2022 ODISSEA NELLA SANITÀ

Avendo un problema a un piede che le terapie non hanno risolto, l’ortopedica sospetta che ci sia qualcosa che i raggi non sono riusciti a evidenziare, e mi prescrive una risonanza. Al CUP, come sempre, mi dicono che in sede non si trova niente (tranne che a pagamento, come ho dovuto fare con i raggi, ma la risonanza costa troppo e quindi devo prendere quello che passa il convento) e mi danno un posto in trasferta per il 9 settembre. Il giorno prima mi chiamano dalla clinica per avvertirmi che hanno un problema con la manutenzione, e mi spostano l’appuntamento al 3 ottobre (in realtà c’era un posto anche il 26 settembre, ma era il giorno in cui avevo l’intervento). Poi la mattina dopo alle sette e mezza vado al CUP per vedere se c’è qualcosa prima tra la manciata di disponibilità che hanno ogni giorno per le urgenze, e chi ne ha bisogno va lì all’apertura perché in poche decine di minuti va via tutto. Sì, dice, c’è un posto in un’altra città per il 20 settembre: perfetto, lo prendo. Sennonché ci si mette di mezzo l’alluvione, le strade sono un mare di acqua e melma, provo a chiamare un taxi che mi porti alla stazione ma il tassista, quando gli dico l’indirizzo, mi dice mi dispiace, lì non possiamo arrivare perché non ci fanno passare. Allora parto a piedi, la strada consueta non è praticabile e quindi ne provo un’altra: impraticabile, ne provo una terza: impraticabile. Rassegnata torno a casa e chiamo la clinica per spiegare che da casa mia non c’è modo di raggiungere la stazione e che quindi sono costretta a disdire l’appuntamento. Per fortuna non avevo ancora disdetto l’altro, quello del 3 ottobre, e quindi mi tengo buono quello e il giorno 3, ancora parecchio dolorante per l’intervento, mi alzo, chiamo un taxi e mi faccio portare alla stazione. Arrivata alla clinica prendo il numero e quando arriva il mio turno vado allo sportello e consegno l’impegnativa. Il tizio inserisce i dati nel computer, aggrotta la fronte e dice “Ma lei è già prenotata da un’altra parte”. No dico, cioè sì, ma l’ho disdetta. Qui risulta attiva, dice lui. Allora gli spiego tutta la storia, e lui riconosce che non è colpa mia se all’altra clinica non hanno cancellato la prenotazione, però sta di fatto che il sistema non accetta la mia impegnativa e di conseguenza non si può procedere. Allora mi scrive il numero del CUP regionale e mi dice di chiamare e disdire, raccomandandomi di non affidarmi alle procedure robotizzate ma di parlare con un operatore. Per una decina di minuti trovo sempre occupato, poi finalmente mi rispondono ma, primo, tra le varie opzioni non c’è “se vuoi parlare con un operatore premi x”, secondo, il robot mi chiede il numero della prenotazione, che io non ho perché in mano ho solo quello dell’impegnativa. Torno allo sportello, il tizio prova a chiamare lui, ma non riesce a combinare niente neppure lui. Gli viene un’altra idea: il suo medico fa ambulatorio oggi? Sì, dico, ma fino alle dieci, e sono quasi le undici; se c’è gente continua, ma se non c’è più nessuno ovviamente se ne va. Provi, dice, si faccia fare un’altra impegnativa nuova e la faccia mandare al mio indirizzo email qui. Dubito che ci sia ancora, ma comunque provo a chiamare, e riprovo, e ri-riprovo, e ri-ri-riprovo, all’infinito, ma non risponde, evidentemente se n’è già andata. Torno allo sportello. Il tizio va a cercare una collega per vedere se lei ha qualche altra idea su come uscirne, e lei ce l’ha: fa una verifica e constata che l’altra clinica appartiene allo stesso circuito di quella, e quindi con una telefonata diretta riescono a far cancellare la prenotazione. Se l’avessi avuta con uno degli ospedali generali non ci sarebbe stata alcuna possibilità di venirne fuori.
Poi al ritorno non mi sento troppo male e decido di tornare a casa a piedi dalla stazione. Mi avvio, e ho la sensazione di camminare in modo strano, sensazione che più procedo e più aumenta. Arrivata a casa ho capito perché.

scarpa sinistra
scarpa destra

Ed è la quinta volta che mi perdo le suole per strada.

Sempre in tema di burocrazia, in settembre sono andata a fare la dichiarazione dei redditi e ho portato il 730 provvisorio che avevo scaricato l’anno scorso dall’INPS ma quello non andava bene, mi è stato detto: serviva quello dell’Agenzia delle Entrate. Così quando sono arrivata a casa ho chiamato per sapere se potevo andare lì direttamente o se dovevo prendere un appuntamento. La procedura standard, come mi è stato spiegato in seguito, consiste nel fare la richiesta via mail, poi loro, quando sono in comodo, rispondono  fissando un appuntamento per andarlo a prendere. Quel giorno però la titolare dell’ufficio era assente, e il tizio che la sostituiva, nel tempo che avrebbe dovuto impiegare per spiegarmi la procedura mi ha chiesto i miei dati, ha recuperato il mio documento nel computer, mi ha chiesto l’indirizzo email e mezzo minuto dopo il mio 730 era qui. Che poi quella notte stessa è arrivata l’alluvione, dopo di che per una settimana almeno non avrei potuto fare niente. Quando poi sono andata a consegnarlo per completare la dichiarazione l’ho raccontato alla tizia, che a sua volta mi ha raccontato di una a cui, sempre all’Agenzia delle Entrate, era stato detto che doveva mettere una marca da bollo su ogni pagina.

Non meravigliamoci se poi, in mano a un simile branco di burocrati, ci ritroviamo in guerra senza neanche sapere perché, e dalla parte dei nazisti, come se non bastasse. Sembra proprio in tema questo “Marte, il portatore di guerra”.

barbara

FORSE IL BUON SENSO NON È ANCORA DEL TUTTO MORTO

Matteo Bassetti 

Ho seguito e sto seguendo centinaia di persone vaccinate con 2 o 3 dosi di vaccino che hanno il Covid. Ebbene queste persone hanno un raffreddore o una forma influenzale che dura 3-4 giorni. Nulla a che vedere con il Covid di un anno fa e con il Covid di chi non è vaccinato. Dobbiamo quindi continuare con la stessa metodologia di affrontarlo dello scorso anno? Tracciamento? Milioni di tamponi? Isolamento di tutti i contatti? Quarantene dalle durate variabili e diverse a seconda di chi le decide? Reparti Covid dedicati con personale sottratto alle altre attività sanitarie? Colori delle regioni decise sulla base degli ospedalizzati senza distinguere malati da colonizzati asintomatici?
Non si può affrontare questa fase con le stesse regole. Abbiamo oltre l’80% della popolazione generale che è protetta. Chi non è vaccinato dovrebbe farlo presto, ma se non ha ancora capito o voluto capire l’importanza del vaccino difficilmente lo farà senza regole nuove.
Vedere code chilometriche nelle farmacie in questi giorni per fare il tampone serve a qualcosa?
Con oltre 50000 casi al giorno destinati a diventare molti di più nelle prossime settimane, dobbiamo vivere in maniera diversa la convivenza con il virus. Chi è malato deve stare a casa, come sempre si sarebbe dovuto fare per le malattie infettive contagiose e dobbiamo finire con il tracciamento. Non possiamo continuare a mettere in quarantena e in isolamento forzato decine di persone (i contatti) per ogni tampone positivo.
Il rischio, continuando così e’ trovarci tra pochissimo con milioni di persone isolate e in quarantena. Chi farà il pane, chi guiderà gli autobus, chi svolgerà le lezioni a scuola, chi garantirà la sicurezza, chi batterà lo scontrino al supermercato, chi lavorerà in ospedale?
Usciamo dalla visione del Covid come malattia devastante e entriamo nella fase endemica con una malattia più gestibile (nei vaccinati) costruendo regole diverse. Altrimenti sarà durissima.

Peccato solo che i signori lassù – quelli, per inciso, che da oltre due anni ci stanno imponendo governi uno più di merda dell’altro, incapaci, criminali, autori di politiche devastanti, e lontanissimi dall’orientamento attuale del Paese, pur di non lasciarci votare – abbiano tutt’altro tipo di interessi.

barbara

MA RIUSCITE A TROVARLA UNA PIÙ OCA DI QUESTA?

Che è sempre la stessa della “gender archaeology”. Il suo pippone è una palla pazzesca, ma lo dovete leggere perché dentro ci sono alcuni miei commenti, che non vi potete assolutamente perdere.

Ieri su Instagram stavo seguendo la diretta di un amico che per altro stimo molto, e a cui voglio un gran bene. Si parlava di Montemagno e del suo video su cosa devono fare o non fare le donne, in generale. L’amico invitava a riflettere le donne sul fatto che hanno il diritto di vestirsi come meglio credono, certo, ma che se indossano la minigonna in determinati contesti e quartieri, poi devono rendersi conto che rischiano fischi, molestie o peggio, e quindi sarebbe meglio non metterla. Come sarebbe meglio non andare in giro sole di notte in certi posti, perché si rischia. E che questa è una questione di buon senso, una misura transitoria mentre lui, che è psicologo, si occupa certo di educare i maschi e la società si evolve fino ad accettare che le donne possano indossare quello che vogliono e andare in giro quando a loro pare.

Io confesso mi sono incazzata. E non tanto con lui, ma con il ragionamento sotteso. Che sarà fatto in nome del buonsenso, e vuole magari essere pratico, ma di fatto non lo è, e persino peggiora la situazione.


1. La minigonna

A parte il fatto che davvero a me cascano le braccia a pensare che nel 2021, in Italia, cioè un paese occidentale avanzato, si debba consigliare una donna di non mettere la minigonna (o la scollatura, o i leggings) in determinati contesti perché rischioso. Ma stiamo scherzando? Se la mettevano le nostra nonne e noi ancora qui stiamo? [Tu hai 49 anni e no, tua nonna non portava la minigonna, a meno che sia tua madre che tua nonna non abbiano partorito a 15 anni] Ma che razza di società abbiamo costruito se ancora la minigonna è considerata… boh, pericolosa? [Non so come si chiami – né se abbia un nome – l’equivalente orale dell’analfabetismo funzionale; tu comunque hai quella cosa lì]

2. La minigonna in pubblico e le molestie

No, non è la minigonna. O i leggings. O la scollatura. Piantiamola una volta per tutte di dire che le molestie (che possono andare dal fischio per strada all’aggressione sessuale) sono motivate dai vestiti che una indossa. Le donne sanno bene che riceviamo commenti sconci ovunque, e non solo nei quartieri degradati o pericolosi, e comunque siamo vestiti. A me capitò in dipartimento all’università, e quello che commentò a voce alta il mio c*lo era uno stimatissimo professore universitario, attorniato dai suoi alliev* [preposizione articolata maschile, aggettivo possessivo maschile, ma alliev* con l’asterisco: lo vedi che sei cretina?]. Ah, ero vestita in jeans,per la cronaca [cioè l’indumento in assoluto più adatto a mettere in risalto il culo]. E l’asterisco è dovuto al fatto che nel gruppo a ridacchiare c’erano anche allieve femmine.

Il punto è che le molestie non nascono dal desiderio sessuale, e la provocazione che il molestatore sente non è quella della pelle scoperta o del sesso. Le molestie sono il modo con cui qualcuno ti “rimette a posto”. Il compito professore universitario non era in realtà attratto dal mio c*lo, che per altro non è mai stato granché. Era infastidito perché non lo filavo, e gli dava fastidio che in quella che considerava la sua biblioteca e il suo territorio di potere una ragazza caruccia e senza potere non mostrasse per lui alcuna attrazione e pensasse di potersi laureare senza la sua intercessione o protezione. Minavo le sue sicurezze [“visto gente quanto sono potente? Eh? Ho mandato in crisi il professore!”], per questo mi voleva rimettere a posto e chiarire che io potevo anche credermi libera e intelligente, ma in realtà ero e dovevo rendermi conto di essere solo un oggetto a sua disposizione. [E di fronte a questo sublime saggio di socio-psico-antropologia noi restiamo putrefatti]

Le molestie e le aggressioni partono da questo, servono a rimettere a posto, al “loro” posto, le donne che “alzano la testa”. Si mettono i vestiti che pare a loro, decidono di essere seducenti a prescindere dal fatto di avere un maschio che le protegge e a cui appartengono, ridono, scherzano, parlano a voce alta, si divertono, escono da sole. Devono essere ricondotte quindi al loro ruolo con le offese, la pubblica umiliazione, se serve le mani addosso per picchiarle e per stuprarle. Così capiscono che non si fa. E così le altre capiscono che chi lo fa viene punita. [Vedi sopra. E si constata che la Signorina non deve avere mai sentito parlare di ormoni]

3. Per questo dire di non vestirsi o comportarsi in un certo modo [che NON è quello che il tizio ha fatto] NON è la soluzione

Se il punto è che le molestie ti vogliono “rimettere a posto” [tesoro dolce, tu hai deciso che il fischio o il commento vogliono dire quello: confondere le proprie personali e spesso bizzarre opinioni con la verità assoluta si configura come una psicopatia grave e pericolosa. Per sé e per gli altri] insegnandoti che certi comportamenti tu, da donna, non te le puoi permettere, dire alle donne che non devono indossare la minigonna in certi contesti, o andare in giro da sole è profondamente sbagliato, inutile, è pericoloso.

Perché così il molestatore ottiene esattamente quello che voleva. Le donne accettano l’idea che NON devono fare certe cose. E che per altro, prevenire le molestie o le aggressioni è un problema loro, non della società. Perché sono loro che hanno comportamenti a rischio.

Per la società questo è un alibi comodo, perché il problema viene risolto per rimozione. Se il quartiere è pericoloso, non si prendono provvedimenti per migliorare la sicurezza. Basta che le donne stiano a casa o non escano vestite in maniera provocante. È una soluzione a costo zero che scarica il problema sulle vittime. [I film che riesce a farsi questa, ragazzi, è roba da non credere. E pensate che anche i suoi “libri di Storia” li costruisce così, e guai a farle notare che, per esempio, quella cosa lì al tempo di Giulio Cesare non c’era ancora: tuoni e fulmini si scatenano immantinente sul malcapitato]

È un po’ come dire che se ti pigliano in giro perché sei grasso, la soluzione è che ti metti a dieta così non ti prendono più in giro.

Poi ti prendono in giro lo stesso, magari, ma sono problemi tuoi, non della società. Ti intestardisci a essere grasso, nero, gay oppure donna, e a voler fare una vita come tutti gli altri. È chiaro che provochi, a questo punto.

4. Se la minigonna e un problema, allora usciamo tutt* in minigonna. [l’asterisco è per dire che oltre alle donne devono uscire in minigonna anche tutti gli altri sessi?]

Caspita, eppure sembra semplice da capire. Se dici alle donne che non devono uscire vestitite in un certo modo, o in certi orari, o non da sole, o in certi posti, non le aiuti. Perché rendersi ancora più difficile uscire o indossare determinati abiti a chi lo vuole [?]. Se x mette la minigonna da sola, si prende una caterva di fischi e il quartiere considera figo chi fischia, perché è l’uomo forte che la rimette a posto. Risultato nessuna più metterà la minigonna, per evitare i fischi e per evitare di essere considerata una sgu@ldrina. Risultato, il problema sarà peggio di prima.

Se tutte nel quartiere escono con la minigonna, anche la madre e le sorelle del tizio che fischia, il problema si risolve.

Per cui no, non dobbiamo dire alle donne che non devono vestirsi in un certo modo, e nemmeno che non devono postare su Instagram come fa Montemagno foto svestite perché sennò non vengono “prese sul serio”. Dobbiamo dire alle donne che invece devono fare QUELLO CHE VOGLIONO E FARLO DI PIÙ. e se serve organizzare nei quartieri a rischio manifestazioni in cui tutte andiamo in giro con la mini e la scollatura, e ci muoviamo alle due di notte da sole, per costringere le autorità e la società a capire che il problema esiste e siamo stufe di vedere limitata la nostra libertà.

E non è accettabile che ci si dica che dobbiamo arrangiarci noi e autolimitarci e portare pazienza finché la società non diventa pronta. La società si deve dare una smossa, perché noi pronte lo siamo e non vogliamo più aspettare.

Perché finché non faremo così, non ci muoviamo, metaforicamente e letteralmente.

E io sono stufa di essere una cittadina con meno diritti solo perché sono donna, ecco. (qui)

Stendendo un velo pietoso sul solito piagnisteo, dopo una serie di commenti osannanti, arriva una che dice:

Mah. Io evito le situazioni di rischio, mettiamola così. Se so che in un determinato contesto potrei incorrere in situazioni spiacevoli, evito e basta. Mi piacerebbe molto pensare ad un mondo giusto che mi prende per mano in caso di pericolo ma la vedo dura al momento. Questo non mi ha impedito di cambiare nazione, affermarmi sul lavoro ed essere autonoma/indipendente. Diciamo che le situazioni vanno valutate caso per caso. Sia chiaro: IO mi regolo così, non deve valere per tutte.

E l’oca Signorina risponde:

visto che i commenti te li possono fare ovunque, però, non esistono situazioni a rischio. E se passa questo modo di pensare, andiamo in giro in burka. E ancora avrebbero da ridire.

Una cosa la dobbiamo riconoscere: come sa fare le capriole lei non le fa nessuno. Spostando per un momento l’ambito, mettiamola così: se io cammino a mezzogiorno sul marciapiede di una strada cittadina, posso essere sicura al 100% che non mi capiti di essere investita? No, naturalmente: le sicurezze assolute non esistono. Quindi tanto vale che vada a camminare all’una di notte sulla Nazionale in un tratto senza marciapiede e senza illuminazione. Se per andarci mi vesto di bianco e metto le scarpe coi catarifrangenti, posso essere sicura al 100% che nessuno mi investa? E ovviamente la risposta è ancora una volta no. E allora tanto vale che mi vesta di nero, perché io proprio oggi ho voglia di vestirmi di nero e non accetto che il primo imbecille di maschio patriarcale fallocratico mi venga a predicare come mi devo vestire. Ecco: da “non esistono posti sicuri al 100%” e “non esistono situazioni sicure al 100%” la deficiente di turno, con una strepitosa capriola avvitata carpiata scaravoltata, deduce che “non esistono situazioni a rischio”. E quindi entra pure a mezzanotte in un bar pieno di ubriachi in minigonna e tacchi a spillo, che tanto ti possono violentare anche in piazza a mezzogiorno coperta fino ai piedi; vai pure coperta di gioielli in una zona di drogati sempre sull’orlo di una crisi d’astinenza e in cerca di soldi, che tanto ti possono derubare anche in chiesa alla messa di mezzogiorno; ubriacati pure fino a non capire più niente che tanto ti possono aggredire anche da sobria. La cosa strabiliante è l’ottusità con cui continua a ripetere il suo mantra a qualunque argomento ragionevole che le viene opposto – come potrete constatare se avete il tempo e la voglia e soprattutto lo stomaco di immergervi in quella cloaca -, e se il mantra non basta a convincere l’interlocutore, tira fuori dalla roccia la sua infallibile Excalibur: “Tu non hai capito”, e se si ostina a non voler capire lo banna. Il tizio che tanto l’ha fatta indignare e inorridire mi sembra – a quanto riferisce lei – che lo dica chiaro e tondo: io sto lavorando sugli uomini, ma siccome non posso rivoltarli come un calzino da oggi a domani, sarebbe meglio che, nell’attesa della redenzione universale, non gli facilitaste il compito, e questo, nella sua povera testolina da ritardata indottrinata, diventa un tentativo di riversare la colpa sulle donne, di tenerle come schiave, docili e sottomesse. Poi, a suo sostegno, arriva quest’altro fenomeno:

io per andare a lavorare in televisione [si noti: in televisione, che non vi immaginiate che sia una poveraccia che lavora, che so, in un bar, o in qualche altro simile squallido posto] dovevo passare a piedi su un cavalcavia malfamato, così mi cambiavo in studio. Giaccone nero, jeans neri, l’unica cosa che a volte avevo erano i tacchi, eppure ogni santa domenica molestie verbali a manetta. Ho continuato a farlo perché, se fossero passati ai fatti, non volevo dare materiale all’avvocato difensore. Perché nei tribunali il “com’era vestita” è sempre un argomento in voga.

E, a parte le idee che espone, sembrerebbe che la ragazza, benché figlia e nipote di insigni linguisti, abbia qualche grosso problema con la lingua italiana, ossia sembrerebbe credere che “malfamato” e “pericoloso” siano sinonimi. Ma, contrariamente a quanto sembra credere la spocchiosa ignorantella, i due termini indicano due realtà che occasionalmente possono anche sovrapporsi, ma non necessariamente lo fanno. Mia madre per esempio da ragazza viveva in un borgo malfamato, col bordello e con l’osteria sempre piena di ubriachi, ma non l’ho mai sentita parlare di aggressioni, violenze o altro del genere. Però “malfamato” fa più figo, fa tanto bassifondi di Parigi, Victor Hugo, Émile Zola. A parte questo, chiunque di noi ha sentito parlare di cittadine malfamate, quartieri malfamati, strade malfamate, ma un cavalcavia? Un cavalcavia malfamato? E poi: un cavalcavia sopraelevato, sempre ben illuminato, visibile da molte posizioni? Quanti delitti, quante aggressioni avverranno mai sui cavalcavia? E si noti che anche lei, come l’oca Signorina sembra mettere sullo stesso piano i commenti da una parte e aggressioni, violenze e stupri dall’altra, e una cosa sembra chiara: queste due oche giulive non hanno la più pallida idea di che cosa sia un’aggressione, non hanno la più pallida idea di che cosa sia la violenza, non hanno la più pallida idea delle cose di cui pretendono di parlare. E questa, come per le signorine mitù, è una cosa vergognosa nei confronti di chi la violenza la subisce davvero. Noto infine che, a quanto pare, più sono cozze e più raccontano di fischi e commenti e richiami, come la povera figlia di Eros Ramazzotti, che poverina è davvero tanto bruttina – non brutta, intendiamoci, brutta è un’altra cosa, ci sono donne brutte capaci di farti perdere la testa in un quarto di secondo, ma la bruttina no, non è che dici oddio guarda quella quanto è brutta, no, la bruttina proprio non la vedi – che pubblica articoli per denunciare il catcalling e immediatamente da ogni parte d’Italia un grido di dolore unanime si è levato dal petto di ogni donna onesta dalla virtù insidiata da tale infame pratica (che io poi la volta che a quasi cinquant’anni ho incrociato uno sul marciapiede e poi quello si è girato e dopo avermi guardata ha commentato “bel culetto”, col cazzo che mi sono offesa. Per dire). Quelle due invece appartengono a un’altra categoria ancora, quella delle cozze, appunto. La seconda, quella del povero cavalcavia malfamato, ha purtroppo ereditato dal padre tutta la smisurata bruttezza e tutta la incommensurabile stronzitudine, e visto che gli assomiglia così tanto in tutto, immagino che sicuramente condividerà con lui  anche il tifo per hamas. L’oca Signorina invece, oltre che da intellettuale, e da italianista, e da storica, e da antifa con tanto di logo esibito, e da coltissima, e da intelligentissima, se la tira anche da gran gnocca, e riempie il profilo di foto così

(tutte le foto sono pubbliche nel suo profilo, visibili a tutti, quindi non credo di commettere una scorrettezza pubblicandole anch’io). Solo che poi capita che si distrae, e per mostrare quali attitudini intellettuali coltivi e in quali coltissime attività trascorra le sue giornate festive, ne pubblica una, di pochissimo posteriore alla precedente, non più di un anno o due (precisazione assolutamente necessaria) senza filtri e senza photoshop

Aggiungo ancora che ha la buona abitudine, ogni volta che qualcuno le muove una critica, di farci un post per dire peste e corna del malcapitato di turno, magari dopo averlo bannato e bloccato in modo che quello non può vedere le cose che lo riguardano. Questo per dire che quello che sto facendo adesso io sputtanandola nel mio blog, è esattamente quello che lei fa regolarmente una volta alla settimana come minimo. Se poi per caso dovesse venire a conoscenza di questo post e sentirsene offesa, le posso rispondere fin d’ora che non occorre che mi ringrazi: l’ho fatto volentieri.

Comunque, battute e pettegolezzi a parte, questa gente, oltre che cretina, è anche estremamente pericolosa, perché a leggere queste puttanate ci vanno anche ragazze giovani, spesso sprovvedute, che si bevono come coca cola tutte queste ridicole ideologie, che si convincono che “io ho il diritto di andare dove mi pare, vestita come mi pare, e comportarmi come mi pare” e lo fanno, perché tanto poi se succede qualcosa la colpa è dell’aggressore. Il che è vero: la colpa è indiscutibilmente dell’aggressore, ma la lezione su quanto poco la rivoluzione dei costumi assomigli a un pranzo di gala la paghi tu, sulla tua pelle. Per colpa – anche – di quattro galline dal cervello di gallina convinte di potersi mettere in cattedra e impartire lezioni di vita perché la loro ideologia è più bella di quella di chi preferisce evitare, quando può, di sfidare il pericolo. Sono, queste galline, come quei bambini che si mettono due dita sugli occhi e strillano felici “Non mi vedi più! Non mi vedi più!”, ignari che con gli occhi chiusi sono un bersaglio molto più facile. Solo che loro hanno due anni, non cinquanta.

barbara