L’UNICO VIRUS È IL GOVERNO

Che non è poi molto lontano dallo slogan iniziale secondo cui “l’unico virus è il razzismo”: lì il presunto obiettivo del razzismo era il popolo cinese, qui l’obiettivo reale è il popolo italiano. Con la differenza però che lì si trattava di chi – non necessariamente cinese – arrivava dalla Cina e lo strumento proposto era una quarantena di un paio di settimane, con la finalità di verificare se erano contagiosi, mentre oggi l’obiettivo siamo tutti noi italiani al gran completo, lo strumento è la cancellazione dei nostri diritti, della nostra libertà, della nostra socialità, e la finalità è il nostro annientamento. Qualche dubbio? Basta guardare un solo provvedimento. Qual è la cosa da evitare nel modo più assoluto in caso di epidemia? Gli assembramenti, lo sanno tutti – e non a caso il governo approfitta dei morti di fine ottobre per lanciare anatemi sui giovani che sono andati in discoteca (col benevolo permesso del governo, non dimentichiamolo) a luglio: si sono assembrati, si sono ammucchiati, si sono strusciati, e hanno assassinato i loro nonni. Ma lasciamo stare. Gli assembramenti. Da evitare come la peste perché ci fanno ammalare. E dunque che cosa fa il nostro conticino bello? Accorcia gli orari. Lo aveva già fatto la primavera scorsa: orari dei supermercati accorciati e chiusura domenicale, provvedimento di cui sembrerebbe prospettarsi la reintroduzione. Adesso qualche presidente di regione ha istituito, e qualcuno auspica di estenderlo a tutto il territorio nazionale, il coprifuoco (mai applicato se non durante la guerra, e solo nel periodo più drammatico dell’occupazione – la prova più lampante, se mai ne servisse una, che quei signori non sono i nostri governanti, bensì una POTENZA OCCUPANTE). Conseguenze: nei negozi, avendo meno tempo a disposizione e lo stesso numero di persone con la necessità di approvvigionarsi, un maggiore assembramento. Poi pensiamo a quante persone posso incontrare in un’ora di passeggiata, anche in pieno centro, alle due di notte e quante alle quattro del pomeriggio, e il quadro diventa perfettamente chiaro: il governo sta prendendo tutte le misure possibile per farci ammalare. Possibilmente, vista l’età media della popolazione con annesse patologie legate all’età, farci morire. E mettiamoci anche questo

Ma veramente lasciare mezzi posti a sedere vuoti e tenere la gente in piedi tutta appiccicata è più salutare che far occupare tutti i sedili e sfoltire i corridoi?

Se poi aggiungiamo il ventilato progetto di far partire il coprifuoco alle sei di sera, ciò significa che dovranno chiudere, e quindi morire anche se giovani – di fame questa volta – i titolari di bar ristoranti pizzerie e ogni altro genere di locali. E i dipendenti che saranno costretti a licenziare. E i fornitori che non avranno più nessuno da rifornire. E tecnici manutentori e riparatori che non avranno più niente da controllare o riparare. Insomma, per come l’hanno organizzata – soprattutto lavorandoci duro per tutta l’estate –

il dubbio che l’obiettivo sia proprio quello di farci ammalare e possibilmente morire, a me sembra legittimo. E quando tanti tanti tanti di noi saranno morti, di cervelli capaci di rifiutare di farsi friggere dalla narrativa del terrore ne resteranno così pochi da non rappresentare più una minaccia.

E poi parliamo dell’annientamento della dimensione sociale – ossia umana – in atto, con sempre maggiore successo da ormai otto mesi.

IL PARADIGMA TOTALITARIO DEL “DISTANZIAMENTO SOCIALE”. Sul libro di Giorgio Agamben “A che punto siamo? L’epidemia come politica”

L’articolo che apre questa raccolta di Giorgio Agamben fu pubblicato il 26 febbraio su “Il Manifesto”. Era ancora il periodo – ma sarebbe finito prestissimo – in cui la sinistra declamava che “l’unico contagio è il razzismo”, correva ad abbracciare cinesi e a prendere aperitivi. Ben più seria e addirittura profetica era però la posizione espressa da Agamben, isolata sul quotidiano “comunista”. Agamben notava la sproporzione fra la realtà, in quel momento, del Covid 19 in Italia e i provvedimenti eccezionali che venivano presi e denunciava la restrizione delle fondamentali libertà costituzionali, paventando e prevedendo che il decreto adottato per le regioni del Nord potesse essere esteso a tutto il territorio nazionale. Lamentava, infine, che una gigantesca, irrazionale onda di paura stesse percorrendo l’umanità e denunciava la sua strumentalizzazione da parte dei potenti: «Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo».
Passati non molti giorni, Agamben venne investito da reazioni furibonde e da veri insulti. Quell’articolo fu l’ultimo da lui scritto sul “Manifesto”. Anzi, fu l’ultimo scritto su un qualsiasi giornale. Circa un mese dopo, il Corriere della Sera, gli chiese un intervento, ma quando Agamben lo inviò, benché la sua denuncia fosse piuttosto “edulcorata” rispetto agli altri articoli, il quotidiano milanese glielo rifiutò (Agamben lo ha comunque inserito nella raccolta). E così tutti gli articoli che compongono il libro, a parte il primo, hanno trovato ospitalità solo sul sito di “Quodlibet” (“Quodlibet è la casa editrice fondata da alcuni allievi dello stesso Agamben, dopo la sua rottura con Einaudi). La raccolta è poi completata da alcune interviste, tutte a media esteri: a “Le Monde”, alla radio svedese, alla rivista greca “Babylonia”.
Dopo gli insulti, quindi, il silenzio, la rimozione, la censura.
Ma cosa dice di così scandaloso e forse “pericoloso per il sistema” – come si sarebbe detto una volta – quello che fino a pochi mesi fa era uno dei più prestigiosi e celebrati filosofi italiani?
I poteri del mondo, scrive Agamben, hanno colto il pretesto di una pandemia – vera, simulata o ingigantita è ora questione secondaria – per trasformare radicalmente, attraverso lo strumento dello “stato di eccezione” (volgarmente: emergenza) il paradigma politico dominante, abbandonando definitivamente la democrazia borghese, liberale e parlamentare, costituzionale che era già in crisi. Lo stato di eccezione ha infatti comportato “la pura e semplice sospensione delle garanzie costituzionali”. Si è innanzitutto instaurato un “regime di terrore sanitario”, fondato su una sorta di “religione della salute”. «Quello che nelle democrazie borghesi era il diritto del cittadino alla salute si rovescia, senza che la gente sembri accorgersene, in un’obbligazione giuridico-religiosa che deve adempiersi a qualunque prezzo». E il prezzo, come ora vedremo, è altissimo, pressoché inestimabile.
L’incrocio fra questa religione della salute e il potere statale fondato sullo stato di eccezione ha portato così a un nuovo paradigma di governo che Agamben definisce “biosicurezza”. Si tratta probabilmente del paradigma di potere più efficace di tutta la storia dell’Occidente. Mettendo in questione una minaccia alla salute, ma in realtà in nome di una “sicurezza sanitaria” del tutto astratta e largamente fittizia, gli uomini si sono infatti mostrati pronti ad accettare limitazioni della loro libertà che mai erano stati disposti a tollerare, neanche durante le due guerre mondiali e sotto le dittature totalitarie. I cittadini sono stati disposti a sacrificare praticamente tutto: non solo le fondamentali libertà personali, ma le condizioni normali di vita, le relazioni sociali, il lavoro, le convinzioni religiose e politiche, perfino l’amicizia, gli affetti, l’amore. Ciò che più sconcerta è che il sacrificio della libertà e di tutto ciò che caratterizza una vita degna, umana e normale viene spacciato e viene accettato come massimo esempio di civismo, di responsabilità e di altruismo. Con l’acquiescenza delle chiese, è stato finanche abolito il “prossimo”, ridotto a una possibile fonte di contagio, ad un potenziale ammalato da non visitare. La chiesa – e quella cattolica è guidata da un papa che porta il nome di uno che i lebbrosi li baciava – ha così completamente rinnegato e tradito i propri valori, inchinandosi al Baal della religione della scienza.
Di fronte – non alla malattia o alla morte – ma al semplice “rischio” di ammalarsi – un rischio peraltro del tutto imprecisato, perché basato su dati scientificamente inconsistenti e su una colossale operazione di falsificazione della verità portata avanti dal coro unanime dei media –  tutti o quasi si sono aggrappati soltanto a ciò che Agamben chiama la “nuda vita”, una entità puramente biologica, spogliata di ogni componente affettiva e culturale, ossia di tutto ciò che rende l’esistenza umana
Di questa “Grande trasformazione”, l’Italia è stata il laboratorio, mostrandosi pronta ad adattare il modello cinese a un paese occidentale formalmente democratico (è stato questo il vero “modello italiano”). Quando gli storici del futuro avranno chiaro che cosa era in gioco in questa pandemia, scrive Agamben, questo sembrerà loro uno dei momenti più vergognosi della storia italiana e coloro che lo hanno guidato e governato saranno giudicati degli irresponsabili privi di ogni scrupolo etico.
Non vale per Agamben, la confortante obiezione secondo cui tutto ciò sarebbe temporaneo, perché governo ed esperti dichiarano esplicitamente che ciò a cui dovremo abituarci, anche finita la fase acuta della cosiddetta emergenza, è il “distanziamento sociale”, ossia proprio il nucleo essenziale e fondante del nuovo paradigma di potere, il nuovo principio di organizzazione della società. Del resto, lo stesso termine adottato tradisce l’intenzione di trasformare il distanziamento in qualcosa di permanente e in un nuovo paradigma di società: non è stata scelta infatti l’espressione che sarebbe stata più ragionevole, se si fosse trattato di un semplice dispositivo medico, non si è parlato di distanziamento “fisico” , ma si è subito parlato di “distanziamento sociale”, forse per far comprendere che si trattava di una nuova forma di vita in società a cui dovevamo abituarci
Il paradigma del  “distanziamento sociale” comporta “nulla di meno che la pura e semplice abolizione di ogni spazio pubblico” e questa assoluta cessazione di ogni attività politica e di ogni rapporto sociale viene poi presentata ed accettata, ironicamente, come la massima forma di partecipazione civile.
Ancora una volta la pandemia viene usata per portare alle estreme conseguenze processi in atto che senza di essa sarebbero rimasti limitati: si approfitterà del distanziamento per sostituire i dispositivi tecnologici ai rapporti umani nella loro fisicità, per vietare ogni tipo di riunione e comunione umana “in presenza”. In pagine molto efficaci, Agamben scrive, tra l’altro, che ciò costituisce un vero requiem per l’università.
Ci sono prospettive di resistenza? Certamente ci sono, per Agamben, a patto che si raggiunga una coscienza del problema che al momento sembra completamente assente. Ma dovranno essere nuove forme di resistenza e pensare a nuovi paradigmi politici, che sfuggano all’alternativa fra una democrazia che degenera in dispotismo – come aveva già rilevato Tocqueville – e un totalitarismo che assume forme apparentemente democratiche, e che prendano atto della crisi probabilmente irreversibile delle tradizionali democrazie liberali.
Vale la pena infine di citare la splendida citazione di Montaigne, con la quale Agamben risponde alla giornalista straniera che gli chiede se, data la sua età (Agamben è del 1942), non sia preoccupato per un possibile contagio:
«Noi non sappiamo dove la morte ci aspetta, aspettiamola ovunque. La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Saper morire ci libera di ogni soggezione e di ogni costrizione»
Angelo Michele Imbriani, qui.

Ma nonostante tutto questo – così come tante altre cose di cui si è già abbondantemente parlato – sia sotto gli occhi di tutti, vedo crescere ovunque l’isteria collettiva, il terrore della morte nera in agguato, l’invocazione di nuove ulteriori misure restrittivi, la chiusura di tutto prima di Natale, divieto di circolare in qualunque condizione fino a quando non arriverà il vaccino, anche se probabilmente dovremo aspettare ancora un anno o forse più – perché tanto hanno il cervello fritto e fulminato, da immaginare che dopo altri sei o dodici mesi di chiusura ci possa ancora essere qualcuno di vivo qua intorno.

barbara

SEGUENDO LA LOGICA

Se un bianco non può doppiare un attore nero, né interpretare Otello dipingendosi la faccia di nero (oggettivamente, non è che l’Europa pulluli di doppiatori neri o attori teatrali neri, meno che mai cinquant’anni fa o cento anni fa) perché si tratta di indebita appropriazione culturale, perché, si chiede l’amico Shevathas, un negro dovrebbe poter fare il programmatore?

Sempre restando in tema di antirazzismo, che noi adoriamo con tutta la nostra anima, con tutto il nostro corpo e con tutta la nostra mente, non possiamo che applaudire, meglio se in piedi, l’iniziativa della Mercedes:

La Mercedes cambia look e lo fa ribadendo il suo impegno nella lotta al razzismo e a ogni forma di discriminazione: nel 2020 le W11 della scuderia campione del mondo in carica avranno una livrea nera al posto della tradizionale argento.
mercedes-nera
Che a me poi verrebbe da chiedermi in che modo cambiando il colore dell’auto si aiuteranno i negri di Harlem a uscire dal ghetto ed emanciparsi, ma si sa che io sono una brutta persona, e per mimetizzarmi e non farmi troppo notare applaudo anch’io. E altrettanto entusiasticamente e inpiedamente applaudiamo anche i nostri eroici piloti di Formula 1 che non esitano a inginocchiarsi in segno di… Boh, questo non lo so: non si può mica sapere tutto nella vita, no?

Piloti ricoperti d’oro da regimi autoritari e razzisti ci spiegano l’antirazzismo

Alla partenza del Gran Premio d’Austria di Formula Uno di questa domenica abbiamo assistito, cosa alquanto irrituale nel contesto sportivo automobilistico, ad un atto politico organizzato dal campione del mondo Lewis Hamilton per sostenere l’”anti-razzismo”, ma anche nei fatti, apertamente, il movimento Black Lives Matter.
Il clou è stato rappresentato dalla foto di gruppo dei piloti di Formula Uno con la maggior parte di essi inginocchiati al momento dell’inno nazionale, secondo il gesto reso celebre negli ultimi anni, ma soprattutto nelle ultime settimane, dalla campagna del movimento radicale “nero”.
È legittimo chiederci, certo, contro quale “razzismo” i piloti manifestino. E la risposta è facile. Puntano il dito contro il “razzismo” americano o in generale occidentale. Cioè puntano il dito, paradossalmente, contro l’unica parte del mondo che il razzismo è stata, nel tempo, in grado di riconoscerlo e in grandissima parte di superarlo – contro l’unica parte del mondo verso la quale persone di ogni razza ed etnia ogni anno accorrono alla ricerca di quei diritti e di quelle opportunità che non si vedono riconosciute dai propri compatrioti nelle terre natali.
E mentre punta il dito contro l’America e l’Occidente, la Formula Uno stabilisce un fondamentale accordo di sponsorizzazione con la compagnia petrolifera dell’Arabia Saudita. E si fa ricoprire di soldi da Paesi autoritari, razzisti e nemici dei diritti umani come la Russia, il Barhain, gli Emirati Arabi, la Cina o il Vietnam.
Hamilton non si inginocchia per il fatto che la Cina reprima i diritti degli hongkongesi o che sterilizzi forzatamente le donne della minoranza uigura, Non si inginocchia per l’oppressione dei montagnard in Vietnam, né per la persecuzione degli sciiti in Barhain, Quando si troverà a correre in quei Gran Premi, non ci saranno pugni chiusi, ma i sorrisi di sempre.
Con che coerenza, allora, ci si tappano gli occhi contro le più palesi violazioni di diritti e ci si scaglia invece proprio contro il Paese al mondo che conferisce più opportunità a qualsiasi minoranza?
A pensarci bene, forse, in realtà una coerenza c’è. La genuflessione di domenica in nome dell’”anti-razzismo” forse è più parente di quanto si pensi delle genuflessioni alla Cina, al Vietnam o al Barhain. In entrambi i casi semplicemente si va dove sono i soldi. In Occidente i soldi stanno con la gigantesca macchina di marketing del “virtue signalling” e del “politicamente corretto”, in altri Paesi stanno con i relativi regimi statali. E non c’è nessuna necessità di scegliere tra i soldi garantiti dall’opportuno “lip service” al progressismo occidentale e quelli del “lip service” ai peggiori sistemi autoritari del resto del mondo – perché tanto non c’è alcuna vero conflitto tra queste due sfere che si rispettano perfettamente in nome di una sorta di amorale “cujus regio, ejus religio”.
È come per la Lega Calcio che si proclama in prima linea nella battaglia per i diritti delle donne e contro il femminicidio ed allo stesso tempo decide di andare a disputare la finale della Supercoppa italiana a Riyadh con tanto di segregazione sugli spalti. Qualcuno forse ci ha visto una contraddizione?
Ma la perfetta recita “anti-razzista” del Gran Premio austriaco ha avuto, a suo modo, la sua piccola nota stonata. Sei piloti – Charles Leclerc, Max Verstappen, Kimi Raikkonen, Daniil Kvyat, Antonio Giovinazzi e Carlos Sainz Jr – hanno rotto le righe e non si sono inginocchiati. E forse, più degli altri quattordici, il vero segnale lo hanno mandato loro: c’è anche chi, non senza qualche rischio personale in termini di immagine, è disposto a sostenere che la sostanza dei valori e dei comportamenti vale più dell’adesione a riti conformisti di sottomissione al “verbo di successo”.
E alla fine Charles Lecrerc, il “principino” monegasco della Ferrari, è persino arrivato davanti ad Hamilton.

Marco Faraci, 7 Lug 2020, qui.

Ebbene sì, purtroppo questa bellissima festa antirazzista antifascista antituttelecosebrutte, è stata guastata da un branco di fascisti razzisti (e secondo me anche leghisti populisti sovranisti) che sono rimasti in piedi,
piloti
cose che proprio non si possono vedere che uno si chiede ma che problemi ha la gente? (Ci avete fatto caso? È la moda linguistica del momento: quando si vede un comportamento che a qualcuno appare follemente incomprensibile, tipo camminare per la strada a ottocento metri dalla persona più vicina senza mascherina, pretendere, da parte di qualche genitore, che a settembre la scuola riparta, rifiutarsi di dire avvocata sindaca ministra ingegnera, la sconsolata domanda che parte è: “Ma che problemi ha la gente?”)

Restiamo in materia di antirazzismo e logica ferrea? Ma sì, restiamoci! Ed ecco questa gentile signora che con inoppugnabili argomenti scientifici ci spiega che i bianchi (la razza bianca? gli sporchi bianchi? I bianchi di merda?) sono un errore genetico recessivo (sic!) e usano il suprematismo bianco per difendersi, perché sanno benissimo che i negri, avendo la genetica dominante, sono destinati a dominare e non appena conquisteranno il potere faranno sparire i bianchi dalla faccia della terra. Leggere per credere.

E ancora un esempio di antirazzismo militante:

Fulvio Del Deo

Atalanta, Georgia.

Secoriea ha 8 anni ed è insieme alla sua mamma Charmaine. Sono in macchina con un’amica e vorrebbero andare a fare compere in un negozio. Lungo la strada incontrano i manifestanti “antirazzisti” che non vogliono farla passare. Loro sono tipe toste e non si lasciano intimidire da ipocriti fighetti che giocano alla rivoluzione. Non sanno però che i fighetti sono cinici e spietati e, come i loro predecessori nazisti, devono ubbidire all’ordine di farsi ubbidire. Così sparano e uccidono la bimba.

Dice ma quelle sono nere,
Sicoriea
mamma Sicoriea
di sicuro si vedeva anche attraverso i vetri della macchina che sono nere, se ce l’hanno coi bianchi perché sparare a loro? E dai su, non fatela tanto lunga, con tutti i boveri negri ammazzati dai bianchi cosa sarà mai una in più o una in meno.

E ancora in tema di violenza e di logica:

Fulvio Del Deo

Ricordate quando succedeva solo in Israele, che i palestinesi tiravano sassi alle auto e voi dicevate: “E’ per via dell’occupazione, quelli hanno preso la loro terra…”
E adesso perché non dite lo stesso?
Su, ripetete con me: “Ci ammazzano, ci fanno a pezzi e ci mettono nel trolley, ci pisciano addosso, ci spaccano la testa col machete, ci tirano i sassi ecc., perché abbiamo preso la loro terra!”

E ancora

Lorenzo Capellini Mion

Solo per ricordare che i luoghi di contagio del virus di Wuhan siano i bar, i ristoranti, i piccoli negozi, le spiagge, le chiese, i seggi elettorali e i comizi di Trump.
per protestare 1
per protestare 2
Pagliacci

Poi godiamoci questo spezzoncino di politica interna

E concludiamo la carrellata con Silvietta nostra, che finalmente ha concesso la sua prima intervista. A chi? Al giornale dei Fratelli Musulmani, ovvio!

“PER ME IL MIO VELO È UN SIMBOLO DI LIBERTÀ” – PER LA PRIMA VOLTA SILVIA ROMANO (PARDON, AISHA) PARLA DELLA CONVERSIONE E DELLA PRIGIONIA: “COPRENDO IL MIO CORPO SO CHE UNA PERSONA POTRÀ VEDERE LA MIA ANIMA” – “NEL MOMENTO IN CUI FUI RAPITA, INIZIAI A PENSARE: È UN CASO O QUALCUNO LO HA DECISO? QUESTE PRIME DOMANDE CREDO MI ABBIANO GIÀ AVVICINATO A DIO” – “PENSAVO DI ESSERE LIBERA PRIMA, MA SUBIVO UN’IMPOSIZIONE. SENTO DENTRO CHE DIO MI CHIEDE

1 – SILVIA ROMANO SI RACCONTA DOPO IL SEQUESTRO: “VI SPIEGO PERCHÉ HO DECISO DI CONVERTIRMI ALL’ISLAM”

Sono passati quasi due mesi da quando Silvia Romano è stata liberata ed è tornata in Italia. Era il 9 maggio scorso quando il premier, Giuseppe Conte, rivelò che la cooperante milanese, rapita nel novembre del 2018 mentre si trovava in Kenya con l’associazione Africa Milele, e tenuta prigioniera per oltre un anno e mezzo

Oggi, Silvia, che intanto si è convertita all’Islam e si fa chiamare Aisha, ha raccontato per la prima volta i mesi della prigionia e la decisione di diventare musulmana. Lo ha fatto rilasciando una lunga intervista al giornale online La Luce, di cui è direttore Davide Piccardo esponente della comunità islamica di Milano.

La decisione di partire per il Kenya

“Prima di essere rapita – ha dichiarato la ragazza – ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male”.
E neppure il volontariato era tra le sue priorità: “Fino alla fine del mio terzo ed ultimo anno di università, non avevo un particolare interesse nel partire e andare a fare volontariato. Verso la fine della tesi mi interessai moltissimo all’argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie.
Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri”.
Così è nata l’idea di andare in Kenya [a far giocare i bambini, che come tutti sanno è il primo dei bisogni del terzo mondo]. Un’esperienza che le ha letteralmente cambiato la vita. “Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? [Perché, prima era convinta che le cose brutte capitassero solo alle persone cattive? Che era scema l’avevamo capito da quel dì, ma fino a questo punto?!]
È un caso o qualcuno lo ha deciso? – ha continuato Silvia -. Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande
È così che ha cominciato un percorso di avvicinamento alla religione: “Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito.
Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia.
Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui. Poi a un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno”.

Il velo come simbolo di libertà: “Mi sento protetta da Dio”

Infine, ha concluso la giovane milanese: “Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me. Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere”.
Sulla questione velo, che ha indossato sin dal suo ritorno in Italia a maggio, ha detto: “Per me il velo è simbolo di libertà.
silvia
Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio“. (Qui. Segue il testo integrale dell’intervista, nel caso qualcuno avesse voglia di papparselo, che comunque secondo me ne vale la pena. Poi magari ci sarebbe anche questo)

E chiudo con questa cosa, che non c’entra niente ma la trovo bellissima.
ennio Ezio
barbara