è diminuita sotto Trump. Ora aumenta con ogni dichiarazione fatta dal Segretario di Stato americano Anthony Blinken e dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. Negli ultimi giorni, entrambi gli alti funzionari hanno avvertito che l’Iran si sta avvicinando pericolosamente a capacità nucleari militari indipendenti. Ed entrambi hanno chiarito che per affrontare il problema, l’amministrazione intende tornare al JCPOA.
Questa politica è irrazionale anche se valutata all’interno del circolo cognitivo chiuso del team Biden/Obama. Intendono fare una concessione irrevocabile all’Iran: miliardi di dollari di entrate che confluiranno nelle sue casse una volta rimosse le sanzioni. E in cambio chiedono all’Iran di fare un gesto revocabile. L’Iran ha ripristinato il suo arricchimento nucleare a Fordo e innalzato il suo livello di arricchimento al 20% a Natanz in un batter d’occhio. Se spegne gli interruttori per ottenere lo sgravio delle sanzioni, può riaccenderli subito dopo che il denaro avrà iniziato a fluire.
Ciò avverrà quasi sicuramente al più tardi a giugno. Il 18 giugno l’Iran terrà le elezioni presidenziali. Il presidente Hassan Rouhani e il ministro degli Esteri Javad Zarif lasceranno entrambi l’incarico. Tutti gli attuali candidati possibili provengono dal Corpo delle Guardie Rivoluzionarie e si può garantire che abbandoneranno il JCPOA. Quindi, nella migliore delle ipotesi, la durata in vita del JCPOA è di quattro mesi.
Biden, Blinken, Sullivan, Malley e i loro colleghi devono tutti essere consapevoli che questo è ciò che succederà. Il fatto che stiano andando avanti con la loro strategia fallita indica comunque che sono ideologicamente impegnati nel loro piano e si atterranno ad esso anche se porterà la regione alla guerra.
Questo ci porta in Israele. Durante gli anni di Trump, Israele e Stati Uniti sono stati pienamente coordinati nelle loro azioni sia congiunte che separate per minare il programma nucleare iraniano e le sue operazioni in Siria e Iraq. Come ha spiegato di recente un alto funzionario del Consiglio di sicurezza nazionale di Trump: “Lavorando insieme, le agenzie di intelligence di entrambi i paesi sono state in grado di realizzare più di quanto avrebbero potuto da sole”.
Ovviamente quei giorni adesso sono finiti. E mentre la squadra di Biden fa sentire pienamente la sua presenza, le opzioni di Israele per impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare stanno diminuendo.
Quando il capo di stato maggiore dell’IDF, il tenente generale Aviv Kochavi, ha annunciato il mese scorso di aver ordinato ai relativi comandanti dell’IDF di preparare piani operativi per colpire le installazioni nucleari iraniane, la maggior parte dei commentatori ha ritenuto che il destinatario fosse il regime iraniano. Altri hanno ipotizzato un avvertimento all’amministrazione Biden. I primi ritengono che abbia cercato di far retrocedere l’Iran dal baratro nucleare. Gli altri sostengono che stava chiedendo all’amministrazione Biden di prendere sul serio le posizioni di Israele prima di procedere con l’abrogazione delle sanzioni.
Ma di fronte al fanatismo strategico della squadra di Biden e alla corsa dell’Iran al traguardo nucleare, è almeno altrettanto probabile che il destinatario di Kochavi non fossero né gli iraniani né gli americani. Potrebbe invece aver avvertito gli israeliani di essere preparati per ciò che sta arrivando. E potrebbe anche aver detto ai partner regionali di Israele che il momento per un’azione comune è adesso.
Caroline Glick, 02/05/2021, qui (traduttore automatico con correzioni e aggiustamenti miei)

Pubblicato originariamente in Israel Hayom.

Quindi, se vedete qualcuno avvicinarsi alla vostra casa con una tanica di benzina e un accendino, la cosa migliore che possiate fare per salvarvi è regalargli un carro di paglia. Parola di Obiden e Harrinton. In ogni caso prepariamoci tutti, perché quando inizia una guerra, nessuno può sentirsi al sicuro, soprattutto se chi la scatena usa tutti i propri capitali per finanziare il terrorismo internazionale.

barbara

CULO CHE TREMA SIGNOR BIDEN?

La storia del giudice Thomas fa tremare Biden e il suo mondo

Il Washington Post ha chiesto al giudice della Corte Suprema, justice Clarence Thomas, di ricusarsi dal supremo organo giudiziario del Paese. Si tratta di una richiesta all’apparenza bizzarra, ma che risponde a determinate – e piuttosto disperate – ragioni politiche.
Nella carriera del giudice afroamericano, infatti, c’è un momento di grande difficoltà che ora sta tornando a galla – dove protagonista era proprio Joe Biden.
Nel 1991, il presidente George H. W. Bush aveva nominato alla Corte Suprema Clarence Thomas, un giudice di circoscrizione federale. Una collaboratrice di Thomas, Anita Hill, disse all’FBI che anni prima si era sentita molestata da Thomas con conversazioni a contenuto pruriginoso e ripetuti inviti ad uscire con lui. Questi dettagli misteriosamente – diciamo così – finirono ai media, con l’effetto di mettere in dubbio un’elezione alla Corte Suprema che pareva non avere ostacoli di sorta.
Le accuse sconce, diventarono, ovviamente, il tema principale delle audizioni della commissione di senatori che dovevano approvare la nomina. Commissione a capo della quale c’era lui, il senatore Joseph R. Biden. Le illazioni di Biden e soci contro il giudice nero finirono così in diretta televisiva nazionale.
Il giudice Thomas negò le insinuazioni, e difese il suo onore – e quello di tutti i neri conservatori, cioè di quei neri che non soddisfano l’ordine imposto dalla sinistra americana, dove il nero deve essere un povero e automaticamente votante per i Democratici – con un discorso deciso e toccante.
«La Corte Suprema non vale tutto questo. Nessun lavoro vale tutto questo».
Nelle immagini del video potete vedere il sorrisetto del capo-inquisitore, il senatore Joe Biden. In pratica, nel 1991, Joe Biden diffamò in mondovisione  il giudice Thomas, accusandolo di molestie senza uno straccio di prova, tutto per non fare approdare alla Corte Suprema un conservatore o forse – è la tesi implicita della difesa di Thomas – per non elevare un afroamericano non-democratico, quindi fuori dallo stereotipo, oggi vivissimo, della minoranza oppressa. 
Proprio lui, quel Joe Biden eletto presidente dai network TV, che dovrebbe quindi giurare sulla Bibbia postagli dal giudice Thomas, il più anziano dei membri della Corte Suprema.
Ora forse potete capire perché i Democratici vogliono chiudere la partita subito e neanche lontanamente passare dalle parti della Corte Suprema, dove i giudici di estrazione conservatrice sono 6 contro 3, e dove l’anziano del gruppo è proprio Thomas.  L’obiettivo è quello di creare una situazione di stallo (quattro a quattro). 
Qualcuno — e il Washington Post in primis lo sta facendo capire — inizia a sentire la terra franare sotto i piedi, perché sanno che la Suprema Corte potrebbe ribaltare tutto — motivo per il quale oggi il mainstream d’oltreoceano cerca di mistificare la situazione e offuscare figura di Trump, financo inventandosi il fantomatico rischio di un divorzio con Melania.
Thomas, cresciuto cattolico e studente di scuole cattoliche, alla Corte Suprema è con Neil Gorsuch (una nomina di Trump) un proponente della legge naturale: la dottrina di filosofia del diretto contro la quale il progressismo si scaglia da secoli.
Immaginare un nuovo incontro tra il candidato Biden e il giudice Thomas è qualcosa che nemmeno nella trama di un film: una storia dolorosa, due universi contrapposti, convergono ancora una volta.
Noi, un po’ di terrore, fra i Democratici e  l’impero dei network asserviti , iniziamo a fiutarlo.
Roberto Dal Bosco, Cristiano Lugli, qui.

Vediamolo dunque il meraviglioso – non conosco altre parole adeguate – Clarence Thomas nella sua appassionata e toccante difesa

E qui il suo ultimo intervento

E vediamo anche un brevissimo spezzone del signor Biden – quello che l’imbecille di turno chiama “il nonno giovanile che serve ora all’America” – che sembra in seria difficoltà a controllare il livore, la rabbia, l’odio, simile a un cane idrofobo con la bava schiumante che gli cola dalla bocca.

E si noti la malafede di chi vorrebbero escluderlo dalle decisioni nella convinzione, per non dire certezza, che non si lascerebbe scappare l’occasione per vendicarsi del male fattogli da Biden 29 anni fa, votando, se necessario, contro la verità e contro la propria coscienza. Ossia proiettando su di lui tutta la propria perfidia e tutta la propria meschinità.
E ventisette anni dopo avere tentato di stroncare la carriera di un giudice conservatore infangando la sua reputazione per mezzo di false accuse di molestie sessuali, ci hanno riprovato con Brett Kavanaugh (uno, due, tre). E pensare che Biden, per il quale non c’è neppure bisogno di credere sulla parola alla querelante, dato che almeno qualcuna delle sue performance è stata immortalata in video visibili a tutti, è davvero l’ultima persona al mondo a potersi permettere di pontificare sull’argomento.
Comunque tranquilli, che dopo i quattro anni in cui Trump non ha fatto altro che dividere il Paese, loro adesso lo riuniranno e riappacificheranno.

Qui. E si noti quel delizioso “Aggressively but nonviolently”.

Aggiungo questo stupendo pezzo, chiaramente evocativo, di

Giulio Meotti

Ho visto gli attori scendere dai propri attici del Regno Incantato e ballare estasiati per strada
Ho visto il Partito Comunista Cinese intravedere felice una “opportunità”
Ho visto gli scrittori zuccherosi inginocchiarsi sedotti dallo spirito del tempo
Ho visto tutte le redazioni del Giornale Unico stappare bottiglie di champagne messe in frigo quattro anni fa
Ho visto i soliti parrucconi del potere rilassati
Ho visto ospedali e organizzazioni cattoliche preoccupate per l’imminente perdita della libertà religiosa
Ho visto le organizzazioni che vogliono far abortire al decimo mese come nei romanzi di Philip Dick
congratularsi a vicenda
Ho visto gli iraniani e i palestinesi tirare un grande sospiro di sollievo
Ho visto l’Unione Europea più arzilla
Ho visto l’Onu fare i conti del denaro che tornerà a scorrere
Ho visto le università già al lavoro per mettersi su i corsi di rieducazione dell’uomo bianco cattivo
Ho visto in festa “Cordicopolis”, la città del cuore di Philippe Muray
Ho visto Greta tornare a sorridere
Ho visto tutto questo e molto altro e ancora non è neanche iniziata ma già un po’ mi manca quel deplorevole di Trump. Perché quando “i buoni” sono troppo contenti, non si prepara nulla di buono

E chissà e senza Trump sarebbe mai stata possibile una cosa come questa.

barbara

E NOI POTREMO DIRE:

Quando è stata fatta la Storia, noi c’eravamo, e l’abbiamo visto succedere

E abbiamo visto la ELAL atterrare a Dubai

e qualcun altro approvare

e l’Arabia Saudita concedere prima il proprio spazio aereo alla ELAL e poi addirittura programmare

E abbiamo visto scendere in campo le modelle, l’israeliana e l’emiratina

È il caso di dire che la bellezza salverà il mondo? Ci avevano già provato, tre anni fa, miss Israele e miss Iraq

con conseguenti minacce di morte alla miss araba e alla sua famiglia, che è stata costretta a scappare. Ma la ragazza non sembra proprio intenzionata a lasciarsi intimidire: prima è andata in Israele

e poi ha proseguito con determinazione la missione iniziata sulle passerelle di Las Vegas

Certo, c’è questa signorina che sicuramente farà perdere il sonno a tutti gli israeliani e agli sconsiderati arabi che riconoscono Israele

e anche qualche cornacchia maleaugurante che un giorno sì e l’altro pure mette in guardia dai tremendi prezzi che Israele sarà costretto a pagare in cambio di un pezzo di carta che vale meno di niente, e dalla tremenda disillusione che sicuramente è dietro l’angolo, e leva alti lai sulla stupidità di Israele (leggi Netanyahu) che rinuncia alla sostanza in cambio della forma eccetera eccetera eccetera, ma noi (plurale maiestatis, naturalmente) siamo certi che questo ramo d’ulivo

presto sarà completo, e probabilmente ne serviranno anche altri.

barbara

PRATICAMENTE IL PARADISO IN TERRA

“L’Arabia Saudita è una superpotenza non solo nell’economia ma anche nella cultura, nel turismo, nell’innovazione e nella sostenibilità”. Parole che non fanno una piega, specie pensando alla sorte dello scrittore dissidente Jamal Khashoggi: l’economia ha permesso di mandare in Turchia un manipolo di killer, il medico che l’ha sezionato dopo l’assassinio era coltissimo, il turismo è quello che hanno fatto i suoi resti dopo la morte, in direzione Ryad, la sostenibilità è averli fatti sparire senza lasciare traccia. Ma la domanda è un’altra: essendo l’Arabia Saudita una teocrazia in cui i basilari diritti umani sono negati, chi può aver detto un’enormità del genere? E dove? E davanti a chi? Il luogo è facile: appunto in Arabia Saudita, al Future Investment Initiative Forum. Il consesso erano i maggiorenti locali, una fauna di investitori, e relatori tra i quali gli ex premier Cameron (conservatore) e Fillon (sarkozysta). Ancora niente? L’ultimo aiuto: è così multitasking che mentre lodava l’Arabia Saudita è riuscito a bombardare il Governo. Bravi, indovinato. Ora #statesereni.

Oggi qui, domani Allah
renzino
Ai miei tempi si predicava “la fantasia al potere”. Adesso lo abbiamo, uno che mette le proprie fantasie al posto della realtà. E sicuramente ne trarremo tutti gran giovamento.

barbara

DEDICATO ALLA SIGNORA BACHELET

Poi anche due parole scritte, per chi non abbia seguito troppo da vicino, o abbia dimenticato, le vicende della signora in questione e dell’organo che rappresenta.

Domenico Ferrara

Fa un po’ storcere il naso che a lanciare l’«invasione moralizzatrice» in Italia a difesa di migranti e rom sia una che è stata più volte criticata proprio sul campo del rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Sul curriculum dell’Alto commissario Onu Michelle Bachelet pesa, infatti, un comportamento molto ambiguo, soprattutto se si guarda al rapporto con Cuba, Nicaragua e Venezuela. A mettere in fila le anomalie, chiamiamole così, dell’ex presidente del Cile ci ha pensato l’Ong Un Watch, che ha il compito di monitorare quello che accade all’interno del Palazzo di Vetro e che ha espresso numerosi dubbi sulla poca trasparenza e sulla velocità che hanno accompagnato l’elezione della Bachelet. Qualche esempio? Durante la visita a Cuba, all’inizio del 2018, la Bachelet è stata fortemente criticata dai membri del suo stesso partito e dagli attivisti per i diritti umani per aver incontrato il generale Raúl Castro snobbando i membri dell’opposizione pacifica di Cuba. Non solo. Alla richiesta della leader dell’opposizione, Rosa María Payá, di incontrare i dissidenti per i diritti umani la Bachelet ha risposto picche, anzi, non ha proprio risposto. Anche la blogger cubana Yoani Sanchez ha puntato il dito contro di lei imputandole una «vicinanza all’Avana segnata da una nostalgia ideologica che offusca la sua visione e la sua capacità di riconoscere la mancanza di diritti che segnano la vita dei cubani» e aggiungendo che «dalla sua bocca non c’è mai stata alcuna condanna della repressione politica condotta sistematicamente da Raúl Castro, anche quando le vittime sono donne». Accuse durissime per una che adesso ha assunto il pesante ruolo di difensore dei deboli. Quando morì Fidel Castro ricorda ancora Un Watch – la Bachelet lo definì «un leader per la dignità e la giustizia sociale a Cuba e in America Latina». Lodi espresse anche per Chavez per «il suo più profondo amore per il suo popolo e le sfide della nostra regione per sradicare la povertà e generare una vita migliore per tutti». E ancora, nel rapporto dell’Ong, viene citato poi il rifiuto di condannare il regime di Maduro insistendo invece «sul fatto che il problema del Venezuela sia la mancanza di dialogo, suggerendo che esiste una sorta di responsabilità condivisa». C’è infine il silenzio assordante sulle uccisioni di centinaia di manifestanti da parte del regime di Ortega in Nicaragua. Su come l’Italia invece tratterebbe migranti e rom, la «nuova Boldrini» invece forse straparla.


Filippo Facci

Con tutta la diplomazia di cui certi organismi sono pure intrisi, è impossibile non ridergli in faccia. L’Alto commissario (che è bassa, ed è una commissaria) per i diritti umani Michelle Bachelet, una cilena, ha puntato il dito contro l’Italia ha criticato il nostro Paese per le «conseguenze devastanti dallo stop alle navi ong», e dall’alto di quale pulpito Onu? Le risposte sono decine: per esempio dal pulpito che il 28 maggio scorso ha fatto presiedere la Conferenza sul disarmo proprio alla Siria del dittatore sanguinario Bashar al Assad. Per esempio dal pulpito che tre mesi prima aveva affidato alla Siria anche il ruolo di relatrice del Comitato speciale sulla decolonizzazione: parliamo di una nazione che occupa militarmente alcune zone del suo stesso territorio. Per esempio dal pulpito (sempre Onu) che nello stesso mese aveva eletto la Turchia come vicepresidente del Comitato di controllo delle organizzazioni non governative e dei gruppi in difesa dei diritti umani: la Turchia, già, quella che sta facendo incarcerare giornalisti e militanti e oppositori. Forse andrebbe anche ricordato che l’Alto commissario Onu per i diritti umani, quello che ora ha criticato l’Italia, è stato fondato dagli Stati Uniti che hanno abbandonato la loro creatura giusto nel giugno scorso, tanto la reputavano utile. LA LISTA E’ ridicola, soprattutto: nel 2015 nessuno impedì che l’Iran degli ayatollah entrasse nell’Agenzia Onu per l’emancipazione femminile, e stiamo parlando di un regime che considera la donna ufficialmente inferiore e priva dei principali diritti. Tanto vale la credibilità di questa Commissione (o commissariato, o Consiglio: ogni tanto cambiano nome) che in teoria dovrebbe promuovere e difendere i diritti umani in giro per il mondo: 45 paesi membri tra i quali spiccano Arabia Saudita, Cina, Qatar, Venezuela, Cuba, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Repubblica del Congo, Burundi, Pakistan, Afghanistan e Angola, in pratica una santa alleanza di torturatori che vigilano sui diritti umani. Siria e Arabia Saudita, in particolare, fanno parte dei “Worst of the worst 2018”, la lista dei 12 paesi che secondo Freedom House è «il peggio del peggio» quanto a rispetto dei diritti di qualsiasi genere. E che ci fanno proprio in quella Commissione? Facile: da dentro è molto più facile evitare che la stessa Onu punti il dito contro di loro quali violatori sistematici dei diritti che dovrebbero difendere. In pratica, senza timor di esagerare, se cercate una classifica dei paesi dispotici, misogini, torturatori, sponsor del terrorismo, senza uno stato di diritto, senza diritti civili o politici, senza libertà di pensiero, di parola, di stampa e di associazione, beh, nella commissione-commissariato-consiglio trovate un’annalistica imbattibile, oppure potete trovarla anche nel pur datato «Contro l’Onu» di Christian Rocca (Lindau, 2004) che vi si spiega, per dire, come nel 2003 la Commissione sia stata presieduta dalla Libia – la Libia, sì – mentre l’anno prima – proprio a ridosso dell’ 11 settembre – un’alleanza di oppositori a Bush riuscì a escludere gli Stati Uniti. In pratica sono gli stati canaglia che si aiutano l’uno l’altro: forse il record è del 2004, quando Freedom House classificò la presenza di 13 stati «repressivi» o «non liberi» su 53: anche se va detto che è una Commissione che non conta nulla, e il vicepremier Matteo Salvini non dovrebbe neppure perdere tempo a rispondergli. ZERO POTERI Non possono sanzionare, aiutare economicamente le vittime, possono solo spedire strapagati ispettori che «ascoltano» di qua e di là. Un apparato costosissimo con prediche a mille e potere a zero: un condensato dell’Onu. Che a mezzo di questa Commissione non si è mai occupata, neppure nei periodi peggiori, di Arabia Saudita, Cina, regioni come Tibet o Cecenia, Zimbabwe (quello di Mugabe, il presidente razzista) o dei finanziamenti di Saddam ai kamikaze, o del sostegno siriano agli Hezbollah. Si è occupata, dopo l’11 settembre, del possibile «impatto sulle minoranze e sulle comunità islamiche» e della «campagna di diffamazione» dell’Islam. Lo stesso Islam che vede l’Arabia Saudita, per fare un altro esempio, sempre in prima fila nella commissione anche se non ha neppure mai firmato la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: perché prevedeva libertà di coscienza e addirittura una parità tra uomini e donne. Ma fa niente. In compenso ogni anno si sprecano le risoluzioni della Commissione contro Israele, questo tra un contratto e l’altro – i paesi democratici fanno sempre ottimi affari con le dittature – e naturalmente tra stipendi alti e altri ancora più alti. (qui)

POST SCRIPTUM: dell’11 settembre non ho voglia di parlare, ma se avete voglia di leggere qualcosa di veramente bello, andate a fare visita a Giulio Meotti.

barbara

COMUNIONE E LIBERAZIONE

“[…] ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta.” Don Luigi Giussani, fondatore.

Cristianesimo vissuto, insomma, e non limitato alla messa e a qualche sporadica confessione e comunione, impegno che si concretizza, dal punto di vista sociale, con la catechesi e con i famosi incontri di Rimini, per gli esercizi spirituali. Ricordo anche, da parte di CL, una certa vicinanza all’ebraismo e a Israele. E ricordo che quando il compianto Giorgio Israel pubblicizzò nel suo blog il libro della mamma di Ilan Halimi, da me tradotto insieme a Elena Lattes e Marcello Hassan, qualcuno nei commenti suggerì di presentarlo al convegno CL di Rimini, ritenendolo il luogo più adatto, quello in cui avrebbe ricevuto la migliore accoglienza.

Questo accadeva otto anni fa; oggi il meeting di Comunione e Liberazione è questo:
cl 1
cl 2
cl 3
cl 4
Per qualche informazione in più suggerisco di leggere qui.

Nel frattempo in Iran Nasrin Sotoudeh, avvocato per i diritti umani in carcere da giugno, dopo la decisione del governo di perseguitare, oltre a lei, anche i suoi familiari, i parenti e gli amici, ha dichiarato lo sciopero della fame (sì, lo so, adesso le femministe si mobiliteranno in massa all’unisono: a strepitare che si dice avvocata e non avvocato).

Giusto per chiarire le idee a chi non le avesse chiare del tutto, Evin è questo.

barbara

CENTRO SPORTIVO CHIUSO

per video con intollerabile abbigliamento osceno che può corrompere la morale pubblica (qui).

Sono troppo maligna se penso che abbiano colto il primo pretesto per chiudere il centro quando si sono resi conto che là dentro le donne, oltre a tenersi in forma, potevano anche imparare a difendersi?

(PS: ma saranno poco fastidiosi quei video in cui nell’ultima parte l’immagine è quasi interamente coperta dalle pubblicità ad altri video?)

barbara

IL CORAGGIO DI DIRE NO

Parlo di Anna Muzychuk, la campionessa del mondo di scacchi che ha scelto di rinunciare ai suoi titoli e al ricchissimo premio in caso – estremamente probabile – di vittoria, pur di non sottostare alle oppressive regole saudite.

Scacchi, la campionessa in carica boicotta i mondiali in Arabia Saudita

“Tra pochi giorni perderò i miei due titoli mondiali, uno ad uno. Solo perché ho deciso di non andare in Arabia Saudita, di non giocare con le regole di altri, di non mettermi l’abaya (lungo vestito scuro indossato dalle donne della Penisola arabica, ndr),
abaya
di non dover andare per strada accompagnata con qualcuno, per, in sintesi, non sentirmi una creatura secondaria”. Così Anna Muzychuk, campionessa del mondo di scacchi in due categorie di velocità, ha annunciato la propria decisione di non partecipare ai campionati mondiali in Arabia Saudita.

Il post – “Proprio un anno fa – continua la campionessa ucraina – vinsi questi due titoli ed ero all’incirca la persona più felice nel mondo degli scacchi, ma questa volta mi sento davvero male. Io sono pronta a battermi per i miei principi e a rinunciare al torneo dove in cinque giorni avrei potuto guadagnare più di quanto faccio in dozzine di eventi messi insieme. Tutto questo è seccante, ma la cosa più traumatizzante è che non importa quasi a nessuno [a noi sì! ndb]. Questa è una sensazione molto amara, ma non cambia la mia opinione e i miei principi. Lo stesso vale per mia sorella Mariya – e sono molto felice che condividiamo lo stesso punto di vista. E sì, per coloro a cui interessa – torneremo!“.

Il precedente – Nell’ottobre del 2016, la scacchista georgiana-statunitense Nazí Paikidze boicottò i mondiali in Iran: “Non indosserò un hijab per non supportare l’oppressione femminile. Anche se questo significa perdere le competizioni più importanti della mia carriera.

No ai giocatori israeliani – Anna Muzychuk non è la sola a non partecipare ai mondiali. Sette giocatori della federazione israeliana che avrebbero voluto prendervi parte, all’ultimo momento si sono visti negare l’ingresso in Arabia Saudita.

Una partita sullo scacchiere internazionale – L’Arabia Saudita si era aggiudicata questi mondiali per tentare di accreditare un’immagine di apertura e modernità. Per fare questo, ha messo sul piatto un primo premio di due milioni di dollari, circa quattro volte tanto quelli abitualmente conferiti nel circuito internazionale. In più negli ultimi mesi il principe ereditario Mohammed bin Salman sta cercando di portare avanti delle riforme che diano l’idea di progresso, come consentire la guida alle donne o permettere loro di assistere ad eventi sportivi. (qui)

Una persona meno decisa, meno coerente, meno onesta, avrebbe potuto accettare le regole, godere della gloria di una nuova vittoria, incassare due milioni di dollari e poi, come Oriana Fallaci, raccontare che in un momento in cui disgraziatamente non c’erano né un fotografo, né un cameraman a poter documentare la straordinaria impresa, si era orgogliosamente scoperta. Ma fortunatamente non c’è solo chi si accontenta di raccontare di avere fatto, ma anche chi veramente fa.
E quelli, i sauditi, non sanno che cosa si perdono:
Anna Muzychuk
barbara

NON PER TUTTI PARIGI VALE UNA MESSA

Sophie Marceau dice no alla Legion d’Onore, l’onorificenza più alta attribuita dalla Repubblica francese. La decisione, affidata a un tweet, vuole essere un chiaro segno di protesta nei confronti del governo Hollande, che alcune settimane fa ha conferito la stessa onorificenza al saudita Mohammed ben Nayef. “Legione d’onore al principe ereditario saudita; 154 esecuzioni l’anno scorso nel suo paese. Ecco perché ho rifiutato la legione d’onore”, ha scritto su Twitter l’attrice. Sophie Marceau è una convinta militante per la difesa dei diritti dell’uomo ed ecologista della prima ora. Già in precedenza erano nate proteste in Francia, dopo che era stata conferita la Legion d’onore al presidente russo Vladimir Putin.
Marceau-ben Nayef
Qualcuno l’ha criticata per questa scelta, trattandola da arroganza, da diva che vuole mettersi in mostra per mezzo del gran rifiuto, da snob che si atteggia a superiore ai riconoscimenti ufficiali. Io ci vedo una che in tale onorificenza avrebbe potuto crogiolarsi, e vi ha rinunciato per una questione di principi morali.

barbara