E QUANDO CREDI CHE ABBIANO TOCCATO IL FONDO

loro sono già al settantaquattresimo piano interrato. Quella credevo essere il fondo è la gender archaeology: la conoscevate? L’ho trovata ieri girando per FB:

Galatea Vaglio

1p0o sh0r1g8  · 

La gender archaeology continua ad interessare il pubblico: qui la mia intervista su Radio Immagina. 
La gender archaeology è un arbitro che controlla che i reperti non siano interpretati attraverso pregiudizi di genere: non vuole imporre una visione in cui le donne avevano necessariamente il potere, solo evitare che sulla base di pregiudizi la loro presenza venga negata o sottostimata. 
( E grazie, come semore, alle #lezionidistoria su Valigia Blu e ad @Arianna Ciccone

Stendiamo un velo pietoso sull’italiano (che se dovessi correggere non saprei da che parte cominciare), da parte di una che ha scritto un libro per insegnare come si parla e scrive correttamente in italiano, ma apprezziamo moltissimo che “non vuole imporre una visione in cui le donne avevano necessariamente il potere” – e si noti l’indicativo, che sembrerebbe suggerire che le donne avrebbero effettivamente avuto il potere, il che induce a chiederci come mai poi lo abbiano perso fino a ridursi, non di rado, a mera proprietà dell’uomo. Poi non mi è molto chiaro il ruolo di quel “necessariamente”, soprattutto in quella posizione, ma sarà sicuramente un limite mio. Quello che invece mi è proprio del tutto oscuro è a chi mai potrebbe venire in mente di negare la presenza delle donne, se non altro per il piccolo dettaglio che le persone hanno continuato a nascere. Cioè, è vero che i teorici del gender, di cui la Signorina è una strenua sostenitrice, negano categoricamente che solo le donne possano partorire, però di prove finora non mi sembra che ne abbiano portate molte. Bon, come dice il buon Andrea Marcenaro. Questo è il fondo, dicevo. Che ho inviato a un gruppetto di amici. Uno dei quali mi ha risposto:

Perché voi non sapete che c’è il gender climate change. Basta cercare con google. E poi c’è questa perla:

Il Pene come Causa del Climate Change

Pubblicato da Massimo Lupicino il 23 Maggio 2017

Tenetevi forte perché l’argomento è decisamente…hot.

Due accademici americani: Peter Boghossian, insegnante di filosofia all’Università di Portland e James Lindsay, dottore in matematica con studi in fisica, hanno pensato bene di dimostrare quanto fosse ridicolo, assurdo e politicamente motivato il processo di peer-review di paper che trattano argomenti cari al versante liberal. Per farlo, hanno deciso di inventarsi di sana pianta un paper con il seguente titolo: “Il Pene Concettuale come Costrutto Sociale”. Un paper-bufala, volutamente privo di alcun senso, basato su due cavalli di battaglia molto cari al versante liberal più militante: ovvero la critica di qualsiasi espressione di mascolinità in ogni sua forma e, ovviamente, il Climate Change. Il tutto condito da termini ed espressioni roboanti quanto del tutto prive di significato.
Il loro esperimento ha avuto successo: il paper-bufala in questione è stato infatti referato e pubblicato dalla rivista Cogent Social Sciences, che orgogliosamente si definisce “rivista multidisciplinare che offre peer-review di alta qualità nel campo delle scienze sociali”.

L’Abstract:

Cominciamo subito con l’Abstract, semplicemente esilarante nonostante l’obbiettiva difficoltà che si incontra nel tradurre un testo volutamente sconclusionato:

Il pene anatomico potrebbe anche esistere, ma come le donne transgender hanno un pene anatomico prima dell’operazione, allo stesso tempo si può sostenere che il pene a fronte del concetto di mascolinità è un costrutto incoerente. Noi sosteniamo che il pene concettuale si comprende meglio non come organo anatomico, ma come costrutto sociale isomorfico ad una tossica mascolinità prestazionale. Attraverso una dettagliata critica discorsiva post-strutturalista e basandoci sul’esempio del climate change, questo paper sfiderà la visione prevalente e dannosa che il pene venga concepito come organo sessuale maschile, e gli assegnerà, piuttosto, il ruolo più consono di elemento di prestazione maschile”.

Con un Abstract del genere, si può intuire facilmente che l’articolo è ricco di perle. Come questa, per esempio:

Così come la mascolinità è intimamente legata alla prestazione, allo stesso modo lo è il pene concettuale (…). Il pene non dovrebbe essere considerato come onesta espressione dell’intento dell’attore, quanto piuttosto dovrebbe essere presentato in un’ottica di performance di mascolinità o super-mascolinità. Quindi l’isomorfismo tra il pene concettuale e quello che la letteratura femminista definisce “super-mascolinità tossica” è definito attraverso un vettore di “machismo braggadocio” culturale maschile, con il pene concettuale che gioca il ruolo di soggetto, oggetto, e verbo dell’azione

Il giudizio dei reviewers

Cogent Social Sciences ha accettato l’articolo con giudizi incredibilmente incoraggianti, e assegnando voti altissimi in quasi tutte le categorie. Uno dei reviewer ha commentato: “L’articolo cattura l’argomento della super-mascolinità attraverso un processo muti-dimensionale e non lineare”. L’altro reviewer l’ha giudicato “Outstanding” in ogni categoria. Tuttavia prima della pubblicazione Cogent Social Sciences ha richiesto alcune modifiche per rendere il paper “migliore”. Modifiche che gli autori hanno apportato in un paio d’ore senza particolari patemi, aggiungendo qualche altra scempiaggine come il manspreading (la tendenza che certi uomini hanno a sedersi con le gambe allargate), e “la gara a chi ce l’ha più lungo”.

E il Climate Change?

Gli autori hanno sostenuto nel paper che il climate change è concettualmente causato dai peni: “Il pene è la fonte universale prestazionale di ogni stupro, ed è il driver concettuale che sottende alla gran parte del climate change”.

Approfondendo l’ovvio concetto nel seguente modo:

Gli approcci distruttivi, insostenibili ed egemonici maschili nel mettere sotto pressione la politica e l’azione ambientalista sono il risultato prevedibile di uno stupro della natura causato da una mentalità dominata dal maschio. Questa mentalità si comprende meglio riconoscendo il ruolo che il pene concettuale riveste nei confronti della psicologia maschile. Applicato al nostro ambiente naturale, specialmente agli ambienti vergini che possono essere spogliati facilmente delle loro risorse naturali e abbandonati in rovina quando i nostri approcci patriarcali al guadagno economico li hanno privati del loro valore intrinseco, l’estrapolazione della cultura dello stupro inerente al pene concettuale appare nella sua chiarezza”.

Il pensiero degli autori

Gli autori dell’articolo-bufala dedicano ampio spazio ai motivi che li hanno spinti a scrivere il paper in questione, e criticano senza pietà i fondamentalismi legati all’ideologia liberal prevalente. Fondamentalismi che sottendono anche alle pubblicazioni scientifiche e, in particolare, a quel processo in sé delicatissimo di peer-review che dovrebbe aiutare a distinguere la cattiva ricerca da quella buona.
Gli autori intendevano provare o meno l’ipotesi che l’architettura morale costruita dai settori accademici più liberal fosse la discriminante prevalente nella decisione se pubblicare o meno un articolo su una rivista. In particolare, la tesi degli autori era che gli studi sul gender fossero inficiati dalla convinzione quasi-religiosa nel mondo accademico che la mascolinità fosse causa di ogni male. A giudicare dal risultato, si può ben dire che la loro ipotesi sia stata pienamente confermata.

Il “dietro le quinte”

Tra le curiosità più degne di nota va segnalato che gli autori, al fine di sostenere la teoria della causa peniena del climate-change, hanno anche allegato un riferimento totalmente sconclusionato ad un articolo inesistente creato da un generatore algoritmico di paper a sfondo culturale chiamato “Postmodern Generator”.
Inoltre hanno volutamente riempito l’articolo di termini gergali, contraddizioni implicite (come la tesi secondo cui gli uomini super-mascolini sono sia al di fuori che all’interno di certi discorsi nello stesso momento), riferimenti osceni a termini gergali riferiti al membro maschile, frasi insultanti per gli uomini (come la tesi secondo cui chi sceglie di non avere figli non è in realtà capace di “costringere una compagna”).
Dopo aver scritto il paper gli autori l’hanno riletto attentamente per assicurarsi che “non significasse assolutamente niente” e avendo avuto entrambi la sensazione che non si capisse di cosa il paper parlasse, hanno concluso che il risultato era stato pienamente raggiunto.
Infine gli autori concludono che il fatto che un articolo del genere sia stato pubblicato su una rivista di scienze sociali solleva questioni serie sulla validità di argomenti come gli studi sul gender, e sullo stato delle pubblicazioni accademiche in generale “Il Pene Concettuale come Costrutto Sociale non avrebbe dovuto essere pubblicato perché concepito per non avere nessun significato: è pura insensatezza accademica senza alcun valore”.

Pensieri alternativi

  • Per quanto ricco di spunti obbiettivamente esilaranti, l’esperimento di Boghossian e Lindsey pone delle questioni serie, gravi e ineludibili sullo stato della scienza, delle pubblicazioni accademiche, del processo di peer-review e in generale sull’influenza e la pervasività che in ambito accademico hanno certe posizioni fideistiche, para-religiose (ma rigorosamente laiche e laiciste) legate alla politica e al pensiero liberal prevalente.
  • Il climate change fa parte a pieno titolo dell’armamentario di cui i pasdaran dell’ortodossia liberal si servono per giustificare, spiegare, sostanziare qualsiasi cosa. Dalle guerre alle migrazioni, passando per la finanza e la sociologia, il climate change c’entra sempre. O non c’entra nulla. Questione di punti di vista.
  • Molto spesso capita di leggere su paper di argomento climatico delle postille messe lì in modo apparentemente posticcio, a mo’ di pietosa foglia di fico che suonano come: “questa ricerca sembra mettere in discussione la narrativa sul global warming antropogenico, ma in realtà non è così”. In quanti casi sono gli stessi reviewers di riviste completamente esposte e schierate sul versante del climate change catastrofista, a richiedere espressamente l’aggiunta di queste postille?
  • E in quanti casi, paper scientificamente validi saranno stati bocciati per il solo fatto di contraddire la narrativa e la “linea editoriale” della rivista in questione? [moltissimi, lo sappiamo per certo] E come si traduce tutto questo nella libertà di fare ricerca, da scienziato vero, e libero, e non da lavoratore a cottimo pagato per dimostrare quello che gli sponsor della ricerca si aspettano? E quello che gli editori della rivista vogliono leggere?

Sono tutte domande che restano inevase, ma l’esperimento in questione conferma che si tratta di domande legittime che attengono alla qualità del sistema di referaggio scientifico e, soprattutto, all’uso politico che si fa della ricerca scientifica.

…E riflessione finale

Mi si perdonerà l’espressione poco accademica, ma credo proprio che qualcuno si sentirà un po’ più libero, da oggi, nel dire che “il Climate Change è proprio una teoria del c*zzo”. Del resto, c’è anche un paper accademico a sostenere questa tesi. Un paper referenziato da una rivista che “offre peer review di alta qualità”. E se le referenze sono la stampella su cui i soloni del mainstream appoggiano teorie sempre più zoppicanti alla luce dell’evidenza sperimentale, non si vede perché lo scettico sboccato (ed esasperato) debba essere ingiustamente privato dello stesso privilegio. (qui)

Di teorie deliranti ho portato ampie documentazioni in questo blog, e delle altrettanto deliranti argomentazioni prodotte dai loro sostenitori, a partire appunto dalla fantomatica emergenza climatica e da quell’autentico delirio di onnipotenza che porta a credere che l’uomo possa controllare e guidare il clima. Ho già ricordato quella signora che alla mia obiezione che duemila anni fa Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti, cosa oggi neppure concepibile per via di neve e ghiaccio, ha risposto: “Evidentemente non è passato per le Alpi”, trasformando anche la storia in un optional. Adesso vi aggiungo un’altra novità: da un bel po’ di anni il ghiaccio dei poli sta aumentando, o yes (e se vi avanzano ancora due minuti leggete anche i commenti: sono interessanti). Comunque, cari amici uomini, occhio al  pisello, che se non state attenti, oltre a gravidanze indesiderate guardate quanti altri disastri ci combina (no, è inutile che ve lo facciate tagliare: vi resta sempre quello concettuale).

barbara

RISCALDAMENTO CIODUE EMERGENZA CLIMATICA E BLABLABLA

Dell’imminente glaciazione anzi no dell’imminente scioglimento di tutti i ghiacciai della terra anzi no ci stiamo raffreddando ma è per colpa del caldo lo stesso e comunque ci sono i cambiamenti climatici e comunque c’è l’emergenza climatica e da almeno una sessantina d’anni abbiamo dieci anni per invertire la rotta prima che il mondo sia distrutto, di questo abbiamo già abbondantemente parlato in questo blog. Oggi torno sul tema per dimostrare che OGGI ci sono i cambiamenti climatici, come possiamo vedere qui

clic per immagine ingrandita

Ah no, forse mi ero sbagliata, quelli c’erano anche mille anni fa, duemila anni fa, tremila anni fa, quattromila anni fa… No vabbè, però adesso ci sono gli eventi estremi di cui una volta quando non c’era il malefico essere umano o almeno quando non c’era questo consumismo selvaggio degli ultimi anni non c’era traccia. Giusto?

Ehm, no forse mi sono sbagliata di nuovo, non ci sono neanche quelli. PERÒ C’È LA CIODUE, LA FAMIGERATA CIODUE! Provate a negarlo se avete il coraggio. La ciodue che distruggerà il pianeta e tutta la vita su di esso. Guardate, lo dice anche questo signore qui che siamo pieni di ciodue.

MUTANDE PAZZE

PUBLISHED ON 19 AGOSTO 2021BY ROBERTO

Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 17 Agosto 2021
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=55496

Un giorno gli alieni atterreranno sulla Terra. Probabile che la troveranno ricoperta in buona parte di ghiacci, come ciclicamente accade al nostro Pianeta, che ha passato più tempo a battere i denti dal freddo nelle ere glaciali, che a godersi un piacevole tepore  durante i fortunati periodi inter-glaciali come quello che stiamo vivendo (pur lamentandocene).
Per ritrovare testimonianze di una civiltà umana ormai purtroppo estinta, gli alieni ricorreranno a carotaggi nel ghiaccio, che restituirà loro vestigia del passato di una gloriosa civiltà la cui auto-distruzione sarà diventata materia di studio presso tutte le università aliene della Galassia.
Eh sì, perché gli alieni saranno davvero affascinati alla scoperta del modo originalissimo in cui una civiltà in apparenza progredita come quella umana riuscì a suicidarsi nell’incredibile convincimento che la CO2, il cibo delle loro piante e il mattone elementare della loro vita, fosse invece un pericoloso inquinante capace di alterare in modo catastrofico il clima del loro Pianeta. Da lì seguirono una serie di scelte economiche sciagurate che gettarono le economie occidentali nella depressione economica e nel caos, e prepararono le basi per un conflitto mondiale senza vincitori.
In una missione dedicata a quella che fu l’Italia, i carotaggi avverranno nelle valli alpine, che saranno ricoperte da strati di ghiaccio spessi centinaia di metri, come accadde all’apice dell’ultima glaciazione. Gli alieni scopriranno anche in Italia (come negli altri paesi europei) gli stessi segni e testimonianze di come, a fronte di un cambiamento del clima terrestre verso condizioni molto più fredde, la “comunità scientifica” negò con forza l’evidenza.
Ci si dedicò infatti inizialmente a raffinatissimi esercizi di “omogeneizzazione” dei data-set climatici per dimostrare che il passato era stato ancora più freddo, anche se nessuno se n’era accorto. Infine, si attribuì il troppo freddo al troppo caldo, in un inspiegabile esercizio oratorio che con la scienza non aveva niente a che vedere, ma che era perfettamente in linea l’approccio da “scienza molle” che si era deciso di dare alla ricerca in campo climatico.
Ma la narrativa era dettata dai media, e la scienza si era messa diligentemente al servizio di chi i media li governava (e le ricerche sul clima le finanziava), come accade in tutte le civiltà in cui la concentrazione di poteri, ricchezze e associate influenze supera un livello critico ben noto agli studiosi e ai politici alieni.
E poi quel finale tragicomico, con la popolazione intirizzita chiamata a sbrinare le pale eoliche e a rimuovere la neve dai pannelli solari, in un tentativo disperato di rendere utilizzabili le stesse fonti energetiche che già mostravano tutta la loro inefficienza in condizioni climatiche più favorevoli. Le stesse fonti energetiche su cui gli umani facevano incredibilmente affidamento per salvarsi dalla morte imminente per “troppo caldo” profetizzata dagli scienziati di allora.
Ma tra tutti i carotaggi ce ne sarà uno che lascerà gli alieni decisamente interdetti.
Si tratterà di un manifesto pubblicitario di un “body contenitivo”: un capo di biancheria che gli alieni liquideranno irrispettosamente come un paio di mutandoni elastici per terrestri con problemi di linea. Ma ad attrarre l’attenzione sarà una nota sul manifesto pubblicitario, in apparenza criptica: “Emissioni CO2 compensate”. Un vero rompicapo per gli alieni, inizialmente incapaci di comprendere l’associazione tra l’acquisto di un bene voluttuario come un paio di mutandoni smagrenti, e la questione scientifica politico-economica delle emissioni di CO2.
Trattandosi di una civiltà progredita, gli alieni riusciranno comunque a capire che il riferimento alla “compensazione” andava inteso come una forma di auto-tassazione dei produttori di mutande per flagellarsi davanti ai loro clienti del fatto di emettere CO2 nel processo produttivo della lingerie. Ridicolo e grottesco, certo, ma comunque comprensibile alla luce del fatto che i terrestri, sulle fondamenta di quella scemenza assoluta del pericolo-CO2, avessero costruito un monumento alla stupidità che non risparmiava assolutamente nulla, nemmeno la biancheria intima.
Semmai gli alieni ne faranno una questione di marketing: considerata l’ignoranza media dell’essere umano (ritenuta dagli alieni la causa prima della sua propensione ad accettare come realistiche e credibili le ridicole profezie climatiche veicolate dai media di allora), cosa avrebbe potuto capire l’acquirente di mutande da quel riferimento alle emissioni “compensate”? Intrigati dal mistero, e solleticati dall’argomento invero pruriginoso (anche gli alieni indosseranno le mutande per nascondere e al tempo stesso valorizzare le loro vergogne?) avranno fatto alcune ipotesi:

  • Il terrestre avrà colto l’essenza del messaggio pubblicitario? Ovvero che il produttore di mutande con quella curiosa espressione intendeva in effetti avvertirlo che il costo della biancheria sarebbe aumentato a causa delle tasse sulle emissioni di CO2? Gli alieni concluderanno di no: perché sarebbero state necessarie conoscenze economiche che il terrestre medio decisamente non aveva.
  • Allora forse il terrestre avrà ritenuto che le mutande servissero a contenere inopinate e imbarazzanti flatulenze? In effetti il produttore avrebbe potuto “compensarle” grazie ad un sistema di contenimento a micro-filtri adsorbenti collocato nella parte posteriore della mutanda… Col risvolto climaticamente virtuoso di ridurre le emissioni in atmosfera di gas-serra di origine intestinale.
  • Oppure il terrestre avrà pensato ad un sistema di sconti per chi era afflitto da problemi di meteorismo? Qualcosa del tipo: compra le mie mutande e ti ri-compenso se emetti molte flatulenze? Sarebbe servito un certificato medico per usufruire dello sconto? O piuttosto una dimostrazione dal vivo in negozio in appositi stanzini dotati di gas detector?
  • O al contrario, il potenziale acquirente le avrà viste come qualcosa di minaccioso? Del tipo: guarda che se emetti troppe flatulenze finirai per far aumentare i gas-serra. E quindi le mutande me le paghi di più! Una interpretazione non lontana dal punto 1) ma più alla portata del terrestre medio.
  • E infine un’ultima ipotesi: ovvero che l’acquirente di mutande avrebbe liquidato la pubblicità con una alzata di spalle, come l’ennesima clima-cazzata. E come l’ennesimo, goffo esempio di “virtue-signalling” da parte dell’azienda di turno.

Ipotesi, quest’ultima, scartata con decisione dagli alieni. Perché se ci fosse stata una coscienza vera e diffusa della ridicolaggine e della ascientificità della narrativa allora dominante sul “Climate Change”, forse gli esseri umani si sarebbero salvati. E forse, delle clima-cazzate del ventunesimo secolo avrebbero potuto ancora raccontare di persona, tra le risate generali degli umani e degli alieni stessi. (qui)

Poi guardate qui

e ditemi se possono sussistere dubbi sul fatto che sia ritardata, per non parlare di quel ghigno da psicopatica – da psicopatica pericolosa, maligna, perfida, sadica, così, insomma. E tocca perfino assistere a questo

Precisando che la ritardata bianca, anche se dimostra 11 anni, ne compirà 19 fra tre mesi, mentre la ritardata nera ne ha 23. Mala tempora currunt, fratelli, e nessuno che vada in giro ad agitare qualche campanello per svegliare il branco di idioti che si accoda a queste pericolose stronzette analfabete.
E alla fine di tutto, non resterà che questo:

barbara

QUELLA GRAN CIOFECA DELLA SERIE “CHERNOBYL”

Come sa chi mi segue, non guardo la televisione da quarant’anni, quindi la cosa non mi riguarda personalmente, ma siccome vedo in giro un sacco di gente convinta di avere visto che cosa realmente è successo a Chernobyl, riprendo questo ottimo articolo che mostra l’abissale distanza fra la fiction e la realtà.

Perché la serie “Chernobyl” di HBO sul nucleare sbaglia

giugno 11, 2019

[Tradotto dall’originale inglese [1] di Michael Shellenberger [2] a cura di Enrico Brandmayr per il Comitato Nucleare e Ragione]

Fin dall’inizio la mini-serie prodotta da HBO sul disastro nucleare del 1986, “Chernobyl”, ha riscosso il plauso dei media per l’accuratezza dei fatti narrati, seppur con qualche licenza artistica.
“La prima cosa da capire riguardo alla serie “Chernobyl”, ha scritto un giornalista su The New York Times, “è che si tratta in gran parte di finzione. Il secondo dato, e più importante, è che questo non importa granché”.
Il giornalista continua evidenziando lo stesso particolare inaccurato di cui già scrissi il mese scorso: “per qualche ragione le vittime da radiazioni sono spesso intrise di sangue”.
Ma HBO coglie correttamente “una verità di base,” scrive ancora, ovvero che Chernobyl fu “più conseguenza di bugie, insabbiamenti e un sistema politico marcescente… piuttosto che un’indicazione sull’inerente bontà o malvagità dell’energia nucleare”.
Su questo punto il creatore della serie “Chernobyl” Craig Mazin ha messo l’accento. “La lezione di Chernobyl non è la pericolosità dell’energia nucleare moderna,” ha scritto in un tweet, “ma che la menzogna, l’arroganza e la soppressione del dissenso sono pericolose”.
Gli addetti ai lavori del nucleare concordano. “I telespettatori potrebbero chiedersi quale sia la rilevanza della narrazione hollywoodiana al di fuori dell’Unione Sovietica” scrive il Nuclear Energy Institute. “In poche parole: non molto”.
Personalmente non ne sono convinto. Dopo aver visto tutti i cinque episodi “Chernobyl” e la reazione del pubblico, penso sia ovvio che la mini-serie abbia terrorizzato milioni di persone in merito alla tecnologia nucleare.
“Due settimane dopo aver finito di guardare la serie, non potevo smettere di pensarci” ha scritto una giornalista di Vanity Fair. “L’immagine che più mi ha colpito è stata la vista dei corpi dei primi soccorritori avvelenati dalle radiazioni, così devastati dall’esposizione che imputridiscono lentamente e, orribilmente, rimanendo disperatamente attaccati alla vita”.
“Ho guardato la serie con mio marito, e dopo per giorni abbiamo ricercato su Googledettagli sul disastro, inviandoci a vicenda particolari morbosi” continua la giornalista di Vanity Fair, “mentre mio padre… ha fatto ricerche su tutte le centrali nucleari in esercizio negli Stati Uniti”.
“Ho guardato il primo episodio di Chernobyl”, scrive in un tweet Sarah Todd, giornalista sportiva del Philadelphia Inquirer. “Quindi ho passato ore a leggere di energia nucleare. Ora sono in preda al panico e ho bisogno che qualcuno mi rassicuri in merito al fatto che si possa vivere tranquillamente sulla costa est degli Stati Uniti, sapendo che questa è la situazione”.
In molti hanno pensato che la mini-serie trattasse, infatti, di energia nucleare in sé.
“Il personaggio più caratterizzato della serie è probabilmente la stessa energia nucleare” scrive un critico per The New Republic. “Se ne parla continuamente, la sua natura è continuamente descritta e dibattuta… diviene un demone”.
Questo tipo di reazione non viene solo dai media. “Dopo aver visto Chernobyl ho cercato immediatamente su Google la centrale nucleare più vicina” scrive un telespettatore su Twitter. “Spaventoso”, aggiunge un altro, “ho visto un sacco di sangue e orrore in TV, ma questo li supera tutti. Perché? Perché potrebbe accadere ancora”.
“Attenzione a cosa sta accadendo in Bielorussia” mi ha scritto un artista. “Abbiamo paura della nostra nuova centrale nucleare perché è costruita dai russi. Hanno buttato giù il primo reattore da quattro metri di altezza”, ha detto. “Il secondo è stato danneggiato durante il trasporto, ma lo hanno installato ugualmente. Quindi mentre guardate la serie “Chernobyl”, per favore tenete a mente che potrebbe accadere ancora, e presto”.

Su cosa “Chernobyl” sbaglia

Nelle sue interviste riguardo al lancio di “Chernobyl”, il suo creatore, Mazin, ha più volte rassicurato sull’aderenza ai fatti realmente accaduti. “Mi sono piegato alla versione meno drammatica dei fatti”, ha detto Mazin, “non è bene oltrepassare la linea del sensazionalismo”.
In realtà, “Chernobyl” la linea del sensazionalismo la attraversa fin dal primo episodio, senza mai voltarsi indietro.
In un episodio, tre volontari sacrificano la loro vita per drenare dell’acqua radioattiva, evento mai accaduto.
“I tre personaggi erano in realtà gli operatori della centrale responsabili di quel settore dell’impianto, in turno al momento del disastro”, nota Adam Higginbotham, autore di Midnight in Chernobyl, una storia del disastro ben documentata. “Semplicemente ricevettero telefonicamente dal loro superiore l’ordine di aprire le valvole”.
Né le radiazioni contribuirono in alcun modo alla caduta di un elicottero, come “Chernobyl” sembra voler suggerire. Ci fu, sì, un elicottero caduto, ma i fatti avvennero sei mesi dopo il disastro e la causa fu l’impatto con una gru.
Il sensazionalismo più eclatante in “Chernobyl” sta nel descrivere le radiazioni come contagiose, alla pari di un virus. L’eroina-scienziata interpretata da Emily Watson letteralmente trascina via la moglie incinta di un pompiere che sta morendo di Sindrome Acuta da Radiazioni (SAR).
“Fuori! Fuori di qui!” grida Emily Watson, come se ogni secondo in più passato dalla donna al capezzale del marito contribuisse ad avvelenare il bambino che porta in grembo.
Ma le radiazioni non sono contagiose. Una volta rimossi i vestiti e accuratamente lavati, come avvenne in realtà per i pompieri, e anche nella serie “Chernobyl” la radioattività è contenuta nell’organismo.
Si può ipotizzare che sangue, urine, o sudore di una vittima di SAR possano recare una certa dose dannosa (non un’infezione) ma non vi è alcuna evidenza scientifica che ciò possa essere avvenuto durante il trattamento delle vittime di Chernobyl.
Perché dunque gli ospedali isolano i malati con teli di plastica? Perché il loro sistema immunitario è depresso e rischiano di essere esposti ad agenti patogeni per loro letali. In altre parole, la minaccia di contaminazione è l’opposto di quella dipinta nella serie “Chernobyl”.
Il bimbo muore. Emily Watson dice che “Le radiazioni avrebbero ucciso la madre, ma il feto le ha assorbite.” Mazin e la HBO apparentemente credono che tale scena sia realistica.
HBO cerca poi di ripulire il sensazionalismo con alcune note nei titoli di coda. Nessuna nota però specifica come ipotizzare che un feto muoia per aver assorbito radiazioni dal padre sia sublime fantascienza.
Non vi è alcuna prova attendibile che Chernobyl abbia mai ucciso un feto, né che abbia in alcun modo apprezzabile aumentato l’occorrenza di difetti alla nascita.
“Ad oggi abbiamo potuto osservare tutti i bambini nati al tempo di Chernobyl,” affermava nel 1987 Robert Gale, medico a UCLA, e “nessuno di loro, almeno alla nascita, mostrava deformazioni.”
Senza dubbio, l’unico impatto sulla salute pubblica mai documentato  furono 20,000 casi certi di cancro alla tiroide in minori di 18 anni al tempo del disastro.
Le Nazioni Unite nel 2017 conclusero che solo il 25%, 5,000 casi, poteva essere attribuito al disastro (paragrafi A-C). Negli studi precedenti, l’ONU aveva stimato fino a 16,000 i casi potenzialmente attribuibili alle radiazioni di Chernobyl.
Essendo il tasso di mortalità del cancro alla tiroide pari all’1%, le morti attese per cancro alla tiroide dovuto alle radiazioni di Chernobyl sono tra 50 e 160 su un arco di vita di 80 anni.
Alla fine la HBO sostiene l’occorrenza di “un drammatico picco di casi di cancro tra Ucraina e Bielorussia” ma anche questo non è vero.
I residenti di questi due Paesi “furono esposti a dosi di radiazione di poco superiori al fondo ambientale” secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se mai ci fossero stati casi di cancro aggiuntivi questi rappresenterebbero “circa lo 0.6% delle morti per cancro normalmente attese in queste popolazioni per altre cause”.
Le radiazioni non sono la terribile tossina di cui “Chernobyl” narra. Nell’episodio pilota, le alte dosi di radiazioni fanno sanguinare i lavoratori, e nel secondo episodio, un’infermiera che tocca appena un pompiere vede la propria mano arrossire, come ustionata. Nessuna delle due cose è avvenuta o è possibile.
“Chernobyl” mostra minacciosamente un gruppo di persone radunate su un ponte per guardare l’incendio. Nei titoli di coda la HBO chiosa che “è attestato che nessuno di loro sopravvisse. Il ponte è oggi chiamato Il ponte della Morte”.
Peccato che “il ponte della morte” sia soltanto una formidabile leggenda metropolitana senza alcuna prova a supporto.
“Chernobyl” è altrettanto ingannevole per ciò che omette di raccontare. Vorrebbe far credere che tutti i primi soccorritori colpiti da SAR siano morti. In realtà, l’80% di loro sono sopravvissuti.
È chiaro che anche spettatori istruiti e informati, come i giornalisti, abbiano preso molto della finzione di “Chernobyl” per fatti.
The New Yorker ha rilanciato l’illazione che un feto “assorbì la radiazione” e morì. The New Republic ha descritto le radiazioni come “supernaturalmente persistenti” e contagiose (stile “zombie”, per cui ogni vittima diviene a propria volta un untore”). The EconomistPeople, ed altri hanno rilanciato la leggenda metropolitana del “ponte della morte”.
Questa cattiva narrazione ha un costo umano. L’idea che le persone colpite da radiazioni siano contagiose fu usata per terrorizzare, stigmatizzare e isolare le vittime di Hiroshima e Nagasaki, di Chernobyl e, ancora, di Fukushima.
Le donne della zona che ricevettero basse dosi di radiazioni dal disastro di Chernobyl abortirono, nel panico, tra 100,000 e 200,000 gravidanze e le vittime da radiazioni di Chernobyl risultarono affette da depressione, ansia e sindrome post traumatica da stress quattro volte di più del resto della popolazione.

Perché “Chernobyl” fraintende così tanto il nucleare

“Chernobyl” dichiaratamente narra le menzogne, l’arroganza e la soppressione del dissenso del regime comunista sovietico. Eppure la vita nell’Unione Sovietica degli anni Ottanta è rappresentata nella serie altrettanto inaccuratamente e melodrammaticamente quanto le radiazioni.
“La narrazione è piena di personaggi che agiscono per paura di essere giustiziati,” annota un giornalista di The New Yorker. “Questo è inaccurato: esecuzioni sommarie, o sulla base degli ordini di un singolo funzionario, sono un retaggio dell’Unione Sovietica degli anni Trenta”.
Il filo conduttore della serie è lo sforzo eroico degli scienziati di scoprire le cause del disastro, ma gli scienziati sovietici “erano perfettamente al corrente dei difetti dei reattori RMBK da anni”, fa notare Higgenbotham, e “specialisti del reattore giunti da Mosca entro 36 ore dall’incidente ne individuarono chiaramente e prontamente le cause”.
Il bisogno di drammatizzare non spiega da solo i fraintendimenti di “Chernobyl” sul nucleare.
Consideriamo come uno degli eroi scienziati del film descrive le radiazioni: come “un proiettile.” Ci chiede di immaginare Chernobyl come “tre milioni di milioni di proiettili nell’aria, nell’acqua e nel cibo… che spareranno per 50 mila anni”.
Le radiazioni però non sono come proiettili. Se lo fossero, saremmo tutti morti, dal momento che in natura siamo continuamente esposti alle radiazioni. E alcune persone che sono esposte a più proiettili, come gli abitanti del Colorado, di fatto vivono più a lungo.
Il proiettile del primo episodio diviene ben presto un’arma. “Il reattore 4 di Chernobyl è ora una bomba nucleare” dice l’eroe scienziato, una che esplode “ora dopo ora” e “non si fermerà… prima di aver ucciso tutto il continente.”
Prima di aver ucciso tutto il continente? La paura insinuata nello spettatore è, ovviamente, quella della guerra nucleare. Così “Chernobyl” usa lo stesso repertorio di tanti altri film di disastri nucleari.
Nel film del 1979 intitolato La sindrome Cinese è famosa la frase di uno scienziato che afferma che una centrale nucleare “potrebbe rendere inabitabile un’area delle dimensioni della Pennsylvania”.
Hollywood ha preso a prestito la narrazione falsa della fusione del nocciolo come un’esplosione nucleare dai capi del movimento anti nucleare quali Ralph Nader, che nel 1974 asseriva che “un incidente nucleare avrebbe potuto spazzare via Cleveland e i sopravvissuti avrebbero invidiato i morti”.
In sostanza, “Chernobyl” fraintende il nucleare alla pari di come l’umanità nel suo insieme lo ha frainteso negli ultimi sessant’anni, ovvero aver mutato la nostra paura delle armi nucleari in paura delle centrali nucleari.
A ben guardare, il disastro di Chernobyl dimostra invece come il nucleare sia la più sicura tra le fonti di produzione di elettricità. Nei peggiori disastri nucleari, solo una limitata quantità di radiazioni viene dispersa nell’ambiente e gli effetti sulla popolazione sono molto limitati.
Per il resto del tempo, le centrali nucleari riducono l’inquinamento atmosferico, diminuendo il ricorso a combustibili fossili e biomasse. Per questo motivo l’energia nucleare ha salvato circa due milioni di vite fino ad oggi.
Se vi è un lato positivo in “Chernobyl” e altra spazzatura pseudoscientifica come il libro di Kate Brown, docente del MIT, Manual for Survival, sta nella comparsa di nuovi coraggiosi scienziati delle radiazioni e giornalisti onesti come Higgenbotham.
“Le centrali nucleari non emettono né anidride carbonica né altri inquinanti in atmosfera e si dimostrano statisticamente più sicure di ogni altra forma di produzione energetica”, scrive, “incluse le turbine eoliche”.
E per quanto riguarda la nostra esagerata paura delle armi nucleari, gli ultimi 74 anni sono stati i più pacifici degli ultimi 700. Con la diffusione degli ordigni nucleari, le morti causate da guerra e combattimento sono calate del 95%.
Potrà la coscienza umana evolvere in modo da comprendere come qualcosa di così pericoloso abbia in realtà reso il mondo più sicuro?
Sono sempre più speranzoso. Uno dei migliori libri che abbia letto recentemente è un’etnografia di scienziati addetti agli ordigni nucleari, Nuclear Rites, scritta da un attivista anti nucleare poi divenuto antropologo, Hugh Gusterson.
Nel finale egli ammette che “la deterrenza nucleare ha avuto un ruolo chiave nell’evitare lo spargimento di sangue genocida di una terza guerra mondiale, e se un mondo pieno di ordigni nucleari è un mondo pericoloso, similmente, e per altre ragioni, è pericoloso un mondo senza la ferrea disciplina imposta dalle armi nucleari”.
Se Hollywood mai decidesse di raccontare la vera storia del nucleare, e spiegare agli spettatori la relazione paradossale tra pericolo e sicurezza, non avrebbe bisogno di ricorrere al sensazionalismo. La verità è già sensazionale di per sé.

Note:

[1] https://www.forbes.com/sites/michaelshellenberger/2019/06/06/why-hbos-chernobyl-gets-nuclear-so-wrong/#581f4903632f

[2] Michael Shellenberger, statunitense, è presidente di Environmental Progress, un’organizzazione di ricerca e politiche energetiche ambientali. “Eroe dell’Ambiente” secondo la rivista Time, ha vinto il Green Book Award. Scrive per The New York Times, Washington Post, Wall Street Journal, Scientific American, Nature Energy, and PLOS Biology. I suoi TED talks hanno oltre 1.5 milioni di visualizzazioni. (qui)

Come viene mostrato nella prima parte dell’articolo, sembrerebbe proprio che lo scopo della serie sia quello di terrorizzare. Esattamente come all’epoca si è tentato di terrorizzarci con lo spettro della catastrofe nucleare (e qualcuno oggi commenta: abbiamo abolito il nucleare, quando in realtà per risolvere il problema bastava abolire il comunismo). E proprio sull’onda di questo terrore indotto è stato indetto quel referendum (al quale purtroppo non ho potuto votare perché mi trovavo in Somalia – non che il mio voto avrebbe cambiato qualcosa in questa reazione di pancia) che NON chiedeva di chiudere le centrali nucleari esistenti, ma il cui risultato è stato usato per fare esattamente questo, costringendoci così a comprare a peso d’oro il nucleare prodotto venti metri oltre la nostra frontiera – dopo che ci avevano raccontato che la nube radioattiva si espande per miliardi di miliardi di chilometri. E va da sé che quelli che il nucleare no per carità sono gli stessi che il carbone no perlamordiddio, petrolio neanche parlarne, rigassificatori peggio che andar di notte, centrali idroelettriche vade retro Satana, e per andare a prendere il pane a settanta metri da casa prendono il SUV.

POST SCRIPTUM. Fino all’anno in cui sono andata in pensione, nel 2012, ho visto ogni anno arrivare a Brunico alcune decine di “bambini di Chernobyl”, che per tre settimane venivano ospitati da famiglie locali, affinché potessero respirare aria buona e “disintossicarsi dal nucleare”. Bambini di scuola elementare e media. Ventisei anni dopo l’incidente. Mi sono sempre posta delle domande. Non ho mai trovato risposte.

barbara