IL VACCINO MALEDETTO HA COLPITO ANCORA!

E anche retroattivamente, come se non bastasse!

Davvero, non si sa più come salvarsi, tu dici non mi vaccino perché non mi fido, e lui riesce a fregarti lo stesso, sto bastardo. Perfino quasi peggio della Murgia. Cosa c’entra la Murgia? Parafrasando la Melato (o forse Tognazzi, non ricordo bene), la Murgia c’entra sempre, come dimostra questo signore meravigliosamente scorretto

Per la verità avrei qualche perplessità sulla Canalis, soprattutto per le ginocchia,

e soprattutto per l’espressione intelligente (e anche sulle mani mi sembra che ci sarebbe qualcosina da ridire),

e soprattutto per la vestaglia da camera (e sì, sulle mani c’è decisamente da ridire, e non solo su quelle)

ma insomma il concetto è chiaro, e decisamente condivisibile, direi. Poi c’è anche qualcun altro che ha qualcosa da dire alla signora Murgia.

Alessandro Matta

Breve lettera aperta a Michela Murgia

Gentile Michela

ho avuto modo di ascoltare, stamattina, le dichiarazioni da lei rilasciate sul canale televisivo “la 7” in merito a alcune frasi pronunciate dal nostro Commissario Straordinario per la gestione dell’emergenza da Covid-19 Generale Figliuolo, frasi da lei bollate quasi con senso di superiore nonchalance come “frasi di guerra” che “non verrebbero mai capite da un popolo che militare non è”, ma soprattutto la sua uscita molto infelice sul fatto che Figliuolo gira sempre in divisa e, quando pronuncia alla tv in divisa messaggi, le ricorderebbe i dittatori.
Per quanto concerne il “farsi sempre vedere in divisa”, signora Murgia, posso chiederle gentilmente, come dovrebbe farsi vedere un commissario straordinario all’emergenza che fa parte dell’esercito italiano? Per caso si dovrebbe vestire in giacca cravatta ogni volta che va in diretta tv per apparire “rassicurante”? E quanti capi di stato non sempre in divisa ci sono in giro per il mondo che fanno danni seri?
Per quanto concerne poi il “linguaggio di guerra”: questa che combattiamo tutti contro il virus, cosa altro è, se non una guerra? Per essere una guerra secondo lei e poter quindi usare un dizionario “di conflitto”, cosa dovrebbero esserci, le bombe? le sparatorie? i morti per strada?
Ed infine, una considerazione personale, specie sul “fare paura con la divisa”:
Sarò noioso, signora Murgia, sarò uno monotematico, che finisce sempre col finire sul discorso della memoria storica, e in particolare della storia della Shoah, argomento che studio e divulgo da ormai quasi 30 anni, ma le voglio raccontare una vicenda ancora oggi poco nota, che ha per protagonisti proprio gli Alpini, il corpo militare da cui proviene il Generale Figliuolo.
Io, vedendo il Generale Figliuolo in tv, specialmente vedendo quel cappello con la penna degli Alpini, non ho personalmente paura, ma ho sempre una reminiscenza storica, che mi riporta al periodo che andò dal novembre 1942 al settembre 1943, e vide per protagonista proprio il corpo degli Alpini nella Francia meridionale e soprattutto nella zona della Costa Azzurra occupata dagli italiani.
Lungi da me ora reiterare uno stereotipo quale quello degli “italiani brava gente”, dal momento che all’epoca il nostro esercito obbediva a un dittatore sanguinario quale Mussolini è stato, e purtroppo si è reso colpevole di numerosi crimini di guerra, eppure… sa cosa accadde proprio con il corpo degli Alpini in quel lembo di terra occupato dal nostro paese? Soprattutto nella località di Saint-Martin-Vésubie si realizzò l’impossibile. Gli ebrei della zona, ricercati dalle squadracce di Vichy, trovarono rifugio nel villaggio occupato dagli italiani. Erano francesi, ucraini, russi, olandesi, che per un breve periodo conobbero una vita migliore degli ebrei nel nostro Paese.
A occupare la località erano proprio soldati appartenenti al corpo degli Alpini, che fecero si che in quella località si vivesse insomma come in un tempo sospeso, mentre tutt’intorno in Europa si combatteva e tutti gli ebrei morivano. Nel piccolo borgo francese, invece, quando gli agenti di Vichy pretendevano la consegna degli israeliti, la risposta degli italiani era secca: «Qui decidiamo noi. Andatevene».
Tutto finì con l’8 settembre 1943 e l’esercito italiano allo sbando dopo l’armistizio, e sa gli ebrei della zona cosa fecero? Seguirono la ritirata verso l’Italia dei soldati che li avevano fino a quel momento protetti, andando verso il Piemonte. Ad organizzare questa improbabile fuga fu proprio un colonnello degli Alpini, Federico Strobino, che raccolse attorno a lui oltre 400 persone e guidò una fuga impossibile, ma alla fine riuscita, verso il nostro paese.
Vorrei domandarle: lei in una situazione come quella, cosa avrebbe fatto? avrebbe detto che le divise le fanno paura e non avrebbe mai e poi mai seguito i soldati italiani? Avrebbe preferito finire arrestata di li a pochissimo dalla Gestapo sotto il comando di Alois Brunner, il braccio destro di Eichmann che proprio dopo l’8 settembre 1943 fu mandato in quelle zone a scatenare tedeschi e collaborazionisti francesi nelle retate? E che finì anche con l’arrestare il padre di Serge Klarsfeld, l’avvocato e storico nonché “cacciatore di nazisti” e marito della presidente onoraria della mia associazione, la straordinaria Beate?
Ovviamente, fu inutile, perché anche il nostro paese fu occupato e iniziò anche in Italia la collaborazione attiva al genocidio e alle deportazioni, e solo alcuni di coloro che erano scappati riuscirono poi a sopravvivere. Eppure, il gesto degli Alpini e il loro comportamento in quella regione della Francia è ancora oggi ben ricordato.
Ecco, io spesso vedendo Figliuolo in tv mi ricordo di quegli avvenimenti, e di certo non provo paura davanti a un commissario straordinario in divisa, né provo minimamente a immaginare frasi così offensive come quelle da lei pronunciate.
Cordialmente
Dott. Alessandro Matta, Associazione Memoriale Sardo della Shoah

E non solo Matta

Tornando per un momento al covid, i bollettini ci raccontano che il giorno 7 aprile ci sarebbero stati 627 morti, oltre duecento più del giorno prima, con 21 ricoverati in meno nei reparti ordinari e addirittura 60 in meno nelle terapie intensive. Dici che quelli usciti dagli ospedali lo hanno fatto tutti coi piedi in avanti? Sembrerebbe di no, visto che fra dimessi e guariti nello stesso giorno fanno un mucchio di 20.927 persone: per quanto tempo ancora continueranno a riempirci di balle? Per quanto tempo ancora continueranno a terrorizzare la popolazione con questi ridicoli numeri inventati? E per quanto tempo ancora la popolazione continuerà a bersi queste ignobili menzogne e a lasciarsi terrorizzare come polli nel pollaio?

Concludo con una nota di politica interna

e una di politica estera

barbara

BEATE KLARSFELD

Oggi rubo le parole a Giulio Meotti per rendere omaggio a una grande donna, che ha sempre suscitato la mia più grande ammirazione.

Quando le chiesero che lavoro faceva, Beate Klarsfeld rispose: “La casalinga”. Disse che si prendeva cura di “tre cani, due gatti, un marito e due figli”. La signora fino a domani, quando la Germania sceglierà il suo nuovo presidente, sarà per tutti “Fräulein Klarsfeld”. La celebre sicaria garantista è stata scelta infatti dal partito della sinistra radicale Die Linke come candidato a presidente della Repubblica federale. La Klarsfeld ha poche chance di vittoria contro l’ex pastore protestante Joachim Gauck, il dissidente della Ddr che può contare sull’appoggio tanto della maggioranza quanto dell’opposizione socialdemocratica e Verde. Franco-tedesca che ha trascorso tutta la vita a cercare di portare in giudizio gli ex criminali di guerra, di recente la Klarsfeld ha ricevuto la Legione d’onore da parte di Nicolas Sarkozy, mentre in Germania una richiesta, su istanza della Linke, del riconoscimento corrispondente, la croce d’onore, le è stata rifiutata senza spiegazioni dal ministero degli Esteri e dall’ufficio del presidente della Repubblica. In Germania la amano o la odiano. Molti le danno della “fanatica” e in Francia il quotidiano Le Monde l’ha appena accusata di essere parte della “estrema sinistra sarkozista”. La sua candidatura ha l’altissimo valore simbolico di un’iniziativa che rende onore a una autentica protagonista del Novecento. E’ l’epopea di una famiglia, Beate e Serge Klarsfeld, giuristi agguerriti, cacciatori di criminali di guerra e custodi ortodossi e oltranzisti della memoria. La storia pubblica di Beate inizia nel 1968, quando da ragazza scrive un pezzo sul giornale francese Combat per denunciare il passato nazista dell’allora cancelliere tedesco della Cdu, Kurt Georg Kiesinger. Per questo articolo Beate viene subito licenziata dall’ufficio franco-tedesco per la gioventù presso cui lavorava. Allora la ragazza, ventinovenne, prese posto sulla tribuna del Bundestag e urlò all’indirizzo di Kiesinger: “Nazista, nazista, nazista, dimettiti!”. Niente. Il 7 novembre del 1968 si reca al congresso della Cdu a Berlino e rifila uno schiaffone al cancelliere. Una fotografia immortala i suoi occhi di brace e lo sgomento di Kiesinger.

“Fu un gesto simbolico: i figli dei nazisti picchiano i loro padri”, dirà Beate nel 2006 a una radio tedesca. Lo schiaffo le costò un anno di carcere. A ulteriore giustificazione del suo gesto, Beate disse di non poter tollerare che uno dello stesso partito del criminale che aveva deportato il suocero ad Auschwitz fosse diventato cancelliere. Kiesinger alla fine non verrà rieletto e Beate ottenne il plauso di numerose personalità pubbliche. Heinrich Böll, premio Nobel per la Letteratura nel 1972, le spedì un mazzo di rose rosse. “Frau Klarsfeld, avrei voluto parlarle volentieri… quello che sta facendo è meraviglioso”, le lasciò detto sulla segreteria telefonica Marlene Dietrich. Per far adottare dalla Germania una legge più severa con gli ex ufficiali nazisti, Beate si farà persino arrestare dentro al campo di concentramento di Dachau. Rimase in cella tre settimane. Tre anni dopo tentò di rapire a Colonia l’ex capo della Gestapo di Parigi, Kurt Lischka, che lì viveva indisturbato. L’ex gerarca verrà processato per la deportazione di quarantamila ebrei dalla Francia. Beate aveva già trovato una macchina sportiva per portarselo in Francia, ma uno dei compagni, che doveva colpirlo alla testa, non ebbe il coraggio. Un fallimento. Ma tutti conobbero il passato di Lischka. E Beate fu arrestata. Per assicurare alla giustizia il nazista Alois Brunner, Beate è volata fino in Siria. Ma il più stretto collaboratore di Adolf Eichmann, noto anche come “la mano destra del diavolo”, le è sempre sfuggito. E’ accusato dello sterminio di 128.500 ebrei austriaci, greci, francesi e slovacchi. Brunner “l’ingegnere della soluzione finale”, ossessionato dallo sterminio degli ebrei al punto che nel 1985, intervistato dal magazine tedesco Bunte, affermò di “rimpiangere di aver lasciato il lavoro a metà”. La mattina del 5 dicembre 1991, il telefono squilla nella casa di Brunner in via George Haddad a Damasco. I servizi segreti siriani gli annunciano: “La Klarsfeld è arrivata a Damasco”. Brunner balbetta intimorito: “Non mi consegnerete a quella donna?”. Grazie sempre alla nota casalinga, Joseph Schwammberger, ufficiale delle SS responsabile dello sterminio di tremila ebrei polacchi, è finito in tribunale a Stoccarda. Beate Klarsfeld ha spartito con Simon Wiesenthal gli onori della caccia agli ex nazisti. Ma le loro biografie non potrebbero essere più diverse. Due cicatrici appena visibili sui polsi di Wiesenthal ricordavano che tentò il suicidio in uno dei dodici campi di sterminio da cui uscì vivo per miracolo. Lei, Beate, non è passata per l’Olocausto. E’ la figlia di un soldato della Wehrmacht. Non un’ebrea, ma una cristiana protestante. Fu nel 1960, quando venne a vivere in Francia e incontrò Serge, che sentì che la gioventù tedesca doveva assumere la responsabilità morale e storica dei campi di sterminio. Fu il marito, figlio di un deportato di Auschwitz, ad aprirle gli occhi. Si conobbero nella metro di Parigi. Aveva ventun anni. Da allora Beate ha fatto della caccia la ragione della sua vita. Una donna sempre pronta a generare scandalo per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Come quando si recò in piazza San Pietro tra gli ebrei che manifestavano contro la decisione di Giovanni Paolo II di ricevere il presidente austriaco Kurt Waldheim, bandito dagli Stati Uniti per il suo passato nell’esercito nazista. Beate voleva portare numerose bombolette di fumogeni in piazza. Ma causarono un piccolo incendio all’Hotel Columbus in via della Conciliazione, a due passi dal Vaticano. Beate ha pagato un caro prezzo per questa caccia al passato. Una volta le hanno messo una bomba in casa. Un’altra volta hanno fatto saltare la sua automobile. La rete televisiva Abc negli Stati Uniti ha realizzato un film su di lei, interpretato dall’ex “Charlie’s Angel” Farrah Fawcett. Nel 1998 ci fu l’apice delle imprese di Beate e Serge. Non portarono alla sbarra un ex gerarca tedesco come Klaus Barbie, ma un francese, un esponente di quella borghesia di provincia che spedì al massacro migliaia di ebrei e seppe riciclarsi con perfida maestria. E’ il caso Maurice Papon, segretario generale della prefettura della Gironda, fedele a Vichy, di cui anche il presidente Charles de Gaulle nel 1968 disse: “E’ uno serio, una brava persona”. I Klarsfeld riuscirono a trasformare il caso nel processo alla Francia collaborazionista. Papon fu infatti l’unico responsabile del regime di Vichy a essere stato condannato per lo sterminio degli ebrei. Storica la sentenza della Corte di assise di Bordeaux, il 2 aprile 1998: “Complicità in crimini contro l’umanità”. Gli varrà l’etichetta di “boia di Vichy”, perché tra il 1942 e il 1944 Papon mandò a morire oltre 1.500 ebrei, anziani e bambini, prelevati minuziosamente da sanatori, case di riposo, ospedali. Poi i Klarsfeld costruiscono l’accusa contro Paul Touvier, il capo della milizia di Lione. I coniugi passano anni a mettere su una azione legale credibile. E alla fine i capi d’accusa parlano da soli: l’attentato contro la sinagoga di Lione nel 1943; l’assassinio di Victor Basch, il presidente della Lega francese dei diritti dell’uomo, sempre nel 1943; la complicità nell’uccisione di sette ostaggi ebrei a Rillieux, nel 1944.Touvier gode della protezione di monsignor Duquaire, il segretario particolare dell’arcivescovo di Lione. Sarà Georges Pompidou, nel 1971, a firmare la sua grazia in contumacia. Scoppia lo scandalo. La notizia suscita la reazione delle comunità ebraiche. I Klarsfeld lo scovano, nel 1989, a Nizza, in un convento di sacerdoti cattolici integralisti, sotto falso nome: Paul Lacroix. Se Beate è una donna d’azione, il marito Serge è un intellettuale che ha trascorso molti anni a scrivere i sei volumi della storia dei bambini ebrei di Francia uccisi nell’Olocausto. Un libro sconvolgente, che ricostruisce minuziosamente la storia di ognuna delle giovanissime vittime con corredo di fotografia e di dati anagrafici, ma soprattutto è un libro con cui Klarsfeld ha riaperto la polemica con il presidente François Mitterrand a proposito delle responsabilità del regime di Vichy e della figura di René Bousquet, che della polizia di Vichy fu il capo, e con il quale Mitterrand ha intrattenuto per molti anni rapporti di amicizia. “Mai, nella storia di Francia, si erano martirizzati dei bambini per non scontentare i vincitori”. Klarsfeld se la prese con Elie Wiesel a causa di “Mémoire à deux voix”, il libro in cui Mitterrand dialoga con il premio Nobel ex deportato e si sofferma sull’amicizia con Bousquet. “Wiesel si comporta come se il soldato Mitterrand fosse passato dalla prigionia in Germania alla Resistenza”, disse Klarsfeld. “Un Wiesel nei panni del cortigiano. Rimprovera a Mitterrand quell’amicizia con Bousquet ma non gli ricorda: signor Mitterrand, nel 1942 e anche nel 1943, lei era petainista e, in seguito, ha avuto Bousquet come amico”. Contro l’oblio della memoria i Klarsfeld hanno rinvenuto lo schedario di tutti gli ebrei residenti in Francia all’epoca dell’occupazione nazista. Due anni fa arriva un altro successo. Dalla ex stazione dei treni di Bobigny, nella periferia di Parigi, più di 20.000 ebrei furono deportati verso i campi della morte tra il 1943 e il 1944, senza mai fare ritorno. I Klarsfeld hanno costretto i capi della Sncf, la società ferroviaria francese, a riconoscere le loro responsabilità nelle deportazioni naziste. Grazie a loro il mea culpa del presidente della Sncf, Guillaume Pepy, è diventato inevitabile. Un anno fa i Klarsfeld hanno protestato contro la decisione di includere Louis-Ferdinand Céline, l’autore del celebre “Viaggio al termine della notte” ma anche noto per i suoi pamphlet antisemiti, nella raccolta delle Celebrazioni nazionali del 2011 edita dal ministero della Cultura. Klarsfeld ha chiesto “il ritiro immediato di questa raccolta e la soppressione delle pagine dedicate a Céline nella prossima riedizione”. “Il ministro Frédéric Mitterrand deve rinunciare a portare i fiori in memoria di Céline, così come suo zio, l’ex presidente François Mitterrand, fu obbligato a non deporre più corone di fiori sulla tomba di Petain” (il maresciallo capo del regime francese collaborazionista). E ancora: “Il talento di scrittore non deve fare dimenticare l’uomo che lanciava appelli alla morte degli ebrei sotto l’Occupazione. Che la Repubblica lo celebri è indegno. Bisogna attendere secoli, e non solo cinquant’anni, perché si possano commemorare allo stesso tempo le vittime e i loro carnefici”. Alla fine, Klarsfeld ha la meglio e Céline viene cassato dalle celebrazioni, nonostante il presidente Sarkozy avesse detto a favore dello scrittore collaborazionista: “Si può amare Céline senza essere antisemiti, come si può leggere Proust senza essere omosessuali”. Storica è la militanza pro Israele della famiglia. Nel 1967, allo scoppio della guerra dei Sei giorni, Serge parte volontario per Israele, dove serve come corrispondente militare sulle alture del Golan. Nel 1970 Beate vola a Varsavia, per protestare contro il processo intentato agli “ebrei sionisti”. Si incatena a un albero della capitale polacca e distribuisce volantini contro il regime comunista antisemita. Viene arrestata ed espulsa. Un anno dopo parte per Praga, dove è in corso un altro processo a militanti ebrei. Golda Meir, da primo ministro d’Israele, le ha conferito la medaglia della “Donna di valore”. I coniugi Klarsfeld hanno attaccato l’Europa che “fa concessioni al mondo arabo ed è pronta a sacrificare diplomaticamente Israele”. Serge è stato uno dei pochissimi intellettuali pubblici di Francia a sostenere la guerra in Iraq. Nel 1974 Beate fu l’unica occidentale a prendere un aereo per Damasco e protestare contro il trattamento riservato dai siriani ai prigionieri di guerra israeliani. “Non lasciamo che i crimini della Germania di Hitler vengano usati come modello dal mondo arabo”, recitava un appello di Beate pubblicato dai giornali dell’epoca. Nel 1975 vola al Cairo, per denunciare Hans Schirmer, allora a capo del programma euro-arabo ma che prima aveva servito nell’ufficio di propaganda nazista. Tre anni dopo, il primo ministro israeliano Menachem Begin e il ministro degli Esteri Abba Eban la nominano invano per il premio Nobel della Pace. Nel 1979 Beate è a Teheran, per protestare contro l’esecuzione di Habib Elghanian, leader della comunità ebraica iraniana. La troviamo poco dopo a Beirut, dove si offre prigioniera in cambio di cinque ebrei libanesi tenuti in ostaggio dai terroristi sciiti. Nel 1988 Beate venne espulsa dall’Algeria, dove era andata per manifestare contro il vertice arabo. Voleva presentarsi con uno striscione: “Il pieno e completo riconoscimento dello stato di Israele è il primo passo verso la pace”. Nel 2004 Serge generò un altro scandalo in Francia suggerendo agli ebrei di emigrare in Israele. C’era fin troppo antisemitismo a Parigi. Anche il figlio, Arno Klarsfeld, ha speso parte della sua carriera di avvocato alla ricerca dei criminali di guerra. Quasi tutti se lo ricordano puntare il dito come difensore delle parti civili contro Papon. Poi alla soglia dei quarant’anni, Arno Klarsfeld ha indossato la divisa color oliva dell’esercito israeliano. Disse di essersi “sentito aggredito dalla politica estera della Francia, che compra la sua sicurezza a breve termine dalle organizzazioni terroristiche che oggi non hanno alcun interesse a colpire un paese che si oppone a Israele e agli Stati Uniti”. La scintilla scattò a qualche metro dal Mike’s Place di Tel Aviv, dove un kamikaze palestinese si è fatto saltare in aria provocando una strage. Quei corpi carbonizzati, resti umani abbandonati sull’asfalto, gli hanno dato l’ultima spinta verso l’arruolamento: è diventato soldato di Tsahal per combattere le organizzazioni terroristiche che seminano morte in Israele.

A La Paz, in Bolivia, Beate si è incatenata a un albero per protestare contro la mancata estradizione di Klaus Barbie. Nel 1985 la rivista americana Life rivelò il piano dei coniugi Klarsfeld, di fronte alla mancata estradizione, per assassinare il “boia di Lione”. Alla fine riescono a farlo estradare e Barbie viene condannato all’ergastolo per lo sterminio di migliaia di persone nelle camere a gas (come i cinquanta bambini ebrei razziati nella colonia di Izieu). Klarsfeld sa che i criminali di guerra non pagano mai abbastanza. Franz Nowak, responsabile dei treni della morte che trasportarono un milione di ebrei nelle camere a gas, ha scontato sei anni di galera. Tre minuti per ogni vittima. Ma catturarli ne è valsa comunque la pena. A giustificazione del suo lavoro di cacciatrice, Beate ha detto: “Non hanno il diritto di morire in pace nei loro letti”.

Non ho parole da aggiungere a questo splendido ritratto, tranne un immenso GRAZIE a questa grande donna per la sua infaticabile opera, per la sua determinazione, per il suo coraggio.  


barbara