IO (11/8)

Concedetemi una botta di protagonismo

E per cominciare in modo logico la botta di protagonismo, parto con la sala delle botti alla cantina del Golan,
botti-golan
naturalmente sempre col foulard sulle spalle per via del freddo polare che tocca patire in qualunque spazio interno da queste parti.
Poi c’è questa ai piedi del monte Sodoma,
monte-sodoma
di cui ancora non vi ho parlato, ma ve ne parlerò, perché c’è un bel po’ di cose da dire e di immagini da vedere (in realtà ne ho già parlato in altra occasione, ma su tutt’altro aspetto).
E come quelli ballavano sul Titanic che affondava, qui vedete l’incosciente che sorride sull’orlo dell’abisso, sopra Maktesh Gadol,
maktesh-gadol-2
mentre sul fondo, precedentemente, si era comodamente adagiata all’ombra.
maktesh-gadol-1
Qui sono su uno dei sentieri che collegano le varie cave a campana
cave-campana
– e anche la gonna giustamente a campana – vicino a quello che avevo indicato come un cappero e invece poi sono stata severamente bacchettata sulle dita perché col cappero che era un cappero.
E qui a Wadi Kelt,
wadi-kelt
nello spazio in cui i turisti si fermano per ricevere spiegazioni dalle guide, scattare foto, e resistere eroicamente ai tampinamenti dei venditori arabi che ad ogni auto o autobus che si ferma si precipitano fulmineamente sui malcapitati assediandoli con ogni sorta di cianfrusaglie da vendere e seguendoli poi accanitamente in ogni spostamento.
Per le foto di Gerusalemme occorre qualche spiegazione preliminare. La città vecchia – chi la conosce lo sa bene – è sostanzialmente fatta di scale. Per spostarsi lì dentro bisogna fare scale, tante scale, centinaia e centinaia di gradini, credi di avere finito e c’è un’altra rampa, pensi che sia l’ultima e invece no, non finisce mai. A parte il fatto che fare scale mi era stato severamente vietato dal fisiatra, c’era l’immane fatica del muoversi in quel modo per ore da parte di una persona reduce da tre mesi di quasi immobilità più tre settimane di mobilità estremamente ridotta. Questa è la ragione della mia faccia sfinita, pressoché catatonica, qui presso uno degli infiniti banchi della città vecchia,
jerush-1
e qui coi due poliziotti che impediscono il passaggio a uno degli ingressi al Monte del Tempio
jerush-2
– ah no, scusate, alla spianata delle moschee, quella che è islamica fin dalla creazione del mondo e sulla quale il profeta musulmano Issa a dodici anni disputava con gli imam nella moschea, stupendoli con la propria sapienza, mentre più avanti ne avrebbe cacciato cambiavalute e venditori di colombe che avevano la deplorevole abitudine di condurre i propri affari dentro la moschea. Quella. Poi poco dopo è intervenuto il cuore a informarmi che ero arrivata al limite e dovevo fermarmi immediatamente. Per fortuna i segnali di allarme li so riconoscere, e a quelli obbedisco – a prescrizioni e divieti dei medici non sempre, soprattutto se titolari di un culo brutto, ma a quelli del mio corpo sì – e mi sono fermata all’istante. Ho avuto la fortuna che proprio nel punto in cui mi sono fermata c’era un muretto basso, e mi ci sono stesa. Ho avuto l’altra fortuna che nel gruppo c’era un medico, che ha provveduto a mettermi uno zaino sotto la testa e due sotto le gambe, e dopo un po’ mi sono ripresa.
Poi c’è questa al ristorante armeno, la sera dell’arrivo a Gerusalemme,
io-e-gatto
che a qualcuno sicuramente piacerà.
E infine, per concludere, i soliti due (attenti a quei),
mar-morto
in cui lei come al solito ha dimenticato di tirare dentro la pancia, a differenza di lui che non se ne dimentica mai.

barbara

I VINI (11/3)

Direi che è la cosa giusta da cui partire, dato che la denominazione di questo viaggio era “Tour enogastronomico”, e gli israeliani, che ne sanno sempre una in più, ci hanno accolti con questo cartello, perché sapevano quale astronomica quantità di grassi avremmo ingurgitato.
cartello
Ma torniamo ai vini. Abbiamo visitato quattro cantine. La prima è stata la cantina Yatir, dove alle quattro del pomeriggio ci ha accolti una stressantissima ma non per questo meno entusiasta addetta all’accoglienza che, come ci ha spiegato, era al lavoro dalle quattro di mattina e alle cinque aveva un matrimonio. Ha trovato comunque il tempo e la forza e la pazienza di dare spiegazioni mentre io fotografavo i dintorni: il prato,
yatir
una parte dei vigneti (non si vedono, ma garantisco che ci sono) con sullo sfondo, in cima alla collina, i resti di un villaggio ebraico del periodo bizantino che ha resistito fino all’arrivo dei musulmani, nel VII secolo, che hanno cancellato anche quella minuscola minoranza, come troppe altre cose sul pianeta Terra,
yatir-fortezza
e le vinacce.
yatir-vinacce
In un momento successivo ho avuto modo di apprezzare anche la simpatica targhetta delle toilette, comprensiva di istruzioni per l’uso.
yatir-toilette
Dentro la cantina abbiamo goduto dei consueti assaggi, che invece dei soliti tre sono stati sei, uno più squisito dell’altro.

Alla cantina Mony, che prende il nome dal figlio del proprietario morto in giovane età, non ho fatto foto, però in compenso ho comprato una discreta quantità di squisitezze, antipasti e marmellate. I proprietari sono arabi cristiani, che hanno preso in affitto la terra da un vicino monastero, ma producono vino rigorosamente kasher. Qui gli assaggi erano tre, ma sono riuscita a farne quattro. Prima di bere, per non rischiare di introdurre alcol a stomaco vuoto, c’erano a disposizione una ciotola di olive (fra le migliori in assoluto tra quante mi è capitato di assaggiare), un cestino di pane, una ciotola di olio in cui intingere il pane, e una di za’atar in cui insaporirlo (di tutte queste cose ho fatto fuori una quantità stratosferica).

La terza cantina è stata quella del Golan. Attraversando questo splendido patio
cant-golan-1
cant-golan-2
si esce e si vedono i contenitori, che variano da 500 a 200.000 litri, per i vini che vanno messi in commercio giovani,
cant-golan-3
mentre quelli da invecchiare stanno nelle botti.
cant-golan-4
cant-golan-5
cant-golan-6
Ci ha fatto da guida una tizia piccolina con due mastodontiche latterie, molto spumeggiante e simpatica, che ci ha fatto poi da guida anche nei tre assaggi, da effettuare con tutti i cinque sensi.

L’ultima è stata quella di Galil Mountain, in cui eravamo già stati l’anno scorso. L’anno scorso non avevo capito niente delle spiegazioni perché stavo malissimo, e per la stessa ragione non avevo neppure potuto fare gli assaggi, ed ero rimasta tutto il tempo fuori in poltrona, in stato semicomatoso. Quest’anno in tutto il viaggio non ho avuto neppure un malore, ma quella mattina si era verificato un piccolo incidente, non grave ma che, non so perché, mi ha provocato uno stato di shock (cosa che non mi era accaduta neanche quando sono stata investita sulle strisce), con forte tremito e tutto l’armamentario degli stati di shock (ma lo racconterò in altra occasione, perché è stato divertente), e insomma non me la sentivo di fare tutto il giro della visita, e sono rimasta in poltrona all’ingresso. Mi ha fatto compagnia Luciana, anche lei veterana della cantina e poco desiderosa di fare di nuovo il giro, e lì mi è preso un incontenibile attacco di logorrea e le ho rovesciato addosso tutti i miei guai fisici dell’ultimo anno (poi, dopo qualche ora, sono tornata in me e sono andata a chiederle scusa). Gli assaggi comunque, visto che fisicamente stavo benissimo, me li sono fatti, eccome se me li sono fatti.

Abbiamo visitato anche un’azienda che produce olio di altissima qualità. L’olio (50€ al litro) non l’ho comprato, però mi sono comprata un bel po’ di cremine fantastiche che la guida, una biondina piccolina molto carina, ci ha fatto provare direttamente sulla pelle.

barbara