Davvero, non dovete chiederlo, perché sono domande che non possono avere risposta. Non chiedetegli perché proprio Sarajevo, e non un altro inferno. Non chiedetegli perché quella bambina, e non un’altra delle piccole sopravvissute. Non chiedetegli perché, da un momento all’altro, gli scatti la follia di volerla adottare e portare via di lì, combattendo con tutte le proprie forze contro la burocrazia, contro la ragionevolezza, contro la logica, contro gli ostacoli che sembrano essersi coalizzati per rendere impossibile la sua impresa. E non chiedetevi neanche perché tutto, improvvisamente, cominci a girare per il verso giusto, compreso il casuale incontro con quella grandissima – perfettamente riconoscibile benché mimetizzata – donna che, pur comparendo così poco, tanta parte ha avuto nella nostra storia, e che con raffinata sapienza riesce a sistemare, col sorriso sulle labbra, le situazioni più disperate. No, non c’è assolutamente niente che dobbiate o possiate chiedere; l’unica cosa che dovete fare è leggerlo: non ve ne pentirete. Franco Di Mare, Non chiedere perché, BUR
La bambina. Mamma bianca, papà nero, lei mulattina, sui due anni, un bijou. Veniva verso di me mentre stavo andando a fare colazione; in questi casi io mi fermo, per non mettere il bambino in condizione di venirmi a sbattere addosso, o di dover bruscamente scartare. Arrivata davanti a me si è fermata anche lei, con la testa in su per guardarmi in faccia. Ho allungato le braccia, lei ha alzato le sue e l’ho presa in braccio. Le ho fatto un po’ di coccole e poi l’ho rimessa giù, le ho fatto ciao ciao e mi sono riavviata verso il ristorante. Dopo qualche passo, sentendo i genitori parlottare e ridacchiare, mi sono girata: si era di nuovo allontanata da loro e mi stava seguendo. Allora le ho teso la mano e lei me l’ha saldamente afferrata; ho fatto ancora qualche passo, poi sono tornata indietro fino a suo padre, a cui ha dato l’altra mano, e lentamente ho staccato la mia (con bambini e animali, innocenti e senza malizia, in effetti, sono sempre in perfetta sintonia. È con gli adulti che mi capita, a volte, di avere problemi).
L’acquazzone. Un vero, autentico acquazzone tropicale. Sì, lo so che roba così c’è anche da noi, ne ricordo uno a Roma, nel luglio dell’86, che gli acquazzoni tropicali gli facevano una pippa, e un nubifragio, sempre a Roma nel dicembre dello stesso anno, che ha bloccato Fiumicino per un’ora intera, per non parlare di questo, ma insomma ragazzi, un acquazzone tropicale è pur sempre un acquazzone tropicale, e io me lo sono proprio goduto.
Che poi anche lì mi è andata bene da tutti i punti di vista: avevo visto in internet che la media, in quel periodo, è di 7-8 giorni di pioggia al mese, e quindi per due settimane avevo calcolato tre o quattro giorni, e invece ne ho avuti solo due, giusto quello che ci vuole per prendersi un momento di pausa e prendere un paio di foto da esibire.
Le cicatrici. Su raccomandazione della fisioterapista, ci ho schiaffato sopra una tonnellata di sunblock; ciononostante mi sono diventate di un bel color vinaccia. Quella sul ginocchio destro è praticamente un bassorilievo di un cavalluccio marino in grandezza naturale.
Il mistero del WC. Il buco di scarico era molto piccolo, direi meno della metà del nostro, e lo scroscio dello sciacquone durava circa due secondi per la mandata completa e circa uno e mezzo per quella ridotta, e la ricarica non durava più di una dozzina di secondi, a riprova del fatto che l’acqua usata era davvero poca. E, incredibile ma vero, era sufficiente. Anche in un paio di occasioni in cui mi sono resa protagonista di una produzione decisamente sovrabbondante, è stato ugualmente sufficiente. All’arrivo avevo notato con un certo disappunto l’assenza dello scopettino, ma in effetti in due settimane non mi è mai accaduto di sentirne la mancanza.
Poi ho beccato anche un matrimonio
con una sposa che faceva concorrenza a Jennifer Lopez
E poi il mare, col suo oro
e col suo argento.
barbara
L’inizio del libro appena recensito mi ha fatto ricordare un’altra storia, molto vicina a me, che avevo postato nel primo blog, circa otto anni fa, e sono andata a ripescarla. Eccola.
Lo sapeva, naturalmente, che avrebbe scatenato un finimondo, ma non era certo cosa che potesse preoccuparla. Così quando mia nonna, esterrefatta, strillò: «E quello …?» rispose, molto tranquillamente: «L’ho trovata». «Trovata?» «Trovata». «Come trovata?» «È di una ragazza. Era disperata, non sapeva cosa fare». «E lei se l’è portata a casa?» «E cosa dovevo fare? Lasciare che si buttasse nel fiume, lei e la bambina?» «E cosa ne facciamo?» «La teniamo: cos’altro dovremmo fare? Ne ho tirati su quattordici, posso tirare su anche la quindicesima». «Ma se non abbiamo da mangiare neanche per noi!» «Appunto: se siamo capaci di fare la fame in otto, possiamo farla anche in nove». E il discorso si chiuse lì: inutile provare a discutere con la suocera. Una suocera che a vent’anni se n’era andata in cerca di lavoro ed era tornata qualche anno dopo, a inizio secolo, con un figlio, e a chi azzardava commenti o insinuazioni rispondeva a muso duro: «Mì me’o gò fato, mì me’o mantegno, e vialtri feve i cassi vostri». E la bambina rimase. La madre, senza più il peso di lei, trovò un lavoro. Quando poteva andava a trovarla, quando poteva dava qualche soldo. Qualche tempo dopo trovò un brav’uomo che la sposò e riconobbe la bambina come sua figlia. Andarono a prendersela, e fu quasi un lutto per tutta la famiglia, che le si era affezionata. Passarono due anni. Una sera sentirono bussare: era il brav’uomo, con la bambina in braccio. La madre era morta, spiegò, lui lavorava tutto il giorno: potevano prendersene di nuovo cura loro? Avrebbe pagato per il mantenimento, naturalmente. Non per il disturbo, quello non poteva, era un pover’uomo anche lui, ma per il mantenimento sì. E la bambina tornò a far parte della famiglia: nove persone in due stanze, col gabinetto in cortile, ma ce n’erano tanti, a quei tempi, a vivere così e anche peggio. Ogni domenica lui tornava, portava i soldi e coccolava la bambina. Finché un giorno tornarono in due: aveva trovato una nuova moglie, disposta a prendersi cura della bambina, e quindi erano venuti a prenderla per portarsela a casa. Piansero, tutti e otto. Lo supplicarono di lasciargliela. Erano disposti a tenerla anche gratis, ma lui fu irremovibile: «Per me lei è mia figlia. Lei sta con me». Non la rividero più. Sono passati più di sessant’anni, e ancora, ogni tanto, sorprendo mia madre a fissare nel vuoto, sospirare e mormorare: «Chissà dov’è …».
India, violentata e uccisa a sei anni. Rabbia in piazza, scontri con la polizia
NEW DELHI – Un altro caso di violenza sessuale e omicidio, stavolta su una bambina di 6 anni, scuote l’India. Il corpo della bambina, stuprata e strangolata, è stato poi gettato in una discarica di Aligarh, nello Stato di Uttar Pradesh, scatenando l’ira della popolazione locale che ha lanciato pietre contro la polizia e bloccato il traffico per ore.
La famiglia aveva avvisato la polizia della scomparsa della bambina. Dopo ore di ricerche il corpo è stato ritrovato nella discarica. Secondo quanto denunciano i genitori, è stata violentata prima di essere uccisa, ma la conferma ufficiale arriverà soltanto dall’autopsia i cui risultati saranno resi noti nei prossimi giorni.
Negli scontri con la polizia sono state ferite almeno sette persone. Le autorità indiane hanno anche sospeso due poliziotti che hanno preso a bastonate alcune donne presenti alla manifestazione di protesta che è durata diverse ore e che ha anche bloccato la principale strada per New Delhi.
Lo scioccante omicidio ha sollevato la rabbia dei residenti del quartiere dove viveva la bambina che hanno marciato sul locale commissariato e preso a sassate dei veicoli della polizia. Le immagini diffuse dalle televisioni hanno mostrato la brutale repressione della polizia dell’Uttar Pradesh che con lunghi bastoni di bambù ha picchiato diverse donne anche quando erano ormai a terra.
In seguito alle scene shock, il governo locale ha chiesto l’apertura di una inchiesta per accertare le responsabilità. (18 aprile 2013, qui)
Alla pena di morte sono e resto contraria, sempre e senza eccezione. Però un bel linciaggio fatto bene… (E quella polizia che invece di preoccuparsi di cercare l’assassino si dedica alla brutale repressione delle donne che protestano e chiedono sicurezza e protezione?)
Il libro della memoria contiene un resoconto del massacro perpetrato a Józefów la mattina in cui Felunia e suo fratello raccoglievano frutti di bosco. L’ha scritto Frantsishka Bram. Nelle prime ore di quel 13 luglio 1942 arrivò a Józefów un plotone tedesco incaricato di uccidere donne, bambini, anziani e malati. I maschi in grado di lavorare vennero separati dagli altri. Un viavai di camion prelevava le sventurate vittime dalla piazza del paese e le portava a morire nei boschi vicini.
In piazza, in mezzo alla folla disperata, c’era il Dottor Fürt, un ebreo di Vienna che aveva più di settant’anni ed era stato colonnello dell’esercito austriaco… Si voltò verso di noi e ci disse: “È duro morire, lo so. Consolatevi pensando che i vostri persecutori andranno incontro a una morte terribile. Le generazioni future non avranno pietà di loro. Sia maledetta la Nazione di questi scellerati.” Aveva parlato ad alta voce e in tedesco: loro lo guardarono esterrefatti… Videro le sue decorazioni della Grande Guerra. Il Dottor Fürt urlò poi agli ebrei: “Se qualcuno di voi sopravvive e per caso incontra mio figlio, gli dica che suo padre non ha avuto paura degli assassini al soldo di Hitler!”
I tedeschi lo fecero a pezzi. Sua moglie era una nobile austriaca, cristiana. Morì con lui.
Durante le incursioni nelle case degli ebrei, i tedeschi uccidevano sul posto i più vecchi e i più deboli, che non erano in grado di raggiungere la piazza. Fra loro ci fu anche Jacob Lipschitz, l’ultimo rabbino di Konin. Gli spararono nel letto.
Post scriptum Nell’estate del 1993, quando avevo già scritto del massacro di Józefów, ho avuto occasione di leggere un libro agghiacciante, Uomini comuni, scritto dallo storico americano Christopher Browning. Studiando la documentazione sui crimini di guerra nazisti depositata a Stoccarda, sede del coordinamento delle indagini, Browning trovò un atto d’accusa contro il Battaglione di Polizia 101, unità della Ordnungspolizei, la polizia civile tedesca. Uomini comuni è basato sostanzialmente sui verbali degli interrogatori degli uomini del Battaglione, quasi tutti membri ormai di mezz’età della classe operaia di Amburgo. Per il Battaglione 101 le atrocità di Józefów dovevano essere una sorta d’iniziazione agli eccidi di massa. Il racconto di Browning di quel 13 luglio 1942 ci presenta il massacro attraverso un’ottica diversa, quella degli assassini. Salvo alcune marginali discrepanze, tutto coincide. Ma il quadro che emerge nel libro è assai più terrificante di quello lasciatoci dalle fonti ebraiche del Libro.
Browning ha scoperto che, mentre gli ebrei venivano rastrellati e condotti in piazza, il medico della squadra e un sergente tennero ai loro uomini un corso accelerato sul trattamento da riservare alle vittime. Il primo carico di trentacinque-quaranta ebrei fu portato nei boschi a qualche chilometro dalla città. (Browning non parla mai della cava di pietra.) Al loro arrivo «si fecero avanti altrettanti poliziotti della Prima Compagnia, che furono abbinati faccia a faccia alle loro vittime». Agli ebrei fu ordinato di distendersi per terra, in fila. «I poliziotti, vennero avanti e piazzarono le baionette sulla spina dorsale delle loro vittime, al di sopra delle scapole, secondo le istruzioni ricevute» e, al segnale del sergente, spararono all’unisono.
«Quando giunse il rumore della prima salva, dalla piazza si levò un urlo terribile: gli sventurati avevano capito qual era il loro destino. Da quel momenta in, poi, tuttavia, gli ebrei manifestarono una compostezza “incredibile” e “sorprendente”.»
Le esecuzioni si protrassero per ore. Anche gli uomini della Seconda Compagnia parteciparono al massacro ma, diversamente dai loro commilitoni, non avendo ricevuto istruzioni sul modo di sparare, ignoravano che il modo migliore per uccidere fosse «innestare le baionette per prendere la mira». Browning cita le parole di uno degli uomini: «All’inizio sparavamo a mano libera. Se si mirava troppo in alto, esplodeva tutto il cranio: c’erano pezzi di cervello e di ossa dappertutto.» Puntando l’arma sul collo si rischiavano altri inconvenienti: «Con quello sparo a bruciapelo il proiettile colpiva la testa della vittima con una traiettoria che provocava l’esplosione dell’intero cranio o dell’intera nuca: sangue, frammenti di ossa e pezzi di cervello si spargevano ovunque, imbrattando gli uomini del plotone.» Ben pochi tedeschi avevano fatto richiesta di esenzione da quel lavoro, ed erano stati esauditi. Qualcuno trovò delle scuse per defilarsi. Terminato il lavoro tutti ricevettero dosi abbondanti di alcolici.
Alla fine di quel lungo giorno d’estate i tedeschi se ne andarono letteralmente saturi del sangue delle vittime, lasciando nel bosco 1500 cadaveri di donne, bambini e anziani. Alcuni giacevano morti sulle porte di casa, fucilati sul posto mentre tentavano di fuggire o di nascondersi. Mia zia Bayla doveva essere stata fra questi. (Konin, pp. 546-550)
Oggi, 27 di nissan, è Yom haShoah.
Qui qualche immagine di quel mondo che la Shoah ha cancellato dalla faccia della terra, ma che noi non ci stancheremo di far rivivere col nostro ricordo. Così come non ci stancheremo di di stare dalla parte degli ebrei vivi, combattendo sia chi cerca di eliminarli con le armi, sia chi cerca di eliminarli con le menzogne: mai più come pecore al macello.