INFORMAZIONE, DISINFORMAZIONE, MANIPOLAZIONE DELLINFORMAZIONE, CENSURA SULL’INFORMAZIONE

E incapacità di capire. Impossibilità di capire. E ciononostante, presunzione di capire. E parto da quest’ultima.

One of my hosts, an older gentleman who had been a professor of literature, told me, as so many Russians had, “You can give up writing philosophical articles about Russia. You will never know it.” Ah, yes, this again. My outsiderness. “My sunny disposition doesn’t prohibit me from writing about your country,” I said, a bit too earnestly, in very stilted Russian that I had spent years slaving away at. Speaking slowly to make sure I didn’t miss anything, he replied: “It’s not your sunny disposition. It’s your frame of reference. Your frame of reference is America. But Russia does not want to be America. Russia exists in a parallel universe.” (Qui)

Parlando lentamente per essere sicuro che non mi sfuggisse nulla, ha risposto: “Non è il tuo carattere solare. È il tuo quadro di riferimento. Il tuo quadro di riferimento è l’America. Ma la Russia non vuole essere l’America. La Russia esiste in un universo parallelo”.

Una delle cose che si leggono più spesso in questi giorni è “i piani di Putin”, “i progetti di Putin”, “la resistenza che Putin non si aspettava”, “le cose non stanno andando come Putin immaginava”: gente che non ha la più pallida idea di che cosa passi per la testa al figlio con cui convivono da vent’anni, si mette a fare l’analisi grammaticale, logica, sintattica dei pensieri di Putin, dei progetti di Putin, dei sentimenti di Putin senza la più microscopica conoscenza di che cosa sia l’anima russa, oltre che dello specifico soggetto “Putin”. E dopo avere passato decenni a decidere le mosse nei confronti dei musulmani basandosi sulla propria cultura e interpretandoli con la propria cultura e avere, perciò, collezionato decenni di fallimenti e di micidiali batoste e di decine di migliaia di morti. Decisamente l’attitudine a imparare dall’esperienza non fa parte del nostro DNA.

Sulla censura ce la sbrighiamo presto: è tutta da una parte. Tutte le fonti russe sono state silenziate, per il nostro bene naturalmente (come lo stato di emergenza, come la segregazione, come la mascherina all’aperto, come il coprifuoco, come il divieto di andare in canoa o prendere il sole su una spiaggia deserta, come il green pass per lavorare), per proteggere le nostre fragili menti dalle bugie che vengono da quella parte, nessuna voce, nessuna notizia ci può più arrivare da quella parte (mentre tutto ciò che arriva dalla controparte è verità di vangelo, non importa quanto i fatti la smentiscano). Così come è stato ferocemente censurato tutto ciò che ha preceduto – e determinato – gli avvenimenti di queste ultime settimane, ossia gli eventi di piazza Maidan e il sistematico massacro dei russofoni del Donbass. Ma la verità è testarda, e zittire tutti non è possibile. Chi ha visto, chi sa, chi non si lascia intimidire c’è, e prima o poi arriva a farci sentire la propria voce. Abbiamo già sentito Gian Micalessin, che ha scovato alcuni dei cecchini stranieri che sparavano dall’hotel Ucraina per creare il caos e favorire il colpo di stato, vediamo ora il giornalista britannico Mark Franchetti in questo servizio del 28 giugno 2014

Ed escono anche, finalmente, le notizie complete, sugli eventi e sugli impegni del 1991.

Lo scoop di Der Spiegel sull’impegno Nato di non espandersi a Est si basa su un verbale desecretato, che dà ragione a Putin

I lettori di ItaliaOggi sono stati i primi, in Italia, ad essere informati circa le vere origini delle tensioni politiche e militari tra la Russia di Vladimir Putin e la Nato sulla questione Ucraina. Con editoriali e articoli scritti in base ai fatti e non con la propaganda, il direttore Pierluigi Magnaschi e firme autorevoli come Roberto Giardina e Pino Nicotri hanno ricordato, unici in Italia, che dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) i leader dei maggiori paesi della Nato avevano promesso a Mosca che l’Alleanza atlantica non sarebbe avanzata verso Est «neppure di un centimetro». Una promessa smentita dai fatti, visto che da allora ben 14 paesi sono passati dall’ex impero sovietico all’alleanza militare atlantica. Da qui le contromosse di Putin: la guerra in Georgia, l’occupazione della Crimea, l’appoggio ai separatisti del Donbass, lo schieramento di oltre centomila soldati al confine con l’Ucraina, infine la dura linea diplomatica con cui ha ribattuto alle minacce di sanzioni da parte di Usa ed Ue: «Mosca è stata imbrogliata e palesemente ingannata».
Per tutta risposta, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ripetuto quella che per anni è stata la linea difensiva di Washington sull’allargamento a Est della Nato: «Nessuno, mai, in nessuna data e in nessun luogo, ha fatto tali promesse all’Unione sovietica». Una dichiarazione smentita dal settimanale tedesco Der Spiegel con uno scoop clamoroso, destinato a lasciare il segno. L’inchiesta, intitolata «Vladimir Putin ha ragione?» e ripresa integralmente negli Usa da Zerohedge, si basa su un’ampia ricostruzione storica dei negoziati tra Nato e Mosca che hanno accompagnato la fine della guerra fredda.
Tra i documenti citati, spicca per importanza quello scovato nei British National Archives di Londra dal politologo americano Joshua Shifrinson, che ha collaborato all’inchiesta del settimanale tedesco e se ne dichiara «onorato» in un tweet. Si tratta di un verbale desecretato nel 2017, in cui si dà conto in modo dettagliato dei colloqui avvenuti tra il 1990 e il 1991 tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania sull’unificazione delle due Germanie, dopo il crollo di quella dell’Est. Il colloquio decisivo, riporta Der Spiegel, si è svolto il 6 marzo 1991 ed era centrato sui temi della sicurezza nell’Europa centrale e orientale, oltre che sui rapporti con la Russia, guidata allora da Michail Gorbaciov. Di fronte alla richiesta di alcuni paesi dell’Est Europa di entrare nella Nato, Polonia in testa, i rappresentanti dei quattro paesi occidentali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest), impegnati con Russia e Germania Est nei colloqui del gruppo «4+2», concordarono nel definire «inaccettabili» tali richieste. Il diplomatico tedesco occidentale Juergen Hrobog, stando alla minuta della riunione, disse: «Abbiamo chiarito durante il negoziato 2+4 che non intendiamo fare avanzare l’Alleanza atlantica oltre l’Oder. Pertanto, non possiamo concedere alla Polonia o ad altre nazioni dell’Europa centrale e orientale di aderirvi». Tale posizione, precisò, era stata concordata con il cancelliere tedesco Helmuth Khol e con il ministro degli Esteri, Hans-Dietrich Genscher.
Nella stessa riunione, rivela Der Spiegel, il rappresentante degli Stati Uniti, Raymond Seitz, dichiarò: «Abbiamo promesso ufficialmente all’Unione sovietica nei colloqui 2+4, così come in altri contatti bilaterali tra Washington e Mosca, che non intendiamo sfruttare sul piano strategico il ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa centro-orientale e che la Nato non dovrà espandersi al di là dei confini della nuova Germania né formalmente né informalmente».
È innegabile che questo documento scritto conferma alcuni ricordi di Gorbaciov circa le promesse da lui ricevute, ma soltanto orali, sulla non espansione a Est della Nato. In un’intervista al Daily Telegraph (7 maggio 2008), Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione sovietica, disse che Helmuth Khol gli aveva assicurato che la Nato «non si muoverà di un centimetro più ad est». Identica promessa, aggiunse in un’altra occasione, gli era stata fatta dall’ex segretario di Stato Usa, James Baker, il quale però smentì, negando di averlo mai fatto. Eppure, ricorda Der Spiegel, anche Baker fu smentito a sua volta da diversi diplomatici, compreso l’ex ambasciatore Usa a Mosca, Jack Matlock, il quale precisò che erano state date «garanzie categoriche» all’Unione sovietica sulla non espansione a est della Nato. L’inchiesta del settimanale aggiunge che promesse dello stesso tenore erano state fatte a Mosca anche dai rappresentanti britannico e francese.
La storia degli ultimi 30 anni racconta però altro: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, ricorda Der Spiegel, sono entrate nella Nato nel 1999, poco prima della guerra contro la Jugoslavia. Lituania, Lettonia ed Estonia, confinanti con la Russia, lo hanno fatto nel 2004. Ora anche l’Ucraina vorrebbe fare altrettanto. Il che ha scatenato la reazione di Putin: «La Nato rinunci pubblicamente all’espansione nelle ex repubbliche sovietiche di Georgia e Ucraina, richiamando le forze statunitensi ai confini del blocco del 1997». La prima apertura è giunta dal cancelliere tedesco, Olaf Scholz: «L’ingresso dell’Ucraina nella Nato non è in agenda». Parole che confermano la prudenza della Germania verso Putin e l’importanza strategica del Nord Stream 2 per la sua economia. Se alla fine sarà pace o guerra, dipenderà dal vertice Biden-Putin, agevolato da Macron. Un vertice dove Biden, nonostante la martellante propaganda anti-Putin delle ultime settimane, entra indebolito da uno scoop che riscrive la storia. Un’inchiesta così ricca di documenti finora inediti da far pensare all’aiuto di una manina politica, in sintonia con la Spd di Scholz, partito da sempre filorusso.
Tino Oldani, 22, febbraio 2022, qui.

Altre due voci che i signori dell’informazione a senso unico non sono riusciti a zittire sono quelle di Pino Cabras e Marcello Foa.

I corifei del potere non vogliono voci dissonanti: il caso Damilano

 Siparietto a Di Martedì, la trasmissione di Giovanni Floris, ieri sera.
L’argomento unico è la crisi ucraina. Tra gli ospiti, il giornalista Marcello Foa, che nella sua brillante carriera è stato anche inviato a Mosca negli anni del crollo dell’Urss e successivi. 
Non appena viene interpellato, il giornalista Marco Damilano esordisce con una grossa inesattezza. Dice infatti che il Parlamento ha approvato «all’unanimità» le misure di guerra del governo. No, stellina! Capisco che nell’universo piallato del tuo giornalismo non si concepisce l’opposizione, ma questa nondimeno esiste.
Alternativa ha infatti votato contro la risoluzione della maggioranza e ha votato una sua diversa risoluzione. Però Damilano si sente su un “alto terreno” morale e deontologico, non si fa distrarre da un dettaglio come la verità. Con il tono di un vice-Torquemada parte ad azzannare Foa, a freddo. Gli rimprovera di aver rilasciato dichiarazioni a organi di stampa russi come RT e Sputnik.
Gioca con le parole, dicendo che “faceva il commentatore”. Come a dire: pagato dai russi e dunque non credibile, nel quadro della nuova russofobia imperante. Foa replica ricordando che quelle erano dichiarazioni rilasciate a testate giornalistiche, non collaborazioni, ma Damilano – l’avete capito – non è tipo che si faccia deconcentrare dai fatti, una volta che concentra la bava nella delazione.
E cosa rimprovera a Foa, per aggiunta? Foa aveva dichiarato che le rivolte di piazza che avevano accompagnato il cambio di regime erano “pianificate e guidate dall’Occidente”. Per Damilano è come bestemmiare in chiesa. E si scandalizza fino a piegare le labbra in una smorfia che solo quelli che si sentono superiori. Abituato com’era a fare da grancassa al PD, non si è mai accorto di John McCain e Victoria Nuland nella piazza di Kiev, né delle intercettazioni autentiche (eh sì, divulgate da RT) in cui la Nuland diceva che “abbiamo speso 7 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che si merita!”. Cioè diceva che la nuova situazione era pianificata e guidata dall’Occidente, con buona pace del verginello delatore.
A questo punto mi autodenuncio. Nel maggio 2014, quando nella città ucraina di Odessa un gruppo di squadracce naziste protette dal governo di Kiev scatenò un pogrom che fece strage di russofoni nella Casa dei Sindacati, io non riuscii a trovare un rigo su questo evento tragico su “L’Espresso”, il giornale di Damilano. Niente. Come non ne trovai su quasi tutti i giornali italiani, che se ne parlarono deformarono pesantemente i fatti. Dovetti ricorrere proprio a RT, che diede una copertura completa. Ebbi modo anche di raccontare i fatti in un servizio di Pandora TV che rivendico al cento per cento. 
Ecco, in poche righe, è bene che sia smascherato un episodio fra i tanti che ammorberanno questa stagione: i corifei del potere non vogliono voci dissonanti e usano trucchi estremamente scorretti per ingannare il pubblico. Demoliamoli criticamente per uscire dalla logica della guerra. Perché la guerra non inizia con le bombe, ma con le bugie e la caccia alle streghe di presunti nemici.
Pino Cabras, 2 marzo 2022, qui.

E in un servizio del 3 maggio 2014 Pino Cabras dà conto della sistematica manipolazione operata dai giornali italiani per disinformare in merito alla strage di Odessa del giorno precedente.

Di video di documentazione ne ho ancora, ma non voglio farvi fare indigestione, quindi con questi per oggi mi fermo qui, e ritorno invece all’assunto di partenza: non capiscono niente, e meno capiscono, e più si mettono in cattedra a giudicare chi sta dall’altra parte (commenti miei in corsivo all’interno dell’articolo)

Il nipote di Gramsci che sostiene Putin: ‘Voi non capite, il Paese è con lui’

Con quel cognome, potrebbe dire quello che vuole. O quasi. Ma non ora, non qui.
Eccerto, lo decide il signor Imarisio che cosa uno può o non può dire, in casa propria oltretutto.

«Mi ritengo un moderato sostenitore di Vladimir Putin». Parlare con Antonio Gramsci, nipote e omonimo del fondatore del Partito comunista italiano, non è una operazione da strano ma vero. Significa anche fare un viaggio nella testa dell’elettore medio russo. Per provarci, a capire davvero.
E per provare a capire, che cosa meglio di un tono di supponenza e un atteggiamento di superiorità morale?

Nato e cresciuto a Mosca, dove nel 1921 il nonno, appena arrivato ammalato di tisi, aveva conosciuto in sanatorio e poi sposato Julia Schucht, da un quarto di secolo è un docente di musica e di biologia che insegna alla scuola in lingua italiana della nostra ambasciata. Ogni giorno in cattedra a insegnare agli adolescenti russi. «Nessuna delle persone con le quali parlo è d’accordo con i media occidentali, che secondo me non ci stanno capendo molto, quando dicono che il presidente ha iniziato questa guerra senza alcuna ragione. Il diavolo è sempre nei dettagli di questi otto anni di tensione continua con l’Ucraina, di un conflitto a bassa intensità nel Donbass che è andato avanti senza che il governo di Kiev facesse nulla per fermarlo». Gramsci junior, 56 anni, l’età media del sostenitore di Putin secondo le analisi dell’ultima elezione per il Cremlino,
Leggi: quelli che votano per Putin sono i vecchi rincoglioniti (come quelli della Brexit, se non ricordo male)

rigetta l’idea di essere anche lui sedotto dalla propaganda martellante dei media statali. «Ma no, passo gran parte del mio tempo sugli spartiti musicali, e per natura sono scettico sulle informazioni dei media. Mi baso sulle testimonianze dirette». Appunto. A domanda diretta, Gramsci risponde. «Nella Russia di oggi non esistono valide alternative a Putin. Questo la gente lo sente, lo capisce. Certo, a ogni elezione esiste un’altra possibilità di scelta, ma nessuna garantisce la stabilità di questo Paese come lui. Per questo l’ho votato e, quando sarà, penso che lo farò ancora». Sul concetto di stabilità, e di come essa viene indotta, ci sarebbe da parlare a lungo.
Giusto: chi meglio di un italiano può sapere di che tipo di stabilità abbia bisogno un popolo di quasi 150 milioni di persone che sta a qualche migliaio di chilometri di distanza, e che cosa quest’ultimo debba intendere per stabilità.

Gramsci si chiama fuori dalla discussione sui metodi autoritari del Cremlino. «II nostro popolo non ha mai conosciuto una vera libertà. Io c’ero ai tempi dell’Urss, ci sono nato. Meglio ora. Esistono ancora povertà e deficit, di soldi nella Russia del ceto medio non ne girano poi molti. Ma la sensazione che solo Putin possa garantire gli interessi del suo Paese, e che quindi quel che decide va bene, le posso assicurare che è molto diffusa». Ha imparato l’italiano da adulto, e nella nostra lingua ha scritto un bel libro sulla storia del filone russo della sua famiglia. Ride quando gli viene chiesto se il nonno avrebbe votato Putin.
Evidentemente il signor Gramsci è una persona molto educata, perché la risposta corretta a quella domanda sarebbe stata: “Che domanda cretina”.

«Ma che discorsi. Parlare di comunismo ormai è come parlare di antiquariato, così come il concetto del proletariato oppresso è superato da tanto tempo. Io poi mi considero un anarchico. E come tale, considero la guerra un disastro, sempre. Anche questa». Alla fine, sostiene il professor Gramsci che esista un nostro errore di prospettiva nella lettura del suo Paese. La lotta di classe è defunta da tempo. L’unica contrapposizione possibile è la solita, che esiste ovunque. «Credo che il mondo guardi alla Russia attraverso la lente delle sue due grandi città. E allora si fanno grandi teorie sulla nostra occidentalizzazione. Ma esiste una grande differenza tra il livello di vita delle metropoli russe e le loro periferie. Chi vive altrove, considera i cittadini come piccolo borghesi che non producono nulla. E in parte ha ragione. Mosca può sembrare una capitale abitata da persone che si divertono e fanno affari, dedite alla finanza e al terziario. Come a Londra o a Milano. Basta spostarsi di cento chilometri appena, ed è tutta un’altra storia. La Russia profonda è tutt’altro che omologata all’Occidente. E quindi, non ne ha tutto questo desiderio. L’isolamento fa più paura agli “occidentali”, i giovani russi abituati a viaggiare.
Marco Imarisio, qui.

Aggiungo ancora una riflessione

Claudia Premi

Zelensky, quegli uomini che hai costretto a restare e a combattere, sono i papà dei bambini che vediamo ammassati sul confine polacco in attesa di partire per una nuova vita. Papà, che con buona probabilità, non rivedranno più. Da donna, NON condivido queste scelte belligeranti che coinvolgono esseri umani e famiglie che sono altro da te, Zelensky!

e una considerazione trovata in rete

Traspare sui giornali italiani lo stupore e lo sgomento per l’inserimento immotivato dell’Italia nella lista dei paesi ostili stilata dal governo russo.
In fondo cosa abbiamo fatto? Ve lo ricordo :
Abbiamo SANZIONATO la Russia. Abbiamo DISCONNESSO il sistema bancario russo dallo Swift. Abbiamo DERUBATO dei loro beni cittadini russi per il solo fatto di essere russi. Abbiamo DERUBATO la banca centrale russa delle sue riserve in valuta depositate nelle banche occidentali. Abbiamo IMBASTITO una campagna di violenza verbale attraverso i mass media che hanno portato a episodi di violenza che hanno visto come vittime cittadini russi. Abbiamo anche CENSURATO Dostoevskij perché russo.
Il nostro ministro degli esteri HA CHIAMATO il Presidente russo con l’appellativo di cane. Infine abbiamo INVIATO armi all’Ucraina affinché siano usate per uccidere soldati russi.
SI… DAVVERO UN ATTO IMMOTIVATO L’INSERIMENTO DELL’ITALIA NELLA LISTA DEI PAESI OSTILI.
CIALTRONI !!!

Se qualcuno ritiene che sia stato giusto farlo, non mi permetto di discutere, però quando si prende una decisione bisogna anche essere pronti a subirne le conseguenze: se scelgo di prendere una curva a 150 all’ora, non devo poi mettermi a frignare se uno stronzo di albero decide di mettersi in mezzo e venirmi addosso. Quanto al cane di Di Maio, nel caso a qualcuno fosse sfuggito potete rivederlo qui, e soprattutto ammirarne l’espressione intelligente e furbetta.

(qui un commento serio all’incredibile episodio)
E concludo, come sempre, con due sboicottamenti

barbara

QUANDO CHI DOVREBBE INFORMARE È PAGATO PER MENTIRE

O almeno tacere. Quella se segue è la lettera con cui la giornalista Bari Weiss comunica le proprie dimissioni dal New York Times.

Caro A.G.,
È con tristezza che le scrivo per informarla delle mie dimissioni dal New York Times.
Tre anni fa sono entrata in questo giornale con gratitudine e ottimismo. Venivo assunta con l’obiettivo di portare voci che altrimenti non sarebbero apparse sulle vostre pagine: autori esordienti, centristi, conservatori e altri che istintivamente non avrebbero considerato il Times come la loro casa. La ragione di questo tentativo era chiara: l’incapacità di prevedere il risultato del voto del 2016 da parte del giornale significava che quest’ultimo non riusciva più a comprendere il paese di cui parlava. [Il direttore esecutivo] Dean Baquet e altri lo hanno ammesso in varie occasioni. La priorità per la sezione opinioni era rimediare a questa lacuna critica.
Ero onorata di essere parte di questo tentativo, guidato da James Bennet. Sono fiera del mio lavoro come autrice e come redattrice. Tra le personalità che ho contribuito a portare sulle nostre pagine figurano il dissidente venezuelano Wuilly Arteaga, la campionessa di scacchi iraniana Dorsa Derakhshani e il cristiano pro democrazia di Hong Kong Derek Lam. Ancora: Ayaan Hirsi Ali, Masih Alinejad, Zaina Arafat, Elna Baker, Rachael Denhollander, Matti Friedman, Nick Gillespie, Heather Heying, Randall Kennedy, Julius Krein, Monica Lewinsky, Glenn Loury, Jesse Singal, Ali Soufan, Chloe Valdary, Thomas Chatterton Williams, Wesley Yang e molti altri.
Ma le lezioni che dovevano seguire quell’elezione – riguardo all’importanza di comprendere gli altri americani, alla necessità di resistere al tribalismo e alla centralità del libero scambio di idee per una società democratica – non sono state imparate. Al contrario, nella stampa, ma forse specialmente in questo giornale, è emerso un nuovo pensiero dominante: l’idea che la verità non è un processo di scoperta collettiva, bensì un’ortodossia già nota a pochi illuminati il cui mestiere è quello di informare tutti gli altri.
Pur non comparendo nel colophon del New York Times, Twitter è diventato in ultima analisi il suo vero direttore. Poiché l’etica e il costume di quella piattaforma sono diventati quelli del giornale, il giornale stesso è diventato sempre più una specie di spazio performativo. Le storie vengono selezionate e raccontate in modo da soddisfare la più ristretta delle platee, anziché consentire a un pubblico curioso di leggere cose sul mondo e poi trarre le proprie conclusioni. Mi è stato sempre insegnato che i giornalisti hanno il compito di stendere la prima bozza della storia. Adesso, la storia stessa non è che qualcosa di effimero che va modellato secondo le necessità di una narrazione predeterminata.
Le mie incursioni nelle “idee sbagliate” [Wrongthink] mi hanno reso oggetto di bullismo costante da parte dei colleghi che non condividono le mie idee. Mi hanno chiamata nazista e razzista. Ho imparato a scrollarmi di dosso i loro commenti quando stavo «scrivendo un altro pezzo sugli ebrei». Diversi colleghi sono stati assillati da altri colleghi perché troppo gentili verso di me. Il mio lavoro e il mio ruolo vengono apertamente sminuiti nei canali Slack della società dove intervengono regolarmente i redattori. Qui alcuni colleghi insistono che io debba essere estirpata da questa azienda affinché la stessa possa divenire davvero “inclusiva”, altri invece aggiungono un’ascia emoji accanto al mio nome nei loro post. Ancora, altri impiegati del New York Times mi insultano pubblicamente su Twitter dandomi della bugiarda e ottusa, certi che questa persecuzione nei miei confronti non sarà punita. Non vengono mai puniti.
Esistono parole precise per designare tutto ciò: discriminazione illegale, ambiente di lavoro ostile, dimissioni costruttive. Non sono un’esperta legale. Ma so che sono cose sbagliate.
Non capisco come lei possa avere permesso a questi atteggiamenti di penetrare nella sua azienda sotto gli occhi dell’intero staff del giornale e del pubblico. E non riesco a conciliare il fatto che lei e altri vertici del Times siate rimasti immobili mentre mi elogiavate in privato per il mio coraggio. Presentarsi al lavoro come centrista in un giornale americano non dovrebbe richiedere eroismo.
Una parte di me spera di poter dire che la mia è stata un’esperienza isolata. Ma la verità è che la curiosità intellettuale – per non dire dell’assumersi dei rischi – oggi al Times è una cosa negativa. Perché pubblicare cose che sfidino i nostri lettori o scrivere cose audaci sapendo già che saranno sottoposte alla procedura anestetica per renderle ideologicamente kosher, quando possiamo garantirci una sicurezza lavorativa (e dei clic) pubblicando il nostro quattromillesimo editoriale su quanto Donald Trump rappresenti un pericolo per il paese e per il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma.
Le regole residue al Times vengono applicate con estrema selettività. Se l’ideologia di una persona è in linea con la nuova ortodossia, quella persona e il suo lavoro non subiranno verifiche. Tutti gli altri vivranno nel terrore del Thunderdome digitale. L’odio online è tollerato fintantoché colpisce gli obiettivi giusti.
Commenti che soltanto due anni fa sarebbero stati facilmente ospitati, ora metterebbero un redattore o un autore in guai seri, se non alla porta. Se un pezzo può scatenare reazioni negative all’interno del giornale o sui social media, il redattore o l’autore evitano di proporlo.
Se sono abbastanza forti da proporlo, vengono subito spinti su un terreno più sicuro. E se ogni tanto ottengono la pubblicazione di un pezzo che non promuove esplicitamente campagne progressiste, questo avviene soltanto dopo che ogni riga è stata attentamente ritoccata, contrattata e puntualizzata.
Ci sono voluti due giorni e due posti di lavoro per dire che il commento di Tom Cotton «non era all’altezza dei nostri standard». Abbiamo aggiunto una nota redazionale a un articolo di viaggio su Jaffa poco dopo la sua pubblicazione perché «ha mancato di toccare aspetti importanti della costituzione e della storia di Jaffa». Ma ancora non ne è stata aggiunta alcuna all’ossequiosa intervista di Cheryl Strayed alla scrittrice Alice Walker, un’orgogliosa antisemita che crede negli illuminati rettiliani.
Il giornale di riferimento [paper of record] è sempre più il riferimento di coloro che vivono su una lontana galassia, i cui interessi non appartengono affatto alle vite della maggioranza delle persone. Si tratta di una galassia dove, solo per fare qualche esempio recente, il programma spaziale sovietico viene elogiato per la sua «diversità», dove il doxxing di ragazzi adolescenti viene condonato se fatto in nome della giustizia, dove tra i peggiori sistemi di caste della storia dell’umanità, accanto alla Germania nazista, figurano gli Stati Uniti.
Ancora oggi confido nel fatto che la maggior parte delle persone al Times non abbia queste idee. Tuttavia è intimidita da chi le ha. Perché? Forse perché ritengono che lo scopo ultimo sia giusto. Forse perché credono che avranno protezione se si limiteranno ad annuire mentre la moneta del nostro regno – il linguaggio – viene degradata al servizio di una lunga lista in continua evoluzione di cause giuste. Forse perché ci sono milioni di disoccupati in questo paese e loro si sentono fortunate ad avere ancora un lavoro in un settore in contrazione.
O forse è perché sanno che oggi difendere un principio nel giornale non attira consensi: equivale ad appendersi un bersaglio sulla schiena. Troppo avvedute per pubblicare su Slack, mi scrivono in privato parlando del “nuovo maccartismo” che ha messo le radici nel giornale di riferimento.
Sono tutti brutti segnali, specialmente per i giovani autori indipendenti e per i redattori particolarmente attenti a quello che devono fare per avanzare nella carriera. Regola uno: esprimi le tue idee a tuo rischio e pericolo. Regola due: non arrischiarti a commissionare un articolo che contraddica la narrazione. Regola tre: mai credere a un direttore o a un editore che ti invita ad andare controcorrente. Alla fine l’editore si piegherà al volere della folla, il direttore sarà licenziato o assegnato ad altra mansione e tu sarai abbandonato.
Per questi giovani autori e redattori, c’è una sola consolazione. Mentre posti come il Times e altre un tempo grandi istituzioni giornalistiche tradiscono i loro standard e perdono di vista i loro princìpi, gli americani hanno ancora fame di notizie corrette, idee vivaci e dibattito onesto. Entro in contatto con queste persone ogni giorno. Qualche anno fa lei disse che «una stampa indipendente non è un ideale liberal o progressista o democratico. È un ideale americano». L’America è un grande paese che merita un grande giornale.
Con tutto questo non nego affatto che alcuni dei giornalisti di maggior talento al mondo lavorino ancora per questo giornale. Lo fanno, cosa che rende questo clima illiberale ancor più straziante. Resterò come sempre una loro lettrice devota. Ma non posso più fare il lavoro per cui sono stata portata qui: il lavoro che Adolph Ochs [proprietario del New York Times dell’epoca] in quella famosa dichiarazione del 1896 descrisse così: «Rendere le colonne del New York Times un forum per la considerazione di tutte le questioni di pubblico rilievo, aprendole alla discussione intelligente da parte di tutte le sfumature dell’opinione».
L’idea di Ochs è una delle migliori in cui mi sia imbattuta. E mi ha sempre confortata la certezza che le idee migliori prevalgono. Ma le idee non possono prevalere da sole. Hanno bisogno di una voce. Hanno bisogno di essere ascoltate. Soprattutto, devono essere sostenute da persone che desiderino viverle.
Cordialmente,
Bari (qui)

E questo è un suo commento recente. È molto lungo, ma bisogna leggerlo per capire bene che cosa sta succedendo e verso quale baratro ci stiamo precipitando.

Bari Weiss: «Perché ho lasciato il New York Times e ora combatto la cancel culture»

Contro l’ortodossia illiberale della sinistra: nuovo j’accuse della giornalista che ha fatto scalpore dimettendosi dal New York Times in polemica con il conformismo del giornale

I miei amici liberal che vivono nell’America rossa confessano di evitare le discussioni su mascherine, Dominion [sistema per il voto elettronico accusato dai trumpiani di avere avuto un ruolo in presunti brogli a novembre, ndt], Ted Cruz, Josh Hawley, le elezioni 2020 e Donald Trump, per dirne solo alcune. Quando coloro che dissentono dalla maggioranza esprimono quello che pensano, ne pagano le conseguenze. Penso qui a un mio amico, lo scrittore conservatore David French, che per quattro anni ha sopportato una valanga di attacchi terrificanti a lui e alla sua famiglia per aver criticato l’amministrazione Trump, tanto da richiedere alla fine l’intervento dell’Fbi.
Ma sono due le culture illiberali che stanno divorando il paese. Lo so perché vivo nell’America blu, in un mondo inondato di borsoni NPR [National Public Radio, emittente ritenuta di sinistra, ndt] e di insegne da giardino che annunciano le credenziali di giustizia sociale della famiglia residente.
Nella mia America la gente che resta in silenzio non teme l’ira dei sostenitori di Trump. Teme la sinistra illiberale.
Sono femministe che credono che esistano differenze biologiche tra uomini e donne. Giornalisti che credono che il loro lavoro sia dire la verità sul mondo, anche quando non conviene. Medici il cui unico credo è la scienza. Avvocati che non scendono a compromessi sul principio per cui la legge è uguale per tutti. Professori che cercano la libertà di scrivere e di fare ricerca senza paura di essere denigrati. Insomma, sono centristi, libertari, liberali e progressisti che non sposano ogni singolo aspetto della nuova ortodossia dell’estrema sinistra.
Dopo che l’estate scorsa mi sono dimessa dal New York Times per l’ostilità del giornale alla libertà di espressione e di indagine, ho iniziato a ricevere quasi quotidianamente notizie da persone così. I loro messaggi mi sembrano come lettere inviate clandestinamente da una società totalitaria.
Mi rendo conto che possa apparire isterica. Vi chiedo dunque di esaminare qualche esempio tratto dalla mia casella di posta.
«Non avrei mai pensato di praticare il tipo di autocensura che applico adesso quando faccio le mie proposte ai direttori, ma oggi non ho quasi possibilità di fare altrimenti», scrive un giovane giornalista. «I giovani autori woke-scettici [il termine woke individua in generale i militanti delle varie cause sociali progressiste, ndt] devono aspettarsi la messa al bando e il ripudio se solo provano a deviare, anche minimamente, dalla sacra ideologia della wokeness».
«L’autocensura è la norma, non l’eccezione», racconta uno studente di una delle più importanti facoltà di legge del paese, scrivendo dalla sua email personale per timore di usare il suo account ufficiale dell’ateneo. «Io mi autocensuro anche quando parlo con alcuni dei miei migliori amici per paura che si sparga la voce». In pratica tutta la facoltà sottoscrive la medesima ideologia, continua lo studente. E così, confessa, «agli esami mi sforzo di scrivere risposte che rispecchino la loro visione del mondo anziché riportare le tesi migliori che conosco».
Viviamo nella società più libera della storia del mondo. Qui non ci sono i gulag che c’erano in Unione Sovietica. Formalmente non c’è alcun sistema di credito sociale come invece c’è in Cina. Eppure le parole che in genere associamo alle società chiuse – dissidenti, liste nere, double thinkers – sono esattamente quelle che balzano alla mente quando leggo i messaggi appena citati.
La visione liberale che abbiamo dato per scontata in Occidente dalla fine della Guerra fredda fino a solo cinque anni fa è sotto assedio oggi. È assediata a destra dalla rapida diffusione dei culti internettiani e delle teorie complottiste. Basta pensare all’onorevole Majorie Taylor Green, una che crede sfacciatamente a QAnon ed è appena stata eletta al Congresso.
A sinistra, il liberalismo è assediato da una nuova ortodossia illiberale che si è radicata dappertutto, comprese le stesse istituzioni incaricate di tenere in piedi l’ordine liberale. E l’arma più efficace di questa ideologia è la cancellazione. La cancellazione è utilizzata nel medesimo modo in cui le società antiche mettevano al rogo le streghe: per incutere paura nei cuori di quelli che stanno a guardare. Il punto è l’affermazione del potere. Mostrandoci che i prossimi potremmo essere noi, siamo costretti a conformarci e obbedire, restando in silenzio o magari offrendo noi pure il nostro legnetto da ardere.
Forse siete anche voi tra questa maggioranza che si auto-silenzia. È probabile che sia così, se ha ragione il biologo Bret Weinstein quando osserva che la popolazione si compone di quattro gruppi: i pochi che danno concretamente la caccia alle streghe, un ampio gruppo che si mette al seguito e un gruppo ancora più ampio che resta in silenzio. C’è anche un gruppo minuscolo che si oppone alla caccia. E quelli che stanno in quest’ultimo gruppo, «come per magia, diventano streghe».
Parlo a nome dell’ultima categoria. Consentitemi, in questo saggio breve, di provare a convincervi che ogni cosa che rende l’America eccezionale, ogni cosa che rende la civiltà degna di questo nome, dipende dalla disponibilità a impugnare un manico di scopa.
Sono nata nel 1984, il che mi situa nell’ultima generazione che ha visto la luce in America prima che esistesse l’espressione “cancel culture”. Il mondo in cui sono nata era liberale. Non nel senso fazioso del termine [liberal in inglese significa anche progressista, ndt], bensì nel senso classico e dunque più ampio del termine. C’era allora una diffusa visione liberale condivisa da liberal e conservatori, repubblicani e democratici.
Tale visione contava su alcune verità fondanti che parevano ovvie quanto l’azzurro del cielo: la convinzione che tutti sono creati a immagine di Dio; la convinzione che tutti sono uguali per questo; la presunzione di innocenza; una repulsione verso la giustizia sommaria; l’impegno per il pluralismo e la libertà di espressione, e per la libertà di pensiero e di fede.
Come ho ricordato altrove, questa visione del mondo riconosceva che ci sono interi ambiti della vita umana collocati al di fuori della politica, come l’amicizia, l’arte, la musica, la famiglia e l’amore. Era possibile che i giudici della Corte suprema Antonin Scalia e Ruth Bader Ginsburg coltivassero la migliore delle amicizie perché, come disse una volta lo stesso Scalia, certe cose sono più importanti dei voti.
Soprattutto, questa visione del mondo insisteva sul fatto che ciò che ci lega non è il sangue o la terra, ma la dedizione a un insieme condiviso di idee. Con tutti i suoi fallimenti, la cosa che rende grande l’America è che essa rappresenta il distacco dalla nozione, tuttora prevalente in tanti altri posti, per cui la biologia, il luogo di nascita, la classe sociale, il rango, il genere, la razza siano un destino. I nostri secondi padri fondatori, abolizionisti come Frederick Douglass, erano testimonianze viventi di questa verità.
Quella vecchia visione condivisa – ogni suo singolo aspetto – è stata travolta dalla nuova ortodossia liberale. Poiché questa ideologia si ammanta del linguaggio del progresso, tanti comprensibilmente si lasciano ingannare dal brand che si è auto-attribuito. Non fatelo. Essa promette giustizia rivoluzionaria, ma minaccia di trascinarci in un passato dove siamo tutti schierati uno contro l’altro secondo la tribù di appartenenza.
Il metodo principale di questo movimento ideologico non è costruire o rinnovare o riformare, ma abbattere. La persuasione è rimpiazzata dalla pubblica gogna. Il perdono è rimpiazzato dalla punizione. La pietà è rimpiazzata dalla vendetta. Il pluralismo dal conformismo; il dibattito dal de-platforming [divieto di fare intervenire in pubblico determinate personalità, ndt]; i fatti dai sentimenti; le idee dall’identità.
Secondo il nuovo illiberalismo il passato non può essere compreso nei suoi termini propri, ma deve essere giudicato attraverso la morale e i costumi del presente. L’educazione, secondo questa ideologia, non è insegnare alle persone come pensare, bensì dire loro cosa pensare. Tutto quanto sopra è il motivo per cui William Peris, docente alla UCLA [University of California, Los Angeles, ndt] e veterano dell’aeronautica, è stato sottoposto a procedimento disciplinare per aver letto in aula ad alta voce la Lettera dal carcere di Birmingham di Martin Luther King Jr. O per cui un distretto scolastico della California ha vietato Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain e Uomini e topi di John Steinbeck. O per cui il comitato di gestione delle scuole di San Francisco ha votato a favore della rinominazione di 44 istituti, compresi quelli intitolati a George Washington, Paul Revere e Dianne Feinstein – avete letto bene – a causa di vari peccati.
In questa ideologia, se non twitti il giusto tweet o non condividi il giusto slogan o non posti il giusto motto e la giusta foto su Instagram, la tua vita intera può essere rovinata. Se pensate che io stia esagerando, date un’occhiata alla vicenda di Tiffany Riley, la preside di una scuola pubblica del Vermont licenziata questo autunno perché ha dichiarato di sostenere le vite dei neri ma non l’organizzazione Black Lives Matter.
In questa ideologia, le intenzioni non importano un fico secco. Chiedete a Greg Patton. In autunno il professore di comunicazione aziendale alla USC [University of Southern California, ndt] stava facendo lezione in aula sulle “parole superflue” – come “um” e “like” e così via – per il suo corso di master. In Cina, ha osservato, «la classica parola superflua è “che che che”. In cinese sarebbe…», e ha pronunciato un termine cinese che suonava come un insulto razzista inglese.
Alcuni studenti si sono offesi e hanno scritto una lettera al decano della facoltà di economia accusando il loro professore di «negligenza e disprezzo». E hanno aggiunto: «Non dovremmo trovarci a combattere in aula per il nostro senso di pace e benessere mentale».
Invece di rispondere loro che le loro affermazioni erano follia, il decano si è arreso alla pazzia: «Per la facoltà è semplicemente inaccettabile l’utilizzo in aula di parole che possono emarginare, causare sofferenza e danneggiare la sicurezza psicologica dei nostri studenti». Patton è stato sospeso dall’insegnamento nel corso, e la sempre più elastica nozione di “sicurezza” è stata brandita, ancora una volta, come un’arma poderosa.
Il vittimismo, in questa ideologia, conferisce forza morale. «Penso, dunque sono» è sostituito da: «Sono, dunque so», e «so, dunque ho ragione».
In questa ideologia, tu sei colpevole dei peccati di tuo padre. In altri termini: tu non sei tu. Sei solo un mero avatar della tua razza o della tua religione. E il razzismo non riguarda più la discriminazione sulla base del colore della pelle di qualcuno. Il razzismo è qualunque sistema che consenta risultati diversi tra diversi gruppi razziali. Per questo le città di Seattle e San Francisco hanno rivisitato l’algebra perché razzista. Per questo, ancora, una Smithsonian Institution l’estate scorsa ha stabilito che il duro lavoro, l’individualismo e la famiglia sono caratteri “bianchi”.
In questa ideologia totalizzante, puoi essere colpevole per prossimità. Un imprenditore palestinese di Milwaukee, Majdi Wadi, è stato quasi ridotto sul lastrico quest’estate per i tweet razzisti e antisemiti scritti dalla figlia adolescente. Un calciatore professionista è stato licenziato a causa dei post di sua moglie. Ci sono centinaia di esempi simili. L’illuminismo, per dirla con il critico Ed Rothstein, è stato rimpiazzato dall’esorcismo.
Cosa forse più importante, in questa ideologia, la parola – il modo in cui si risolvono i conflitti nelle società civilizzate – può essere violenza, mentre la violenza, se esercitata dalle persone giuste perseguendo una giusta causa, non è affatto violenza.
È così che, in giugno, più di 800 miei ex colleghi del New York Times hanno dichiarato che un commento del senatore Tom Cotton li aveva messi in «pericolo», mentre la più celebrata giornalista della testata – ultima vincitrice del premio Pulitzer – ribadiva pubblicamente che saccheggi e rivolte sono «non violenza». Quella giornalista, creatrice del Progetto 1619 [colossale iniziativa editoriale del Nyt che mira a riscrivere la storia americana come storia di un impero fondato sullo schiavismo, ndt], continua a essere mitizzata. Intanto i redattori che avevano pubblicato il commento sono stati umiliati pubblicamente e allontanati dal giornale.
Si può dissentire dalla tesi esposta da Tom Cotton – il senatore invocava l’impiego della Guardia nazionale per mettere fine alle rivolte dell’estate – e insieme credere, come me, che non ci si può definire il quotidiano di riferimento e ignorare le opinioni di metà del paese.
Mi sono dimessa poche settimane dopo quell’episodio vergognoso, convinta che non ci fosse possibilità di rischiare intellettualmente in un giornale che si piega come una tenda davanti alla folla. Come ho scritto nella lettera di dimissioni, «sono tutti brutti segnali, specialmente per i giovani autori indipendenti e per i redattori particolarmente attenti a quello che devono fare per avanzare nella carriera. Regola uno: esprimi le tue idee a tuo rischio e pericolo. Regola due: non arrischiarti a commissionare un articolo che contraddica la narrazione. Regola tre: mai credere a un direttore o a un editore che ti invita ad andare controcorrente. Alla fine l’editore si piegherà al volere della folla, il direttore sarà licenziato o assegnato ad altra mansione e tu sarai abbandonato».
Il lettore scettico giustamente obietterà che le culture hanno sempre avuto dei tabù. Che ci sono sempre stati comportamenti o parole considerati inaccettabili. L’ostracismo ci accompagna fin dai tempi della Bibbia e la gogna è da tempo un modo per le tribù e le culture di conservare le usanze sociali importanti.
Tutto vero. Ma quella che chiamiamo cancel culture rappresenta una deviazione dai tabù tradizionali, in due modi.
Il primo è la tecnologia. Peccati che un tempo sarebbero rimasti confinati nella pubblica piazza o nel municipio locale ora sono a disposizione di tutto il mondo per l’eternità. In questa nostra era del Big Tech non esiste possibilità di trasferirsi in un’altra città e ricominciare, perché la nuvola di tutti i nostri post e simili resta sospesa per sempre sulla nostra testa.
Il secondo è che nel passato i tabù delle società erano in genere stabiliti attraverso una visione culturale diffusa. I tabù di oggi, invece, sono spesso idee radicali sospinte da una congrega di infervorati che tentano di ridefinire cosa sia accettabile e cosa dovrebbe essere evitato. È un gruppo che controlla quasi tutte le istituzioni che producono la vita culturale e intellettuale americana: di sicuro i media, ma anche l’istruzione superiore, musei, case editrici, squadre del marketing e della pubblicità, Hollywood, l’istruzione primaria e secondaria, le aziende tecnologiche e sempre più le funzioni risorse umane delle grandi imprese.
Non dovrebbe perciò sorprendere che un recente studio del Cato Institute ha rilevato che il 62 per cento degli americani dice di autocensurarsi. Più un gruppo è conservatore e più tenderà a nascondere le proprie idee: ammette di autocensurarsi il 52 per cento dei democratici, contro il 77 per cento dei repubblicani.
E per forza hanno paura. In un’era in cui la gente viene denigrata per cose trascurabili, lagnanze insignificanti e divergenze di opinione in un ambiente che si presume liberale e tollerante, chi oserebbe rendere noto il proprio voto per un repubblicano?
Ma nessuno entra in un gruppo per sentirsi male. Le persone entrano nei gruppi che le fanno sentire bene, che danno loro un significato, che offrono un senso di appartenenza. Motivo per cui così tanta gente della mia generazione e più giovane ancora è attratta da questa ideologia. Non credo che sia perché le manchi l’intelligenza o perché siano tutti fiocchi di neve.
L’ascesa di questo movimento è avvenuta sullo sfondo di grandi cambiamenti nella vita del paese: la lacerazione del nostro tessuto sociale, la perdita della religione e il declino delle organizzazioni civili, l’emergenza oppiacei, il collasso dell’industria, il trionfo di Big Tech, la scomparsa della fiducia nella meritocrazia, l’arroganza delle nostre élite, il succedersi di crisi finanziarie, un dibattito pubblico intossicato, il debito devastante accumulato dagli studenti, la morte della fiducia. È avvenuta in un contesto in cui il sogno americano sembra esaurirsi e le diseguaglianze della nostra presunta meritocrazia equa e liberale sono evidentemente distorte a vantaggio di alcuni e a danno di altri.
«Mi sono convertito perché ne avevo bisogno e vivevo in una società in disintegrazione assetata di fede». Così scrisse Arthur Koestler nel 1949 a proposito della sua infatuazione per il comunismo. Lo stesso si può dire di questa nuova fede rivoluzionaria.
Se vogliamo che le nostre giovani menti brillanti respingano questa visione del mondo, dobbiamo affrontare questi problemi perché senza questi malanni non avremmo avuto né Donald Trump né la rivoluzione culturale che sta trasformando dall’interno le più importanti istituzioni d’America.
Da qualche parte però dobbiamo cominciare e l’unico posto da cui possiamo partire è un appello al coraggio e al dovere.
È nostro dovere resistere alla folla in questa epoca di pensiero di massa. È nostro dovere dire la verità in un’epoca di menzogne. È nostro dovere pensare liberamente in un’epoca di conformismo.
Come ha detto perfettamente una volta il grande giudice americano Learned Hand, «la libertà si trova nel cuore degli uomini e delle donne; quando muore là dentro, nessuna costituzione, nessuna legge, nessun tribunale può fare granché per soccorrerla».
Tenere vivo lo spirito della libertà in un’epoca di illiberalismo strisciante è niente meno che il nostro obbligo morale. Dipende tutto da questo.

C’era una volta il principio “La mia libertà finisce dove comincia la tua”; oggi la mia libertà la fanno finire dove comincia la tua suscettibilità, le tue fisime, la tua permalosità, le tue paturnie, le tue fissazioni, i tuoi pregiudizi, le tue convinzioni, la tua credulità, i tuoi capricci, le tue bizze, le tue ossessioni, le tue ansie, le tue manie, le tue fobie, le tue paranoie, le tue velleità, le tue schifiltosità, i tuoi stereotipi, i tuoi pallini.
Ancora una piccolissima osservazione: Boghossian, cognome armeno; Weiss, cognome ebraico, e altri se ne trovano, in questa piccola coraggiosa squadra di resistenti: non sarà che chi è da sempre parte di una minoranza, in particolare minoranza spesso gratificata di speciali attenzioni, trova più facilmente nei propri geni la capacità di mettersi anche volontariamente in minoranza per opporsi a dittature e oppressioni?

barbara

IMPARO LA LEZIONE E POI LA APPLICO

Questa è la lezione

“In Occidente le persone ripetono a pappagallo slogan in cui non credono come nei paesi comunisti”

 “Non ci sono gulag in America. Non ci sono leggi che consentono i delitti d’onore. Non esiste un sistema di credito sociale come in Cina. Abbiamo ottenuto progressi incredibili e godiamo di libertà straordinarie. Eppure le persone non si comportano in quel modo. Agiscono, sempre più, come in un paese totalitario. Queste persone mi scrivono ogni giorno. Ammettono di censurarsi regolarmente al lavoro e con gli amici; di soccombere alla pressione sociale e twittare l’hashtag giusto; di ripetere a pappagallo slogan in cui non credono per proteggere i loro mezzi di sussistenza, come il fruttivendolo nel famoso saggio di Václav Havel”.
Scrive così la giornalista americana Bari Weiss in un lungo saggio apparso sul giornale tedesco Die Welt. Il riferimento è alla famosa storia di Havel, drammaturgo, dissidente e primo presidente della Repubblica ceca dopo il crollo del comunismo.
Un  fruttivendolo espone tra la merce una frase: “lavoratori di tutto il mondo unitevi”. Perché, si chiede Havel, lo fa? Perché così facendo “egli dichiara la propria fedeltà, nel solo modo che il regime è in grado di recepire, ossia accettando il rituale prescritto, accettando le apparenze come realtà, accettando le regole fissate del gioco”.
“L’America sta sviluppando rapidamente un proprio sistema informale di credito sociale, in cui le persone con la politica o la personalità online sbagliate sono bandite dai siti di social media e dalle reti finanziarie online”, spiega Bari Weiss. Così, la giornalista che si è dimessa dal New York Times perché non voleva più subire ricatti e offese ideologiche e professionali, stila una lista di cose da fare per opporsi alla censura.

• Ricorda a te stesso, in questo momento, la seguente verità: sei libero. È vero che viviamo in un mondo capovolto in cui premere il pulsante ‘mi piace’ sulla cosa sbagliata può portare a conseguenze incalcolabili. Ma cedere a coloro che cercano di confinarti ti fa solo male alla lunga.

• Sii onesto. Non dire nulla su te stesso o sugli altri che sai di essere falso. Rifiuta assolutamente di lasciare che la tua mente venga colonizzata. La prima cosa folle che qualcuno ti chiede di credere o di professare, rifiutala. Se puoi, fallo ad alta voce. Ci sono buone probabilità che ispiri anche gli altri a parlare.

• Attieniti ai tuoi principi. Se sei una persona perbene, sai che la giustizia del branco non è mai giusta. Quindi non unirti mai a un branco. Mai.

• Dai l’esempio ai tuoi figli e alla tua comunità. Significa essere coraggiosi. Capisco che sia difficile. Davvero difficile. Ma in altri tempi e luoghi, le persone hanno fatto sacrifici molto maggiori.

• Se una cosa non ti piace, lasciala. Comprendo appieno l’impulso a voler cambiare le cose dall’interno. E con tutti i mezzi: prova più che puoi. Ma se il leopardo sta mangiando la faccia della persona nel cubicolo accanto al tuo, ti prometto che non si asterrà dal mangiare anche la tua se pubblichi il quadrato nero su Instagram.

• Diventa autosufficiente. Se puoi imparare a usare un trapano elettrico, fallo. Ancora più importante: mettiti in testa che i social non sono neutri.

• Adora Dio più di Yale. In altre parole, non perdere di vista l’essenziale. Il prestigio professionale non è essenziale. Essere popolare non è essenziale. Portare tuo figlio in una scuola materna d’élite non è essenziale. Fare la cosa giusta è essenziale. Dire la verità è essenziale. Proteggere i tuoi figli è essenziale.

• Un amico è disposto a dire la verità anche se fa male alla sua parte? E pensa che l’umorismo non dovrebbe mai essere una vittima, non importa quanto desolate siano le circostanze? Queste persone sono sempre più rare. Quando le trovi, tienitele strette.

• Fidati dei tuoi occhi e delle tue orecchie. Affidati alle informazioni di prima mano di persone di cui ti fidi piuttosto che ai media.

• Hai la capacità di costruire cose nuove. Se non hai il capitale finanziario, hai il capitale sociale. O la capacità di sudare.
Giulio Meotti

E questa è l’applicazione

È brutta. Ha la faccia da scema e l’espressione un po’ (voglio tenermi bassa) da ritardata. Scrive ammucchiatine di parole insulse e lagnose, come potrebbe scriverle un bambinetto di seconda media. Se per poterla tradurre bisogna essere uguali a lei (madre single compresa?), io l’essere rifiutata lo considererei un onore tale che mi ci farei fare una coppa gigante che ricordi l’evento e la metterei nel posto più in vista della casa. (L’ho già detto che ho dichiarato guerra al politically correct?)

barbara

C’ERA UNA VOLTA

“Un re!” diranno subito i miei piccoli lettori. Ma no, stupidini, quelle sono le fiabe per bambini, siete forse dei bambini voi? Le cose che c’erano una volta di cui voglio raccontarvi sono altre. Il razzismo, per esempio: ne avete mai sentito parlare? Era una cosa bruttissima, sapete. Funzionava così: c’erano delle persone, i razzisti appunto, convinte che ci fossero delle razze superiori e razze inferiori; le vite delle razze inferiori, secondo loro, valevano meno, avevano meno diritti eccetera. Ebbene, adesso non esiste più! Al suo posto ha trionfato l’antirazzismo, che è una cosa bellissima: dice che solo le vite dei negri, preferibilmente musulmani, valgono e tutte le altre no, e se qualcuno si azzarda a dire che tutte le vite valgono – ma si può dire una simile assurdità?! – viene giustamente condannato a morte seduta stante e giustiziato sul posto.

Naturalmente l’antirazzismo punisce, giustamente, anche chi si permette di parlare di razze diverse dalla sua. Cioè no, non in assoluto: solo i bianchi che si permettono di parlare dei negri, mentre il contrario, giustamente, no, non è reato, non è peccato, non è sanzionabile.

Giulio Meotti

“È bianco, non può scrivere di schiavitù”. America e Inghilterra censurano lo scrittore francese de Fombelle. Un mio articolo sul Foglio sulla follia in cui siamo piombati
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Roma. Questo nuovo romanzo Timothée de Fombelle lo aveva pensato trent’anni fa. Aveva tredici anni quando i genitori lo portarono in Ghana per la festa di Ognissanti. “Siamo arrivati sui binari e lì, sulla costa, abbiamo potuto vedere dove gli olandesi, i francesi e gli inglesi hanno tenuto gli schiavi oltre due secoli fa prima di inviarli in America o nei Caraibi. La vegetazione aveva invaso il posto, ma c’erano ancora gli anelli appesi al muro e immagini che non dimenticherò mai…”.
Era nata così l’idea di “Alma”, uscito in Francia per Gallimard. Centinaia di migliaia di bambini in tutto il mondo hanno letto i suoi libri. De Fombelle ha scritto alcune delle opere più belle della letteratura francese per l’infanzia. Primo volume di una saga in tre volumi, “Alma” racconta la storia di una ragazza africana durante il periodo della schiavitù e ne evoca la lotta per l’abolizione. Ma il successo francese non sarà bissato in lingua inglese. Perché a differenza di tutti i suoi lavori precedenti, questo di de Fombelle non sarà pubblicato in Inghilterra o negli Stati Uniti. Sarà anche un eccellente scrittore, ma de Fombelle è bianco e in quanto tale non può affrontare il tema della schiavitù.
“Da Walker Books, il mio editore inglese che ha una filiale negli Stati Uniti, sono stato avvertito dall’inizio”, ha raccontato lo scrittore al Point. “Un argomento affascinante, ma troppo delicato, mi è stato detto: quando si è bianchi, quindi dalla parte di coloro che hanno sfruttato i neri, non si può appropriarsi della storia della schiavitù. A loro è piaciuto il libro, ma per la prima volta non lo pubblicheranno”. Come se prima di pubblicarlo avessero chiesto a Victor Hugo se avesse mai conosciuto la povertà per potere scrivere di Gavroche e dei “Miserabili”.
In “Alma”, il nome dell’eroina, de Fombelle porta il lettore a bordo della “Douce Amélie” nel 1786, che trasporta centinaia di schiavi verso la Francia. Il “crimine” ideologico dello scrittore è emerso negli anni 80 e si chiama “appropriazione culturale”, ovvero quando la cultura “dominante” prende elementi da una minoranza o cultura “dominata”. Due anni fa, a Montreal, la commedia Kanata del famoso drammaturgo del Quebec, Robert Lepage, ha visto una controversia simile perché raccontava la storia dal punto di vista degli amerindi. “Che un uomo bianco possa raccontare la storia della tratta degli schiavi dal punto di vista degli schiavi, anche se questa storia non è ovviamente la sua, è per me la definizione stessa di letteratura”, si è difeso de Fombelle. Ma così va ora.
Ora la statua di Victor Schoelcher di fronte al vecchio Palais de Justice di Fort-de-France nella Martinica è gettata a terra e fatta a pezzi. Perché il dandy ateo con vocazione umanitaria che abolì la schiavitù in Francia, per i nuovi antirazzisti, sarebbe in realtà un cripto razzista. E non importa che il vate della negritudine, Aimé Césaire, lo avesse celebrato con queste parole: “Contro la propensione alla tirannia, c’è un antidoto: lo spirito di Victor Schoelcher”. Oggi un bianco non può raccontare gli schiavi, figuriamoci averli liberati. Può solo inginocchiarsi e tacere.
de Fombelle
E poi c’era una volta, nel barbaro mondo occidentale, patria di ogni oscurantismo, una cosa mostruosa come la libertà religiosa: volevi pregare, non volevi pregare, volevi andare in chiesa, non volevi andarci, volevi pregare per i poveri bambini dell’India che morivano di fame o per le anime del purgatorio per mandarle più presto in paradiso o per la zia malata o perché il fidanzato tornasse da te: erano affari tuoi. Ma oggi per fortuna anche in questo campo la civiltà sta prendendo il sopravvento sulla barbarie: giù le chiese, e basta coi preti che pretendono di pregare per quello che vogliono loro.

E poi c’erano la libertà di pensiero, la libertà di parola, la libertà di stampa. Ecco, provate a rigirarvele in bocca, queste oscenità: non vi viene voglia di sputarle? Non vi viene un conato di vomito per lo schifo? Ma ora rilassatevi: le Forze del Bene hanno lavorato duramente, hanno lottato, hanno sofferto, si sono sacrificate, e alla fine il Bene ha trionfato!

Giulio Meotti

Avevano assunto una columnist non liberal. Ora arrivano le dimissioni di Bari Weiss dal New York Times (oggi si è dimesso anche Andrew Sullivan dal New York Magazine). Storia esemplare su come la sinistra intellettuale sia diventata l’intolleranza ideologica fatta carta. Per quei (pochissimi) giornalisti non progressisti o non ancora allineati al pensiero unico rimasti è sempre più dura. Traduco alcuni stralci della sua lettera di dimissioni perché è un documento importante del tempo miserabile in cui viviamo:

“È con tristezza che scrivo per dirti che mi dimetto dal New York Times. Sulla stampa è emerso un nuovo consenso, ma forse soprattutto in questo giornale: la verità non è un processo di scoperta collettiva, ma un’ortodossia già nota a pochi illuminati il ​​cui compito è informare tutti gli altri. Twitter è diventato l’editor del New York Times. Le mie incursioni nel ‘Wrongthink’ mi hanno reso oggetto di costante bullismo da parte di colleghi che non sono d’accordo con le mie opinioni. Mi hanno chiamato nazista e razzista. Alcuni colleghi insistono sul fatto che ho bisogno di essere sradicata se questa compagnia vuole essere veramente ‘inclusiva’, mentre altri postano emoji accanto al mio nome. Una parte di me vorrebbe poter dire che la mia esperienza è stata unica. Ma la verità è che la curiosità intellettuale – per non parlare dell’assunzione di rischi – è ora una responsabilità al Times. Perché scrivere qualcosa di audace solo per passare attraverso il processo paralizzante di renderlo ideologicamente kosher, quando possiamo assicurarci la sicurezza del lavoro (e dei clic) pubblicando il nostro articolo sostenendo che Donald Trump è un pericolo unico per il paese e il mondo? E così l’autocensura è diventata la norma”

E, aggiungo io, il giornalismo sta morendo…

E infine, nell’orribile mondo arretrato, troglodita, selvaggio, spietato, disumano di una volta c’era lo stupro. La potete immaginare una cosa più orribile, una violenza che non si limita a colpire l’esterno del corpo ma lo vuole colpire anche da dentro, che trasforma l’atto più bello donato alla specie umana in una sofferenza senza fine. E oggi? In questo nostro splendido mondo progressista pieno di luce dove sorge il sol dell’avvenir che sorge libero e giocondo (uhm, no, mi sa che ho fatto un po’ di confusione. Che poi però forse a pensarci bene magari anche no), in questo nostro splendido mondo, dicevo, lo stupro è scomparso? Ecco, proprio scomparso scomparso no, ci vuole un po’ di pazienza, però fortemente diminuito sì. Perché se una donna bianca accusa di stupro un non bianco si tratta chiaramente di una sporca razzista, meritevole del massimo disprezzo e del più deciso ostracismo, e qual è la donna che, dopo avere subito l’onta dello stupro, abbia voglia di coprirsi anche di disonore e di essere trattata come una reietta? E data l’alta percentuale di stupri perpetrati da non bianchi, ecco che la piaga degli stupri denunciati si ritrova come per incanto meravigliosamente ridimensionata.

Ah, come siamo fortunati a vivere oggi, e non nei tempi tristi e bui del C’era una volta!

barbara