A PROPOSITO DI QUELLA FOTO

Cioè questa

L’ho vista sui profili FB di un paio di amici e subito l’ho mandata a molti miei contatti; la reazione è stata la stessa per tutti: orrore, indignazione; parecchi mi hanno risposto, qualcuno l’ha ripresa su FB, una ha sentito addirittura il bisogno di telefonarmi immediatamente per condividere anche a voce l’orrore e lo sgomento che questa immagine suscita. Tutti. Cioè no, quasi tutti. Con un’amica di buona cultura, con inclinazioni artistiche, molto sensibile a tutto ciò che ritiene degno della sua sensibilità (per esempio l’imminente fine del mondo a causa del nostro egoismo, per scongiurare la quale siamo forse già fuori tempo massimo) c’è stato questo scambio.

Ormai è intesa come meta turistica e non più come luogo della Storia
Dato che siamo una colonia amerrrecana è un pò come andare a visitare Alcatraz.
Oggi in sconto a soli 128 dollari!

Davvero ti viene da paragonare Auschwitz con una prigione studiata per rendere innocui i criminali più pericolosi?

Viene trattata come meta turistica, questa è la questione.
Non è paragonabile a nulla ma – come altri luoghi di reclusione – è vissuto e visitato non per ciò che vi è accaduto, per la Storia che trasudano, bensì per un’idea che molti si sono construiti nella mente di questi luoghi.
Il cinema, tra gli altri mezzi, ne ha alimentato l’immaginario collettivo in senso decadente, svuotandone il senso e annullando l’insegnamento che invece si potrebbe trarre da certe terribili visite.

No, direi proprio di no. Infatti questa foto è talmente sconvolgente per tutti, che tutti la stanno condividendo, e tutti ne sono inorriditi. Fra le molte centinaia di commenti che ho visto in giro, il tuo è l’unico a non manifestare orrore e a considerare questa scena come qualcosa di consueto. E anche questo è sconvolgente.

E’ una cosa già accaduta diverse volte, quella di gente che si fotografa in ex campi di concentramento in pose simili.
E’ fa schifo sì, ma in questo mondo al contrario, senza più valori e al completo sbando sono ormai così delusa dalla maggior parte del genere umano che ormai non mi stupisce più nulla.

Ecco, qui non ci troviamo proprio: io sono molto felice, e orgogliosa, di riuscire ancora a continuare a stupirmi, e a indignarmi, e a inorridire. Di fronte al male e di fronte a tante altre cose. E sul fatto di “Auschwitz vissuto come meta turistica” – forse tu, diversamente da me, non frequenti molto questi temi – lasciami dire che sei totalmente fuori strada: la foto di quel branco di imbecilli ha suscitato orrore in tutti coloro che l’hanno vista – come detto, tu sei l’unica eccezione incontrata – proprio per la sua assoluta incongruenza e rarità.

Questo – non l’ho scritto nelle mie risposte perché non volevo innalzare inutilmente il livello della polemica – per me è cinismo puro. E a me fa orrore, ma soprattutto paura.

barbara

DELL’UCRAINA

È da più di un mese che non ne parlo, e il motivo è che non ce la faccio più. Non ce la faccio più a reggere le montagne di ipocrisia. Non ce la faccio più a reggere le montagne di menzogne. Non ce la faccio più a reggere allo spettacolo di questa corsa folle e sempre più accelerata, con gli entusiastici cori della folla plaudente – quella che le bombe se le prenderà in testa – verso la guerra globale e, quasi inevitabilmente, nucleare. Andrà a finire che dovremo constatare che Greta aveva sbagliato per eccesso di fiducia: il mondo finirà molto prima di dieci anni, e con lui tutti noi. E la nausea aumenta ogni giorno di più.

E l’ultima l’avete sentita? Per 78 anni siamo stati ingannati! A liberare Auschwitz sono stati gli ucraini, altro che le balle che ci siamo bevuti, frutto della propaganda del Cremlino! E a condividere queste deiezioni ho trovato anche quella che fino a un anno fa era una delle teste più lucide in circolazione. Ora, a parte il fatto che tutti abbiamo sempre sentito parlare di Armata Rossa, e che quella che adesso “il Cremlino vuole appropriarsi dei meriti ucraini” è l’ultima della serie di invenzioni ucraine con il sistema di proiettare sui nemici le proprie perversioni, e a parte anche il fatto che nessuno “è andato a liberare Auschwitz”: semplicemente andando in quella direzione si sono trovati di fronte a questa cosa che non conoscevano e che hanno impiegato un po’ a decifrare, per cui attribuirsi il merito della liberazione è una cazzata grande come una casa; a parte questo, avevo trovato un articolo che smontava la narrativa ucraina (anche loro, come i palestinesi hanno una “narrativa” parallela alla verità – parallela nel senso che con la verità non si incontra mai, neanche per sbaglio), spiegando bene come funzionava l’attribuzione del nome ai vari battaglioni. L’articolo era stato postato dall’amico Fulvio Del Deo su VK, la nuova piattaforma su cui sono emigrati parecchi utenti di FB, stanchi dei continui blocchi e della costante censura (a proposito, avrete probabilmente sentito che FB ha censurato la pubblicità del panino alla finocchiona toscana perché la parola è un insulto a una categoria protetta. Che poi io vorrei che qualcuno me lo spiegasse perché diavolo i froci dovrebbero essere protetti: ma cosa sono, dei cuccioli di panda? E a me che non sono finocchia invece mi si può tranquillamente prendere a calci sulla pancia?). Purtroppo quando l’ho visto non avevo molto tempo, ho dato una scorsa veloce riservandomi di passare più tardi a leggerlo più attentamente e scaricarlo. E male ho fatto, perché adesso i titolari dei vari profili trovano questo annuncio,

e chi tenta di entrare nella piattaforma si trova l’accesso negato. Un po’ come quando il bambino si mette a parlare di “quel signore che viene a casa quando il papà non c’è” e la mamma si precipita a tappargli la bocca.

In ogni caso per ristabilire la verità penso possa essere utile questo video, di otto anni fa e dunque non condizionato dalle narrative di guerra. Questo è il video

e questa la didascalia:

All’età di 21 anni, il luogotenente dell’Armata Rossa, Ivan Martynushkin, era il comandante di una compagnia di mitraglieri. Durante la Seconda Guerra mondiale ha percorso migliaia di chilometri, ma c’è un giorno molto particolare che è rimasto impresso nella memoria della sua lunga vita: il 27 gennaio del 1945.

Armata Rossa, come dicevo più sopra. Nessuna appropriazione indebita da parte del Cremlino, nessuna mistificazione ad opera di Putin, sempre e solo Armata Rossa. Lui, comunque, pare che sia russo.

E in mezzo a tutto questo c’è il fatto, veramente sconvolgente, di vedere un sacco di ebrei fare un tifo sfegatato per i nazisti, vedere persone che hanno dedicato una vita intera a smontare e documentare le bufale palestinesi che capovolgono la realtà spacciando le proprie azioni terroristiche per azioni israeliane e inventando di sana pianta fatti inesistenti. Persone che hanno imparato a riconoscere a naso il tanfo della bufala e ora si bevono i videogiochi spacciati per bombardamenti notturni russi sul territorio ucraino, si bevono fotomontaggi talmente mal fatti da superare in cialtroneria perfino quelli palestinesi, si bevono qualunque ciancia del buffone in maglietta verde prostituito agli interessi di una banda di magliari, si bevono perfino l’oscena storia degli ucraini liberatori di Auschwitz. Che squallore, mio Dio. E la nausea continua a salire.

E per aiutare a distinguere i fatti dalle leggende, eccovi due video di questi giorni.

barbara

PER RISTABILIRE LE GIUSTE PROPORZIONI

Elio Cabib
Karl Gorath
Questo è Karl Gorath. Quando aveva 26 anni, il suo amante geloso lo denunciava alla polizia come uomo gay. Il regime nazista aveva rafforzato l’attuale legge tedesca contro l’omosessualità, Paragrafo 175, per punire gli uomini sospettati di cosiddetta ′′indecenza innaturale′′ con altri uomini. Dopo essere stato denunciato, Karl è stato processato e condannato ai sensi del Paragrafo 175 e inviato al campo di concentramento Neuengamme, dove fu costretto a indossare un triangolo rosa sulla sua uniforme da prigioniero.
Il suo allenamento come infermiere alla fine lo ha fatto trasferire in un altro campo per lavorare in ospedale lì; tuttavia, quando una guardia gli ordinò di diminuire le razioni per i pazienti prigionieri polacchi di guerra, Karl si rifiutò. Fu mandato ad Auschwitz come punizione, dove rimase fino alla liberazione nel 1945.
Dopo la guerra ritornò in Germania. La sua convinzione ai sensi del Paragrafo 175 rimase nel suo record perché la Germania Ovest continuò a sostenere la versione nazista della legge. Karl è stato arrestato ai sensi del Paragrafo 175 una seconda volta negli anni ‘ 1950 Al suo processo, il giudice che lo condannava in prigione per omosessualità era lo stesso giudice che lo aveva mandato in un campo di concentramento per lo stesso motivo decenni prima. Dal 1945 fino a quando il Paragrafo 175 fu modificato nel 1969, la Germania Ovest imprigionò circa 100,000 uomini secondo questa legge. Il governo tedesco non ha abrogato completamente il Paragrafo 175 fino al 1994.
Karl fece diversi tentativi di reclamare le riparazioni dopo la guerra, come molti sopravvissuti alla persecuzione nazista. Gli è stato negato. Secondo gli ufficiali, non era ammissibile perché i suoi registri del campo dimostravano che era prigioniero del Paragrafo 175 È diventato uno dei primi sopravvissuti gay alla persecuzione nazista a raccontare pubblicamente la sua storia. Morì nel 2003, dopo molti anni di condivisione delle sue esperienze e attirando l’attenzione sulla situazione dei prigionieri del Paragrafo 175

Scopri di più sulla persecuzione degli uomini gay sotto il regime nazista: https://encyclopedia.ushmm.org/…/persecution-of-homosexuals

(foto per gentile concessione Karl Gorath)

Crediti USHMM

HSA – Holocaust Social Archive [ארכיון השואה]

Ecco: questa è omofobia. Questa è persecuzione, non quella in cui negli ultimi otto anni i reati riferibili all’orientamento sessuale e all’identità di genere sono stati 212, in media 26,5 all’anno. 

Se poi qualcuno si facesse illusioni sullo scopo e sull’impatto della legge, se dovesse passare:
ddl Zan
NOTA: il testo è evidentemente tradotto dall’inglese con alcune improprietà e traduzioni a orecchio o con traduttore automatico (convinzione, record). La traduzione non è mia, e ho lasciato il testo così come l’ho trovato.

barbara

COME DICE LA MIA AMICA LAURA

“Dio non sbaglia mai. Ma con le mosche e con alcune persone ci è andato molto vicino”.

Per esempio quando ha visto l’uomo in azione

ha pensato bene di mettergli vicino la donna, ed era sicuramente una buona idea. Solo che poi deve essersi un po’ distratto e gli è scappata fuori questa signora qui
Piera aiello
che, esattamente con quel sorrisetto furbo e ammiccante, spiega che gli ebrei deportati e gassati ad Auschwitz sono stati molto più fortunati di lei.

E poi gli è scappata fuori anche quest’altra signora qui
lamorgese
(e pensare che c’è ancora qualcuno che non ci crede che discendiamo dalle scimmie), che ci sta riempiendo casa di clandestini, molti dei quali infetti, per i quali non valgono le leggi a cui dobbiamo sottostare noi, e che
costi
ci costano un capitale – quello che per noi non c’è, ma per loro sì. E spero che nessuno mi venga a raccontare che questi qua
clandestini
sono partiti (dove sono i viveri? Dove l’acqua? Dove il carburante di riserva? Con quale motore per un carico di almeno una decina di tonnellate?) pensando di dover attraversare il Mediterraneo. E, come dice il generale Tricarico:
L. Tricarico
E ancora si deve essere distratto con la signora che sta facendo fuoco e fiamme per il fagiolo razzista e quella che vuole stuprare le statue e scoparsi tutt*. Le trovate entrambe qui (“A Ocasio di cane” merita almeno 184 minuti di applausi). La seconda, di cui non dice il nome, è Claudia Ska.

E infine una menzione ad honorem – lei la merita a prescindere – a questa signora qui
Cirinnà
che pare che stia masticando merda.

E poi – ma guarda tu cosa mi ritrovo a dover dire –  sembra avere ritrovato la concentrazione con questo e con quest’altro.

barbara

LO SAPETE VERO CHE AD AUSCHWITZ NON È MAI SUCCESSO NIENTE

Che l’olocausto non è mai avvenuto, che è una balla colossale inventata dai sionisti per impietosire il mondo e rubare impunemente la Palestina ai palestinesi che ci vivevano da dodicimila anni eccetera eccetera. Ecco, quanto segue è la prova documentale che ad Auschwitz, appunto, non è mai successo niente.

Rudolf Höss: non solo un assassino

Forse qualcuno ancora non sa (è strano, ma potrebbe essere così) che il primo comandante del campo di sterminio di Auschwitz, Rudolf Höss, prima di essere impiccato ha scritto un libro di memorie, con il titolo italiano “Comandante ad Auschwitz”. Ne riportiamo qui un estratto.

«Questo sterminio in massa, con tutti i fenomeni che lo accompagnarono, per quanto so, non mancò di lasciare tracce in coloro che vi presero parte. In verità, tranne pochissime eccezioni, tutti coloro che erano comandati a questo mostruoso «lavoro», a questo «servizio», ed io stesso, ebbero abbondante materia di riflessioni, e ne serbarono impressioni assai profonde. La maggioranza di essi, quando compivo i giri d’ispezione agli edifici destinati allo sterminio, mi si avvicinavano per sfogare con me le loro impressioni e le loro angosce, nella speranza che potessi aiutarli. La domanda che inevitabilmente sgorgava dalle loro conversazioni confidenziali era sempre una: è proprio necessario ciò che dobbiamo fare? È proprio necessario sterminare cosi centinaia di migliaia di donne e di bambini? E io, che nel mio intimo mi ero posto infinite volte le stesse domande, ero costretto a rammentar loro il comando del Führer, perché ne traessero conforto. Dovevo affermare che questo sterminio degli ebrei era veramente necessario, affinché la Germania, affinché i nostri discendenti, per il futuro fossero finalmente liberati dai loro nemici più accaniti.
È vero che l’ordine del Führer era indiscutibile per tutti, così come il fatto che questo compito dovesse essere assolto dalle SS. Ma ciascuno era tormentato da dubbi segreti. Quanto a me, in nessun caso avrei potuto esternare i miei dubbi. Per costringere i miei collaboratori a tener duro, dovevo a mia volta mostrarmi incrollabilmente persuaso della necessità di realizzare quell’ordine cosi spaventosamente crudele. Gli occhi di tutti erano fissi su di me; tutti scrutavano le impressioni suscitate in me dalle scene che ho descritto, tutti studiavano le mie reazioni. Insomma, ero al centro dell’attenzione di tutti, e ogni mia parola era oggetto di discussione. Dovevo perciò controllarmi all’estremo, perché sotto l’impressione di simili avvenimenti non venissero alla luce dubbi ed angosce. Dovevo apparire freddo e senza cuore, di fronte a fatti che avrebbero spezzato il cuore di ogni essere dotato di sentimenti umani. Non potevo neppure voltarmi dall’altra parte, quando sentivo prorompere in me emozioni anche troppo comprensibili. Dovevo assistere impassibile allo spettacolo delle madri che entravano nelle camere a gas coi loro bambini che piangevano o ridevano.
Una volta vidi due bambini talmente immersi nei loro giochi da non udire neppure la madre, che cercava di portarli via. Perfino gli ebrei del Sonderkommando non ebbero cuore di afferrare quei bambini. Lo sguardo implorante della madre, che certamente sapeva che cosa sarebbe accaduto di lì a poco, è qualcosa che non potrò mai dimenticare. Quelli che già erano entrati nelle camere a gas cominciavano a diventare irrequieti, e fu giocoforza agire. Tutti guardavano me: feci un cenno al sottufficiale di servizio e questi afferrò i due bambini che si dibattevano violentemente e li portò dentro, insieme alla madre che singhiozzava da spezzare il cuore. Provavo una pietà cosi immensa che avrei voluto scomparire dalla faccia della terra, eppure non mi fu lecito mostrare la minima emozione. Era mio dovere assistere a tutte le operazioni. Era mio dovere, fosse giorno o notte, assistere quando li estraevano dalle camere, quando bruciavano i cadaveri, quando estraevano i denti d’oro, tagliavano i capelli; dovevo assistere per ore e ore a questi spettacoli orrendi. Nonostante la puzza orribile, disgustosa, dovevo essere presente anche quando si aprivano le immense fosse comuni, si estraevano i cadaveri e si bruciavano. Attraverso le spie aperte nelle camere a gas dovevo assistere anche alla morte, perché i medici richiedevano anche la mia presenza. Dovevo fare tutte queste cose perché ero colui al quale tutti guardavano, perché dovevo mostrare a tutti che non soltanto impartivo gli ordini e prendevo le disposizioni, ma ero pronto io stesso ad assistere ad ogni cosa, cosi come dovevo pretendere dai miei sottoposti.
Il Reichsführer delle SS inviava spesso alti funzionari del Partito e delle SS ad Auschwitz, affinché assistessero alle operazioni di sterminio degli ebrei. Alcuni di costoro, che per l’innanzi erano stati zelanti assertori della necessità di queste stragi, assistendo a questa «soluzione finale della questione ebraica» diventavano molto silenziosi e pensosi. Spesso mi venne chiesto come potevo io, come potevano i miei uomini assistere di continuo a queste operazioni, come facevamo a resistere. Rispondevo sempre che tutte le emozioni umane dovevano tacere di fronte alla ferrea coerenza con la quale dovevamo attuare gli ordini del Führer. Ciascuno di quei signori dichiarava che non avrebbe voluto ricevere un compito analogo.
Perfino Mildner ed Eichmann, che senza dubbio erano tra i più «corazzati», non avrebbero affatto voluto prendere il mio posto: era un compito che nessuno mi invidiava. Spesso ho discorso a lungo, e a fondo, con Eichmann, su tutte le conseguenze legate alla soluzione finale della questione ebraica, senza però esternargli mai le mie intime angosce. Ho cercato anche, con tutti i mezzi, di scoprire quali fossero le sue vere convinzioni riguardo a questa « soluzione finale»; ma perfino sotto l’influenza dell’alcool – ciò che avveniva soltanto quando eravamo tra noi – egli sosteneva, in modo addirittura fanatico, la necessità di sterminare incondizionatamente tutti gli ebrei di cui potevamo impadronirci. Senza pietà, a sangue freddo, dovevamo eseguire il loro sterminio nel più breve tempo possibile. Ogni esitazione o compromesso, sia pure il minimo, un giorno sarebbe stato scontato amaramente».

E questo è un estratto dalla prefazione che ne ha fatto Primo Levi.

«A noi superstiti dei Lager nazionalsocialisti viene spesso rivolta, specialmente dai giovani, una domanda sintomatica: com’erano, chi erano «quelli dall’altra parte»? Possibile che fossero tutti dei malvagi, che nei loro occhi non si leggesse mai una luce umana? A questa domanda il libro risponde in modo esauriente: mostra con quale facilità il bene possa cedere al male, esserne assediato e infine sommerso, e sopravvivere in piccole isole grottesche: un’ordinata vita famigliare, l’amore per la natura, un moralismo vittoriano. Appunto perché il suo autore è un incolto, non lo si può sospettare di una colossale e sapiente falsificazione della storia: non ne sarebbe stato capace. Nelle sue pagine affiorano bensì ritorni meccanici alla retorica nazista, bugie piccole e grosse, sforzi di autogiustificazione, tentativi di abbellimento, ma sono talmente ingenui e trasparenti che anche il lettore più sprovveduto non ha difficoltà ad identificarli: spiccano sul tessuto del racconto come mosche nel latte.
Il libro è insomma un’autobiografia sostanzialmente veridica, ed è l’autobiografia di un uomo che non era un mostro, né lo è diventato, neppure al culmine della sua carriera, quando per suo ordine si uccidevano ad Auschwitz migliaia di innocenti al giorno. Intendo dire che gli si può credere quando afferma di non aver mai goduto nell’infliggere dolore e nell’uccidere: non è stato un sadico, non ha nulla di satanico (qualche tratto satanico si coglie invece nel ritratto che egli traccia di Eichmann, suo pari grado ed amico: ma Eichmann era molto più intelligente di Höss, e si ha l’impressione che Höss abbia prese per buone certe vanterie di Eichmann che non reggono ad un’analisi seria). È stato uno dei massimi criminali mai esistiti, ma non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese; la sua colpa, non scritta nel suo patrimonio genetico né nel suo esser nato tedesco, sta tutta nel non aver saputo resistere alla pressione che un ambiente violento aveva esercitato su di lui, già prima della salita di Hitler al potere.»

Se Primo Levi dice che Höss non era un mostro, dobbiamo forse pensare che voglia alleggerire la gravità di quello che ha fatto? È vero il contrario. Rudolf Höss non è “solo un assassino”: è molto di più. Perché “non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese”; perché era l’espressione di un’ideologia assassina che ha coinvolto nel crimine un’intera società costituita da persone “normali” come lui. E’ questa mostruosità sociale che deve sconvolgerci, non la mostruosità personale, tanto più caricata di colore oscuro quanto più se ne vuole prendere personalmente le distanze. Lo stesso può dirsi del “medico maledetto”, Josef Mengele. Anche lui, come Höss, voleva “soltanto” lavorare per il bene della sua nazione, mettere a profitto le sue capacità scientifiche e sfruttare l’ambiente “favorevole” che la società in quel momento gli metteva disposizione. E’ la mostruosità di questa normalità sociale che deve farci inorridire, più che l’anormalità di un mostro personale.
Ritengo, per inciso, che questo abbia voluto dire Giulio Meotti con il suo articolo “Professor Mengele”, riportato anche sul nostro sito. Ma molti non l’hanno capito. E in certi casi la cosa appare quasi incomprensibile. Marcello Cicchese.

(Notizie su Israele, 15 febbraio 2020)

Già, l’articolo di Meotti, che tante critiche indignate, inorridite ha suscitato in chi vi ha voluto vedere, niente meno, che una riabilitazione del famigerato dottor morte. Persone che hanno cancellato Meotti dalle proprie amicizie FB. Persone che hanno giurato che di lui non leggeranno mai più una sola riga. Evidentemente sapere che l’assassino Mengele aveva anche una solida preparazione scientifica li disturba molto. Evidentemente per stare bene hanno bisogno di pensare a Mengele come a un buzzurro semianalfabeta. Evidentemente anche loro, come troppi altri, quando la realtà confligge con la propria narrativa preferiscono cancellare la realtà e chi la diffonde. Probabilmente da sentimenti simili deriva anche il vezzo di definire Hitler “imbianchino”, cosa che trovo orribile, innanzitutto perché scredita una professione dignitosa e assolutamente necessaria, in secondo luogo perché Hitler questa professione non l’ha mai esercitata: Hitler era un pittore decisamente mediocre, ma era pittore, non imbianchino, e davvero non vedo l’utilità di questa falsificazione. E dunque onore a Meotti e a chiunque abbia il coraggio di proclamare la verità (e grazie anche a Marcello Cicchese che tanto si adopera a fare informazione).

barbara

LA SCOMPARSA DI JOSEF MENGELE

Classificato come romanzo, del romanzo ha in realtà solo la forma narrativa: l’intero contenuto è basato unicamente sui diari e sulle testimonianze di chi, in tutti gli anni della latitanza, ha avuto a che fare con lui. Dialoghi virgolettati e descrizioni sono praticamente assenti, e la ricchissima bibliografia che accompagna il racconto testimonia l’accuratezza e la vastità delle ricerche.
Del personaggio non ho molto da dire, se non che fra gli orrori perpetrati sulle vittime dei suoi “esperimenti” ve ne sono alcuni che non conoscevo, e la cui efferatezza non sarei mai arrivata a immaginare. Quello che invece voglio dire è che questo è un libro che dà soddisfazione, ma proprio tanta. Perché tutti noi, pensando a quest’uomo, ai suoi crimini, ai decenni di libertà, alla totale impunità di cui ha goduto, non riuscivamo a darci pace. Ebbene no, non è andata proprio così. Precisando, beninteso, che nessuna sofferenza patita da quest’uomo potrà mai lontanamente espiare i suoi crimini, che è blasfemo anche il solo pensarlo, emerge tuttavia che forse Eichmann, processato in una gabbia come un gorilla allo zoo, processato – horribile auditu! – proprio da quegli schifosi Untermenschen meritevoli solo di essere sterminati come scarafaggi, impiccato nel cortile di una prigione e cremato – cremato! Lui! Dagli ebrei! – e le ceneri disperse nel Mediterraneo affinché niente potesse restare di lui, ebbene Eichmann, a ben guardare, ha avuto forse una sorte meno malvagia di quella di Mengele. Che ha goduto, sì, delle immense ricchezze della famiglia che gli hanno permesso di comprarsi la libertà, con residenze ultraprotette e fedelissimi pronti a tutto, ma dopo alcuni anni relativamente sereni inizia, soprattutto con la spettacolare cattura di Eichmann da parte del Mossad, un inferno fatto di terrore di essere trovato, di messa in atto di misure di sicurezza che, letteralmente, gli impediscono di vivere, di isterismo e ipocondria che gli allontanano, a poco a poco, anche i più fedeli protettori. Non che con questo giustizia sia fatta, per carità, però a leggere il suo sprofondare sempre più, il ridursi a vivere – lui, l’elegantissimo e ricchissimo dandy che ha avuto tutto – in una baracca, sporco, trasandato, decrepito, evitato da tutti, ecco, una discreta soddisfazione la provi. Detto questo, aggiungo che è un libro davvero eccellente, che merita assolutamente di essere letto.
E voglio concludere riportando una pagina che non esito a definire spassosa. Ad un certo momento, dopo gli anni della grande rimozione, del grande silenzio, si comincia a parlare dei campi di concentramento e di sterminio, di ciò che vi è avvenuto, delle proporzioni di ciò che vi è stato perpetrato, e i nazisti argentini sono sconvolti da queste orribili calunnie che infangano l’onore della Germania. Con l’arrivo di Eichmann respirano di sollievo: lui era al centro di tutto, lui sa tutto, lui ha visto tutto coi suoi occhi: ora potranno, per suo tramite, gridare al mondo la verità!

A poco a poco il mondo scopre lo sterminio degli ebrei d’Europa. Escono sempre più libri, articoli, documentari dedicati ai campi di concentramento e di sterminio nazisti. Nel 1956, nonostante le pressioni del governo tedesco occidentale, che chiede e ottiene il suo ritiro dalla selezione ufficiale del festival di Cannes in nome della riconciliazione franco-tedesca, Notte e nebbia di Alain Resnais sconvolge le coscienze. Il Diario di Anne Frank conosce un crescente successo. Si parla di crimini contro l’umanità, di soluzione finale, di sei milioni di ebrei assassinati. La cerchia Dürer nega questa cifra. Si rallegra per l’impresa di sterminio ma stima in sole trecentosessantacinquemila le vittime ebree, smentisce gli omicidi di massa, i camion e le camere a gas; i sei milioni sono una mera falsificazione della Storia, l’ennesimo raggiro del sionismo mondiale per colpevolizzare e demoralizzare la Germania dopo averle dichiarato guerra e averle inflitto distruzioni spaventose, sette milioni di morti, le più belle città rase al suolo, la perdita dei territori ancestrali all’Est. Per Sassen e Fritsch solo un uomo è in grado di ristabilire la verità. Adolf Eichmann. Ha supervisionato tutte le tappe della guerra contro gli ebrei. Dopo la morte di Hitler, Himmler e Heydrich, è l’ultimo esperto, l’ultimo testimone chiave. Conosce gli attori, le cifre; potrà smentire. Gli ebrei hanno trascinato nel fango la Germania, Eichmann riscatterà il suo onore. Hanno montato la più grossa menzogna della storia per impadronirsi della Palestina, ma saranno pubblicamente sconfessati, le loro maschere e quelle dei loro manutengoli cadranno: la cerchia Dürer distruggerà le loro macchinazioni e lavorerà alla riabilitazione della Germania, alla redenzione del nazismo e del Führer. Fritsch e Sassen propongono a Eichmann di dire la sua sulla «pseudo soluzione finale». Dovrebbero ricavarne un libro, alla casa editrice Dürer piacerebbe pubblicarlo. L’idea affascina Eichmann. Dopo la chiusura della lavanderia ha lavorato in un’azienda di prodotti sanitari e, in mancanza di meglio, ormai alleva galline e conigli d’angora sotto il sole abbrutente della pampa. Le sue giornate sono lunghe e monotone, dà da mangiare agli animali, pulisce le gabbie, raccoglie gli escrementi e rimugina sul passato, sulla sua gloria di un tempo, sulla famiglia rimasta a Buenos Aires, sul quarto figlio appena nato, Ricardo Francisco, un miracolo, sua moglie ha quarantasei anni e lui quasi cinquanta. Si guadagna da vivere molto modestamente. Perciò, un libro sulla sua grande opera… basta anonimato e polli, una manna di quel genere non la si può rifiutare. Ridiventerà una star e si difenderà, lui che spulcia i giornali e la letteratura storica sa che il suo nome è regolarmente citato, a torto – si indigna –, i suoi figli devono conoscere la verità. I tedeschi lo plebisciteranno e la sua tribù potrà tornare in Europa a testa alta. Intanto lui, Fritsch e Sassen guadagneranno un mucchio di soldi con la vendita del libro.
Le sedute di registrazione cominciano nell’aprile del 1957, nel signorile domicilio del giornalista olandese. Tutte le domeniche uomini e donne si riuniscono intorno al grande organizzatore della Shoah, lusingato da tanta attenzione e felice di godersi i sigari e i whisky torbati del padrone di casa. Eichmann tormenta l’anello d’onore delle SS rispondendo alle domande di Sassen e di Fritsch, talvolta spalleggiati da ospiti con competenze più specialistiche, il grande Bubi von Alvensleben, ex aiutante capo di Himmler, e Dieter Menge, il fanatico asso dei cieli proprietario della grande estancia dove i nazisti amano riunirsi.
[…]
Frattanto Sassen e Fritsch proseguono i colloqui con Eichmann. Per sei mesi, «con l’infaticabile spirito dell’eterno tedesco», lui monologa, tutto fiero, a volte commosso fino alle lacrime dai propri racconti, dal proprio successo – «sei milioni di ebrei assassinati» –, dai rimpianti: non ha adempiuto la sua missione, «il completo annientamento del nemico». A Sassen, a Fritsch, alla cerchia Dürer, che non volevano credere alla «propaganda nemica», Eichmann conferma le proporzioni dello sterminio, descrive nei particolari le uccisioni di massa, le camere a gas, i forni crematori, i lavori forzati, le marce della morte, le carestie: la guerra totale ordinata dal Führer. Sassen e Fritsch, quegli agnellini, credevano che il nazismo fosse puro. Non si aspettavano le precisazioni di Eichmann. Oppure speravano che Hitler fosse stato tradito e Eichmann manipolato da potenze straniere. Sei milioni. Quella cifra li lascia scossi. Appena concluse le registrazioni prendono le distanze dal colpevole di crimini contro l’umanità. Hanno calato la loro ultima carta: hanno perso.

Olivier Guez, La scomparsa di Josef Mengele, Neri Pozza
la scomparsa di mengele
barbara

AUSCHWITZ: QUELLA VERA E LE ALTRE

È cominciato tutto con questo post pubblicato su FB da Giulio Meotti, critico sulla scelta di accogliere i cosiddetti migranti al Memoriale della Shoah al binario 21 a Milano.

Pessima la decisione della comunitá ebraica di Milano e del Memoriale della Shoah di aderire alla campagna umanitarista sui migranti, con impliciti paragoni fra la Shoah e le carrette del mare. La stampa vive di queste storie, con titoli edificanti sui “migranti al binario 21”. È due anni, che da Emma Bonino ai ministri svedesi, ci propongono il paragone fra ebrei nella Shoah e migranti nel Mediterraneo, fino a Papa Francesco che paragona i centri per migranti ai campi di concentramento. Si poteva usare il Binario 21 di Milano per manifestazioni a favore dei cristiani perseguitati, delle yazide stuprate, di tante minoranze oppresse dagli stessi nemici del popolo ebraico, le vere vittime della destabilizzazione in corso, non certo i migranti accuditi e protetti. Quello era “onorare la memoria della Shoah”. Gli ebrei dovrebbero difenderla nel momento di massimo negazionismo e mistificazione, di cui i palestinesi fanno quotidiano abuso, anche evitando queste trappole ideologiche sentimentali. Israele lo fa, curando chiunque, onorando la memoria della Shoah ma anche difendendo confini e cultura.

Immediatamente si è scatenato il finimondo da parte dei Buoni di Professione, che hanno preso a latrare come cani rabbiosi, arrivando a dare a Meotti del fascista. Tenace come un pilastro di cemento armato e deciso come un caterpillar, Meotti ha continuato a scrivere per denunciare la vergognosa banalizzazione della Shoah – molto peggiore del negazionismo – sempre più rampante.


Come la Shoah diventa il prezzemolo ideologico per chiudere ogni discussione

 “L’immigrazione e il linguaggio della menzogna. C’è chi spaccia per nuova Shoah la gestione dei nostri confini”

Giulio Meotti

Roma. L’approccio pragmatico all’immigrazione clandestina, il “metodo Minniti”, gli accordi con la Libia e la sua guardia costiera che compie i blocchi, il faticoso tentativo di gestione dei flussi, la firma di un protocollo di intesa con le ong. Come combattere tutto questo? Manipolando il linguaggio, aumentando il peso di parole e immagini portandole a livelli impossibili da sopportare, dispiegando il paragone storico più eclatante, appellandosi all’inaudito, al mai visto. I migranti sono la “nuova Shoah”. Come ha scritto Pascal Bruckner nella “Tirannia della penitenza”, “è così che diventiamo responsabili retroattivamente degli orrori commessi dai nostri antenati o dall’umanità intera”. Non è soltanto quello che fa Roberto Saviano su Repubblica, accusando Matteo Salvini di “attirare la canaglia razzista”, una bella stimmate. E’ quello che fanno a tamburo battente media e ong. “Quello dei migranti è un Olocausto”, iniziò Furio Colombo sul Fatto Quotidiano. Famiglia Cristiana: “Nell’olocausto dei migranti che avviene quotidianamente nel Mar Mediterraneo”.
Le proteste all’hub di Bagnoli, riportate questa settimana dal Corriere della Sera, sono scandite da queste frasi: “Mettiamo fine a questo scempio da campo di concentramento”. Linkiesta ha appena chiamato gli hotspot “campi di concentramento dove mancano solo forni e Zyklon B”, il gas usato dai nazisti per sterminare gli ebrei a Birkenau. Padre Zanotelli questa settimana alla trasmissione “In Onda” su La7: “Sui migranti un giorno diranno di noi quello che noi diciamo dei nazisti e della Shoah”. Il Manifesto ci va giù a raffica: “Crepano nei campi di concentramento della Libia”. E ancora Guido Viale: “Come quello che ha preceduto lo sterminio nazista”. E Alessandro Dal Lago, che paragona le misure sulle ong a “quando la Svizzera chiuse le frontiere agli ebrei in fuga dal nazismo”. Sempre il Fatto Quotidiano la scorsa settimana: “Campi di concentramento gestiti dal governo”. Oxfam Italia, la ong critica dell’accordo del governo Gentiloni con la Libia, parla di “veri e propri lager”. L’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati: “Hotspot? Solo lager”. Se sono “lager”, le autorità italiane e libiche sono “carnefici”.
Giorgio Pagano, presidente dell’Associazione Mediterraneo, ha appena detto: “I nostri nipoti, se continuiamo così, forse diranno quello che oggi noi diciamo dei nazisti”. La Repubblica: “L’Olocausto dei migranti”. Moni Ovadia: “La Shoah di oggi? Il Mediterraneo”. Avvenire: “Profughi, l’Europa non ripeta l’errore che fece con la Shoah”. E poi la bella gente dello spettacolo. “Shoah ieri, migranti oggi: Ute Lemper canta per gli invisibili”. A ruota il Pime, il centro missionario di Milano: “La Shoah e i profughi”. “L’Olocausto che si ripete ogni giorno”, dicono le chiese evangeliche d’Italia. E ancora i convegni promossi dalla Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, con interventi di Pietro Grasso, Laura Boldrini e Gad Lerner, uno dei quali tenuto al Binario 21 di Milano, il Memoriale della Shoah che ospita i migranti. Titolo: “L’Europa, la Shoah, la strage nel Mediterraneo”. E richiami all’untermensch, il sub-umano nazista. E’ così che si azzera il dibattito su accoglienza e controlli, diventiamo tutti nazisti, in Libia come in Italia, e un governo italiano che prova a gestire i flussi è “collaborazionista”.
E’ la prima volta che in un paese occidentale si chiude ogni discussione sull’immigrazione evocando la Shoah, tara inespiabile. E’ manicheismo: da una parte, i buoni che vogliono “fermare la Shoah” e, dall’altra, i collaborazionisti. Chi si oppone è un “bystander” da anni Quaranta. “Salvare vite umane”, costi quel che costi. Impedire il “nuovo Olocausto”. “Fuck Imrcc” dice la nave dei tedeschi Iuventa. E alla fine, nella foga, ti scappa anche “l’Olocausto palestinese”.

(Kolot, 11 agosto 2017)

E ancora il giorno dopo.


La truffa del “nuovo Olocausto”

Giudici che paragonano un centro per migranti a un lager nazista. Intellettuali alla Erri de Luca che parlano di “sterminio di massa” di migranti. Alla radice del grande inganno culturale e lessicale di chi non vuole governare l’immigrazione

di Giulio Meotti

ROMA – L’ideologia, messa in circolazione dai giornali, finisce spesso per entrare nelle sentenze dei magistrati. Ieri, la prima sezione civile del tribunale di Bari ha condannato la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno a versare un risarcimento di 30 mila euro al comune di Bari. Motivo? Il “danno all’immagine” causato dalla presenza di un “cie”, i centri di identificazione dei migranti. “Si pensi ad Auschwitz, luogo che richiama alla mente di tutti immediatamente il campo di concentramento simbolo dell’Olocausto” osserva il magistrato. “E non di certo la cittadina polacca sita nelle vicinanze”.
Dunque, secondo la magistratura un centro per migranti sfigurerebbe il territorio barese come ha fatto il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau alla cittadina polacca di Oswiecim. L’uso sbrigativo, la reiterata propensione comparativa di categorie esplosive, come “sterminio” e “genocidio”, iniziò proprio contro i cie. “Quei lager chiamati Cie”, partì MicroMega dedicandogli un dossier. Poi La Repubblica, sorella nel gruppo Espresso: “Ecco l’inferno del centro immigrati. Campo di concentramento al San Paolo”. La Repubblica sembra aver ritrovato una missione nell’immigrazione, elevandola a causa ideologica, contro il tentativo del governo Gentiloni e del ministro dell’Interno Minniti di regolare i flussi dalla Libia. Si inizia con i pezzi di cronaca, come quello dell’8 agosto: “Libia, arrivano meno migranti che così finiscono nel lager” scrive Rep. Nei confronti dei migranti si consumano “atrocità degne dei peggiori campi di sterminio del XX secolo”. Si scopre che la Kolyma non è più battuta dalle tormente siberiane, ma dalle tempeste di sabbia del deserto libico. La polacca Sobibor oggi è la libica Sabha.
Coloro che consideravano “banalizzante” e dissacrante il paragone tra i sei milioni di ebrei dello sterminio nazista con i milioni nei regimi comunisti, gli anti-comparativi di allora, si sono trasformati nei supercomparativi che ora considerano doveroso mettere sullo stesso piano la più grande tragedia della storia con i campi per migranti in Italia e in Libia. Ieri è arrivato, rilanciato su Repubblica, l’appello firmato da intellettuali, personalità e ong, dal titolo “Io preferirei dino”, accompagnato dal filo spinato di un lager. Il titolo richiama i dodici professori che si rifiutarono di firmare il giuramento Gentile al regime fascista, lo storico Gaetano De Sanctis, il chimico Giorgio Errera, l’orientalista Giorgio Levi della Vida, il filosofo Piero Martinetti e lo storico dell’arte Lionello Venturi. Sui migranti, si legge nell’appello, “è in corso un nuovo sterminio di massa”. Allora “il nostro governo non è indifferente a questa carneficina ma complice”, inviando navi per impedire ai migranti di lasciare le coste e “perseguitando” le ong, Fra i firmatari, lo scrittore Erri de Luca e il critico d’arte Tomaso Montanari, l’Arei ed Emergency, sindacalisti, Mani Ovadia, sacerdoti come Alex Zanotelli e la Comunità di San Benedetto di don Gallo, ma anche i segretari di Sinistra Italiana e Rifondazione, Nicola Fratoianni e Maurizio Acerbo, e poi Vauro (quello che a Servizio Pubblico faceva vignette sull'”Olocausto dei migranti”). E’ lo stesso Erri de Luca che vede “vernichtung”, sterminio, ovunque, tranne dove c’è stato, come nelle terre dell’Isis. De Luca ha lanciato la campagna contro “lo sterminio degli ulivi pugliesi” (che tempi quando Elie Wiesel implorava i commentatori di tutto il mondo ad astenersi dal tirare in ballo l’Olocausto persino sul Kosovo). Paragoni che diminuiscono la capacità di capire e di distinguere.
Ma a una cosa servono: riaprire le rotte, costi quel che costi. Poi uno ripensa alle vecchie edizioni di Repubblica. E si ricorda che il “lager”, prima che nei centri per migranti, il grande quotidiano lo ha visto rinascere in una caserma di Genova: “Il lager Bolzaneto”. “Bolzaneto, il lager dei Gom”. “Il lager-prigione di Bolzaneto”. “Bolzaneto, immagini dal lager”. Di questo passo la Shoah è diventata tutto e niente. In Italia si iniziò chiamandola “Giorno della memoria”, quando in tutto il mondo è la “Giornata internazionale di commemorazione delle vittime dell’Olocausto”. Si è finiti istituendo la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”.

(Il Foglio, 12 agosto 2017)

E concludo la rassegna degli interventi di Giulio Meotti con questo post pubblicato, sempre su FB, poche ore fa in cui, con la sanguigna passione di sempre, risponde agli insensati attacchi della signora politicamente corretta di turno.

Mi ero promesso di non reintervenire, visto il liquame d’odio che mi era colato addosso dopo tre brevi articoli in cui si invitava il Memoriale della Shoah di Milano che ha aperto agli immigrati a non strumentalizzare e banalizzare la memoria. Ma se un deputato della Repubblica, Milena Santerini, mi attacca (articolo sotto), si merita una risposta, non rimarrò in silenzio. Specie perchè questa professoressa e politica, citando Liliana Segre, mi paragona alla “gente perbene” che nel 1943 rimase in silenzio mentre da Milano si deportavano gli ebrei ad Auschwitz. Santerini ha almeno l’onestà di paragonare gli ebrei avviati al macello industriale ai migranti avviati alla salvezza umanitaria: “l’indifferenza degli spettatori”, dice. Quella di Santerini è una pagliacciata ideologica spacciata per buoni sentimenti, è tornaconto elettorale, è falsa coscienza, è posizionamento di comodo, è abuso della storia, della politica e delle parole. Per questa gente la memoria è un banale rito pedagogico, o peggio, un intrattenimento popolare alla Vita è bella. La stanno uccidendo la memoria. A Milano ci sono state marce con decine di migliaia di persone a favore dei migranti. Ogni giorno sulla nostra stampa si paragonano gli ebrei decimati ai migranti salvati. Averne avuti gli ebrei di tanta “indifferenza” nel 1943, mentre li portavano al crematorio di Birkenau, ai camion a gas di Belzec, ai roghi a cielo aperto di Chelmno, nelle fosse delle Einsatzgruppen. Questi onorevoli, questi custodi della memoria, non si sono mai visti quando gli ebrei saltavano in aria nei bus ad Afula, quando i missili finivano nelle loro scuole a Sderot, quando venivano sgozzati nei loro letti a Itamar, quando venivano fatti a pezzi al Dolphinarium. Nessuno di loro parla mai sul mondo arabo-islamico negazionista dell’Olocausto. Anzi, spesso il giorno dopo questi compassionevoli di professione denunciavano la “rappresaglia” di Israele, la sua “occupazione” come causa di quei bagni di sangue. Ho incontrato troppi parenti di israeliani assassinati per non provare vergogna del loro doppio standard e della loro memoria vuota che usano come una clava. All’onorevole Santerini faccio infine notare che non sono affatto “per bene”, ma proprio un “fascista”, un “razzista”, uno “xenofobo”, peggio dunque degli spettatori di allora.

Aggiungo questa breve riflessione inviata a Informazione Corretta da Maria Pia Bernicchia (se dovesse esserci qualcuno che non la conosce, potrà agevolmente trovare informazioni in rete)

E’ davvero vergognoso che si speculi sulla Shoah e succede ancora troppo spesso. Fare paragoni significa non avere capito il principio basilare su cui poggia lo studio dello sterminio del popolo ebraico. Significa non avere letto, ascoltato, visto, pianto… abbastanza! E’ ora di finirla di equiparare i poveri profughi ai deportati ebrei. Nessuno li va a prendere, nessuno li tira giù dal letto a pugni e botte, nessuno li sbatte in carri bestiame, nessuno li deporta a morire in un altrove che l’INDIFFERENZA di tutti si rifiutava di vedere. E’ ora di finirla di equiparare gli israeliani ai nazifascisti. Chi continua a sostenerlo non sa, non vuole sapere… Infine è ora di finirla di considerare Auschwitz e Birkenau la Disneyland della Polonia. Non è sopportabile per chi come me fa ricerca da oltre 50 su quell’Inferno vederlo associato in viaggi di piacere che porteranno turisti a visitare Cracovia e…. già che siamo lì vediamo anche Auschwitz. Ad Auschwitz-Birkenau ci si va per andare ad Auschwitz-Birkenau. Se davvero ci si va dopo aver studiato e letto e pianto…. vi assicuro che non resta molta voglia per vedere altro. Shalom

M.Pia Bernicchia

E ancora una riflessione del giovane Gianluca Pontecorvo.

“Shoah e migranti, paragone che non esiste”

Gianluca Pontecorvo, Consigliere UCEI

Ho letto con dispiacere l’articolo di Gadi Luzzatto Voghera apparso venerdì su questo notiziario.
Polemiche simili sono ormai all’ordine del giorno all’interno dell’ebraismo italiano. Polemiche a cui si è sempre deciso di rispondere tramite altri canali ma è evidente che se il perimetro dello scontro/confronto diventa pubblico non ci si può esimere dal rispondere altrettanto pubblicamente. E pazienza se per una volta a rimetterci è la collettività. Se non scrivessi tali parole sul lungo periodo sarebbe solo peggio.
Giulio Meotti, soggetto non esplicitato nell’articolo dal direttore del CDEC, è un giornalista stimato e che merita con sincerità tutto il nostro apprezzamento. Un giornalista serio che non manca mai di metterci la faccia e mette costantemente a repentaglio anche se stesso per poter sostenere le proprie idee, tra cui ovviamente la difesa di Israele e degli ebrei. Ce ne fossero altri cento come Giulio Meotti nel panorama giornalistico italiano e non ci sarebbero problemi come antisemitismo e antisionismo in Italia.
Sottoscrivo inoltre le parole dell’amico Giulio nel registrare un certo sgradevole fenomeno politicizzato nel voler a tutti i costi rendere sempre più presente l’associazione tra Shoah e immigrati. L’ultimo della serie è comparso su Huffpost a firma di Roberto Della Seta: “Aiutiamoli a casa loro, significa nei lager libici?”.
Che senso ha fare tali paragoni? Che senso ha continuare ad ospitare migranti all’interno del Memoriale della Shoah di Milano che non rischiano, oggettivamente parlando, a causa dell’indifferenza, di finire nei forni crematori?
Certe cose bisogna dirle chiaramente e non ci si può più nascondere dietro un dito.

 (Moked, 13 agosto 2017)

Di questa indecente banalizzazione avevo, nel mio piccolo, scritto anch’io, già quasi quattro anni fa.
E infine ricordo – l’ho già fatto molte volte, ma non mi stancherò mai di continuare a farlo – il bellissimo libro di Giulio Meotti Non smetteremo di danzare.

barbara