Venerdì 11 dicembre 1931.
Mancano poche ore al tramonto.
La signora Rachel Posner ha appena finito di apparecchiare la tavola per lo shabat e di preparare le candele per l’ottava ed ultima sera di chanukah.
Il candelabro è posto sul davanzale della finestra, ben visibile a chi guarda da fuori, così da realizzare al meglio il pirsuma nisa, far conoscere al mondo il miracolo della festa.
Sul palazzo di fronte sventola una bandiera che in pochi anni rappresenterà lo sterminio di sei milioni di ebrei.
Rachel decide di immortalare l’immagine in una fotografia, sulla quale, una volta sviluppata, scrive
“Chanuka 5692. Juda verrecke, die Fahne spricht. Juda lebt ewig, erwidert das Licht – Chanuka 5692. Giudea muore, dice la bandiera. Giudea vivrà per sempre, rispondono le candele”.
La natura è regolata da un principio immutabile: dal nulla non si potrà mai generare qualcosa.
Dal primo momento della creazione è entrato in vigore il principio di Lavoisier, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
Per generare energia, è necessario partire da qualcosa di pre- esistente La capacità di dare vita a qualcosa dal vuoto assoluto appartiene solo ed esclusivamente a D-o.
Per dare origine alla fiamma ebraica, per fare in modo che continui ad illuminare il mondo, è necessario che la fiamma prenda vita da qualcosa che già esiste.
Quando i greci invasero la terra di Israele capirono che, per dominare davvero il popolo ebraico, sarebbe stato prima di tutto necessario eliminare tutto ciò che nutriva la loro vitalità. Ed iniziarono a vietare l’osservanza delle mizvoth. Sapevano che la fiamma degli ebrei sarebbe rimasta accesa finchè la Torà l’avrebbe alimentata.
I tedeschi continuarono il loro lavoro. E prima di accanirsi sul corpo degli ebrei, attaccarono la loro anima. Appiccarono il fuoco a libri e rotoli della Torà, sperando che quei roghi rappresentassero l’inizio della fine del popolo ebraico.
Quando le finestre di una casa si trovano troppo in alto rispetto alla strada, il candelabro va posto di fronte alla mezuzah, sulla cui pergamena si trova lo Shemà Israel. Ne parlerai quando ti trovi in casa tua, quando cammini per la strada, quando ti corichi e quando ti alzi, sta scritto.
Fai permeare la Torà e le mizvoth in ogni cosa che fai, in ogni parte di te stesso, nella tua esistenza.
Giudea muore, vorrebbero poter dire i nostri nemici. E noi continuiamo a studiare la Torà, ad osservare le mizvoth, a fare rispondere anno dopo anno dalla fiamma delle nostre candele,
Giudea vivrà per sempre.
Gheula Canarutto Nemni, qui E anche a 30° sottozero E addirittura…
Inverno, festa di Chanukkà 5706 (1945). Un bambino di sei-sette anni e suo fratello di nove, due tra 300 bambini scesi dalle navi, scampati dai campi di concentramento di Bergen Belsen e Buchenwald, vengono inviati nei campi di raccolta dei profughi, appena arrivati in Israele. I due bambini discendono da una famiglia di importanti rabbini provenienti dalla Polonia. Il più piccolo poco sa della tradizione ebraica, perché all’età di due anni e mezzo era stato costretto ad abbandonare la casa del padre: non conosce i canti e le tradizioni con i quali viene ora a contatto per la prima volta. Ma quando arriva la festa di Chanukkà e cominciano a cantare il canto tradizionale Maoz tzur jeshu’atì, un ricordo lo assale e, rivolto al fratello maggiore, chiede: dove abbiamo già ascoltato questo canto? E il fratello gli ricorda che era stato l’anno prima, quando si trovavano ancora a Buchenwald. Sì, adesso il bambino ricorda.
Correva l’inverno 1944. Campo di concentramento di Buchenwald, Blocco 62, dove erano internati 400 ebrei. Dopo cinque anni e mezzo di terrore non rimanevano che scheletri, quasi larve umane. Sui giacigli di legno si ammassavano per dormire fino a 14 persone una attaccata all’altra, tanto che, chi aveva il bisogno di rigirarsi nel letto, doveva svegliare tutti gli altri per potersi voltare tutti insieme.
Alla sera vi era la distribuzione del cibo. Venivano portate due grandi pentole e due internati di turno provvedevano alla distribuzione, mentre il tedesco di guardia controllava la situazione, Ognuno riceveva 150 grammi di pane, che era la razione giornaliera, un bicchiere di acqua calda che chiamavano the e, a seconda dei giorni, riceveva una razione di margarina: 200 grammi venivano divisi in 16 parti. Finita la distribuzione, i due internati di turno chiedevano al controllore tedesco cosa dovevano fare coi resti e i pezzi di margarina solida che rimanevano attaccati alla pentola. Al che il tedesco si faceva portare la pentole. Prendeva i pezzi più grossi di margarina, quelli ancora solidi e diceva: “Adesso io li getto per aria e chi li prende sono suoi”. Non mancavano davvero persone che, a causa della fame e delle molte sofferenze, avevano completamente perso il senso della propria dignità ed erano pronte a gettarsi ai piedi della guardia per raccogliere quel po’ di margarina ancora disponibile. Si formava cosi un groviglio umano ai piedi del tedesco, che godeva alla vista di questo spettacolo.
Nel blocco 62 c’era una persona anziana che aveva mantenuto uno sguardo e un comportamento altero. Quest’uomo non mancava mai di aiutare gli altri, aveva sempre una buona parola per tutti e spesso distribuiva ad altri anche parte del cibo che sarebbe toccato a lui. Aveva insomma mantenuto una dignità che non lo avrebbe mai portato a gettarsi ai piedi del tedesco per conquistarsi un pezzetto di margarina. Ma un giorno accadde inaspettatamente che, dopo la fine della distribuzione del pane, del the e della margarina, quando come era solito fare, il tedesco prese i pezzetti di margarina solida ancora rimasti, l’anziano si gettò sulla margarina e rimase disteso per terra finché non si fu assicurato che la margarina che era riuscito a raccogliere era al sicuro. Anche il vecchio aveva ceduto, era crollato di fronte a una realtà disumanizzante. Anche lui aveva venduto la propria dignità per un po’ di margarina.
Il vecchio si alzò lentamente e gli altri ebrei, mossi a pietà gli consegnarono i propri pezzi di margarina. Ciò che meravigliò gli astanti fu il fatto che il vecchio li accettò. Poi rifugiatosi in un angolo, aspettò che il tedesco uscisse. La gente intanto aveva notato con meraviglia che teneva la margarina solida vicino al bicchiere di the caldo, così che la margarina cominciava a sciogliersi.
Sembrò impazzito, tirava con forza i bottoni della sua vecchia divisa di internato e li strappava via. Anche lui a Buchenwald aveva ceduto alle lusinghe della pazzia, avevano convenuto gli altri internati. Con gesti convulsi prese a sfilare alcuni fili dai lembi del vestito. Il vecchio si alzò in piedi, aveva in mano i bottoni, i fili e la margarina liquida e gridò ai 400 internati del blocco 62 di Buchenwald: “Ebrei, oggi è Chanukkà!”
Dope cinque anni e mezzo di terrore, quel vecchio senza calendario ebraico, senza radio, senza alcun collegamento con l’esterno, era riuscito a tenere i conti, non aveva perduto la nozione del tempo ed era riuscito a stabilire la data di Chanukkà. Sapeva con precisione quando sarebbe caduto Chanukkà e in quale giorno della festa si trovavano: aspettava solo il giorno della distribuzione della margarina.
Prese i bottoni e li mise per terra, poi prese i fili e li infilò nei bottoni versando un po’ di margarina sui bottoni. Ecco… adesso aveva tutto ciò che gli era necessario per accendere i lumi della festa di Chanukkà. Una persona arrotolò un pezzo di carta e, dopo essersi arrampicata sulle spalle dl un altro internato, lo accese usando il fuoco della lampada a nafta che illuminava debolmente il blocco. Poi lo consegno al vecchio che, in piedi, in mezzo ai 400 internati accese i lumi recitando le benedizioni di rito: “Benedetto Tu o Signore che ci hai ordinato di accendere i lumi di Chanukkà”; “Benedetto Tu o Signore che hai fatto miracoli ai nostri padri in quei giorni in questo tempo”; “Benedetto Tu o Signore che ci hai mantenuto in vita fino a questo momento”.
Fu allora che tutti i prigionieri cominciarono a cantare dapprima a bassa voce ma poi sempre con maggior forza Maoz zur jeshu’ati. Mentre il canto dei 400 internati si faceva sempre più forte, nel blocco 62 del campo di concentramento di Buchenwald la porta di blocco viene aperta con violenza e al kapò e alla guardia tedesca delle SS che erano di guardia al blocco si presentò uno spettacolo incredibile. Quattrocento internati per un momento avevano conquistato la loro libertà, come al tempo dei Maccabei: cinque anni e mezzo di terrore avevano fiaccato il cuore, ma non il loro spirito.
Il bambino non aveva certo potuto dimenticare quel momento in cui la luce e il canto di Chanukkà avevano illuminato il Blocco 62 del campo di concentramento di Buchenwald.
(racconto orale, riportato in forma diversa anche in Sefer pardès chanukkà di A. R Roszenwassen, Gerusalemme 5750, p. 329)
A Chanukkah manca ancora un po’, ma io non ci sarò, quindi vi regalo adesso questa splendida perla, con tanti auguri di chag sameach a tutti. Ci rivediamo fra due settimane.
barbara
Le violenze sessuali subite dalle donne durante il nazismo sono state oggetto di scarsa considerazione da parte della ricerca storica, forse anche ostacolata dal silenzio delle vittime. A cominciare dagli stupri compiuti su centinaia di migliaia di donne da parte dell’Armata rossa durante la sua avanzata attraverso la Prussia orientale, poi continuati sulla popolazione civile berlinese, agli abusi commessi dalle SS su internate nei vari campi di concentramento, alla prostituzione forzata alla quale lo Stato aveva spinto donne che dopo la fine della guerra, schiacciate dalla vergogna, preferirono tacere temendo di essere giudicate e discriminate.
Il fatto che nella Germania nazista, per motivi di igiene razziale, la prostituzione fosse giudicata un grave reato punibile con la reclusione, non impedì a Himmler di ordinare la costruzione di dieci bordelli nei grandi campi di concentramento, dove prigioniere prelevate soprattutto dal lager femminile di Ravensbrück furono costrette alla prostituzione coatta.
Dopo il 1945, l’esistenza di questi bordelli fu messa a tacere, in linea con quanto già raccomandato nel 1943 ai vari comandanti dei lager: in caso di sopralluoghi, soprattutto da parte di delegazioni della Croce Rossa, non mostrare le camere a gas, gli strumenti di tortura, i crematori, i bunker di rigore – e i bordelli.
Solo recentemente la Germania si è svegliata da questo oblio, affrontando ciò che per decenni era rimasto un tabù.
Scrive (quasi sempre) romanzi, Helga Schneider, ma quando parla di campi di sterminio sa bene di che cosa parla, lei, abbandonata all’età di quattro anni, con un fratellino di uno e mezzo, dalla madre ansiosa di compiere il suo dovere di patriota come volontaria nei campi di sterminio. E così, dopo lo stupendo romanzo – in realtà autobiografia leggermente romanzata – “Il rogo di Berlino” (mentre “Porta di Brandeburgo” e “Lasciami andare madre” sono rigorosamente autobiografici), ci regala, sotto forma di romanzo, un’altra drammatica pagina della storia dei Lager (credo che prima di lei ne avesse parlato solo Ka-Tzetnik 135633 nel suo sconvolgente “La casa delle bambole”, oltre a un accenno, se ricordo bene, nel film “Vincitori e vinti” del 1961, capolavoro di Stanley Kremer, in cui una dei testimoni si apre coraggiosamente la camicia per mostrare, tatuata sul petto, la scritta “Feldhure”, puttana da campo). Storia, come scrive nell’appendice qui riprodotta, fatta affondare per decenni nell’oblio. Dal quale è nostro dovere farla riemergere.
Helga Schneider, La baracca dei tristi piaceri, TEA