MA

Ovvero le conseguenze logiche.

Io non sono razzista ma.
Io non sono antisemita ma.
Il terrorismo è brutto ma.
Israele ha il diritto di difendersi ma.

L’ultimo della serie è:

Il paragone fra Shoah e green pass è sbagliato ma.

Perché, come questi signori ci insegnano, certe strade non possono che essere in discesa, ed è per questo che si sentono in diritto di chiamare in gioco la Shoah: sono partiti dal boicottaggio dei negozi ebraici e sono arrivati alle camere a gas, quindi siccome adesso senza green pass non posso mangiare un gelato (falso, ma chi sta a guardare certi banali dettagli) la conseguenza logica è che fra un po’ Arriverete a chiuderci in qualche luogo isolato e a farci fare i TSO legandoci alle sedie dopo averci sedato, è la logica a dirlo. Quindi prendiamo atto che la strada è in discesa e aspettiamoci la prossima puntata:

Le camere a gas sono una brutta cosa, ma vuoi mettere non poter andare al cinema solo perché non ti sei voluto vaccinare?

Ma riuscite a guardarvi allo specchio senza sputarvi addosso?

barbara

LA SCOMPARSA DI JOSEF MENGELE

Classificato come romanzo, del romanzo ha in realtà solo la forma narrativa: l’intero contenuto è basato unicamente sui diari e sulle testimonianze di chi, in tutti gli anni della latitanza, ha avuto a che fare con lui. Dialoghi virgolettati e descrizioni sono praticamente assenti, e la ricchissima bibliografia che accompagna il racconto testimonia l’accuratezza e la vastità delle ricerche.
Del personaggio non ho molto da dire, se non che fra gli orrori perpetrati sulle vittime dei suoi “esperimenti” ve ne sono alcuni che non conoscevo, e la cui efferatezza non sarei mai arrivata a immaginare. Quello che invece voglio dire è che questo è un libro che dà soddisfazione, ma proprio tanta. Perché tutti noi, pensando a quest’uomo, ai suoi crimini, ai decenni di libertà, alla totale impunità di cui ha goduto, non riuscivamo a darci pace. Ebbene no, non è andata proprio così. Precisando, beninteso, che nessuna sofferenza patita da quest’uomo potrà mai lontanamente espiare i suoi crimini, che è blasfemo anche il solo pensarlo, emerge tuttavia che forse Eichmann, processato in una gabbia come un gorilla allo zoo, processato – horribile auditu! – proprio da quegli schifosi Untermenschen meritevoli solo di essere sterminati come scarafaggi, impiccato nel cortile di una prigione e cremato – cremato! Lui! Dagli ebrei! – e le ceneri disperse nel Mediterraneo affinché niente potesse restare di lui, ebbene Eichmann, a ben guardare, ha avuto forse una sorte meno malvagia di quella di Mengele. Che ha goduto, sì, delle immense ricchezze della famiglia che gli hanno permesso di comprarsi la libertà, con residenze ultraprotette e fedelissimi pronti a tutto, ma dopo alcuni anni relativamente sereni inizia, soprattutto con la spettacolare cattura di Eichmann da parte del Mossad, un inferno fatto di terrore di essere trovato, di messa in atto di misure di sicurezza che, letteralmente, gli impediscono di vivere, di isterismo e ipocondria che gli allontanano, a poco a poco, anche i più fedeli protettori. Non che con questo giustizia sia fatta, per carità, però a leggere il suo sprofondare sempre più, il ridursi a vivere – lui, l’elegantissimo e ricchissimo dandy che ha avuto tutto – in una baracca, sporco, trasandato, decrepito, evitato da tutti, ecco, una discreta soddisfazione la provi. Detto questo, aggiungo che è un libro davvero eccellente, che merita assolutamente di essere letto.
E voglio concludere riportando una pagina che non esito a definire spassosa. Ad un certo momento, dopo gli anni della grande rimozione, del grande silenzio, si comincia a parlare dei campi di concentramento e di sterminio, di ciò che vi è avvenuto, delle proporzioni di ciò che vi è stato perpetrato, e i nazisti argentini sono sconvolti da queste orribili calunnie che infangano l’onore della Germania. Con l’arrivo di Eichmann respirano di sollievo: lui era al centro di tutto, lui sa tutto, lui ha visto tutto coi suoi occhi: ora potranno, per suo tramite, gridare al mondo la verità!

A poco a poco il mondo scopre lo sterminio degli ebrei d’Europa. Escono sempre più libri, articoli, documentari dedicati ai campi di concentramento e di sterminio nazisti. Nel 1956, nonostante le pressioni del governo tedesco occidentale, che chiede e ottiene il suo ritiro dalla selezione ufficiale del festival di Cannes in nome della riconciliazione franco-tedesca, Notte e nebbia di Alain Resnais sconvolge le coscienze. Il Diario di Anne Frank conosce un crescente successo. Si parla di crimini contro l’umanità, di soluzione finale, di sei milioni di ebrei assassinati. La cerchia Dürer nega questa cifra. Si rallegra per l’impresa di sterminio ma stima in sole trecentosessantacinquemila le vittime ebree, smentisce gli omicidi di massa, i camion e le camere a gas; i sei milioni sono una mera falsificazione della Storia, l’ennesimo raggiro del sionismo mondiale per colpevolizzare e demoralizzare la Germania dopo averle dichiarato guerra e averle inflitto distruzioni spaventose, sette milioni di morti, le più belle città rase al suolo, la perdita dei territori ancestrali all’Est. Per Sassen e Fritsch solo un uomo è in grado di ristabilire la verità. Adolf Eichmann. Ha supervisionato tutte le tappe della guerra contro gli ebrei. Dopo la morte di Hitler, Himmler e Heydrich, è l’ultimo esperto, l’ultimo testimone chiave. Conosce gli attori, le cifre; potrà smentire. Gli ebrei hanno trascinato nel fango la Germania, Eichmann riscatterà il suo onore. Hanno montato la più grossa menzogna della storia per impadronirsi della Palestina, ma saranno pubblicamente sconfessati, le loro maschere e quelle dei loro manutengoli cadranno: la cerchia Dürer distruggerà le loro macchinazioni e lavorerà alla riabilitazione della Germania, alla redenzione del nazismo e del Führer. Fritsch e Sassen propongono a Eichmann di dire la sua sulla «pseudo soluzione finale». Dovrebbero ricavarne un libro, alla casa editrice Dürer piacerebbe pubblicarlo. L’idea affascina Eichmann. Dopo la chiusura della lavanderia ha lavorato in un’azienda di prodotti sanitari e, in mancanza di meglio, ormai alleva galline e conigli d’angora sotto il sole abbrutente della pampa. Le sue giornate sono lunghe e monotone, dà da mangiare agli animali, pulisce le gabbie, raccoglie gli escrementi e rimugina sul passato, sulla sua gloria di un tempo, sulla famiglia rimasta a Buenos Aires, sul quarto figlio appena nato, Ricardo Francisco, un miracolo, sua moglie ha quarantasei anni e lui quasi cinquanta. Si guadagna da vivere molto modestamente. Perciò, un libro sulla sua grande opera… basta anonimato e polli, una manna di quel genere non la si può rifiutare. Ridiventerà una star e si difenderà, lui che spulcia i giornali e la letteratura storica sa che il suo nome è regolarmente citato, a torto – si indigna –, i suoi figli devono conoscere la verità. I tedeschi lo plebisciteranno e la sua tribù potrà tornare in Europa a testa alta. Intanto lui, Fritsch e Sassen guadagneranno un mucchio di soldi con la vendita del libro.
Le sedute di registrazione cominciano nell’aprile del 1957, nel signorile domicilio del giornalista olandese. Tutte le domeniche uomini e donne si riuniscono intorno al grande organizzatore della Shoah, lusingato da tanta attenzione e felice di godersi i sigari e i whisky torbati del padrone di casa. Eichmann tormenta l’anello d’onore delle SS rispondendo alle domande di Sassen e di Fritsch, talvolta spalleggiati da ospiti con competenze più specialistiche, il grande Bubi von Alvensleben, ex aiutante capo di Himmler, e Dieter Menge, il fanatico asso dei cieli proprietario della grande estancia dove i nazisti amano riunirsi.
[…]
Frattanto Sassen e Fritsch proseguono i colloqui con Eichmann. Per sei mesi, «con l’infaticabile spirito dell’eterno tedesco», lui monologa, tutto fiero, a volte commosso fino alle lacrime dai propri racconti, dal proprio successo – «sei milioni di ebrei assassinati» –, dai rimpianti: non ha adempiuto la sua missione, «il completo annientamento del nemico». A Sassen, a Fritsch, alla cerchia Dürer, che non volevano credere alla «propaganda nemica», Eichmann conferma le proporzioni dello sterminio, descrive nei particolari le uccisioni di massa, le camere a gas, i forni crematori, i lavori forzati, le marce della morte, le carestie: la guerra totale ordinata dal Führer. Sassen e Fritsch, quegli agnellini, credevano che il nazismo fosse puro. Non si aspettavano le precisazioni di Eichmann. Oppure speravano che Hitler fosse stato tradito e Eichmann manipolato da potenze straniere. Sei milioni. Quella cifra li lascia scossi. Appena concluse le registrazioni prendono le distanze dal colpevole di crimini contro l’umanità. Hanno calato la loro ultima carta: hanno perso.

Olivier Guez, La scomparsa di Josef Mengele, Neri Pozza
la scomparsa di mengele
barbara

A PROPOSITO DI “AUSCHWITZLAND”

Il miglior commento in circolazione.

YOUng

Si chiamava “Aktion T4” il programma nazista “di sterilizzazione e sterminio” dei disabili, dei ritardati mentali, degli affetti da sindrome di down, dei portatori di malattie genetiche ereditarie (o considerate tali), degli schizofrenici, degli epilettici, degli affetti da sifilide o da demenza senile, di tutti coloro che rappresentavano, nel delirio nazista, una qualche forma di “devianza” dall’idea ariana di “razza superiore”.
Furono sterminate centinaia di migliaia di persone, inizialmente tramite iniezione letale, poi, per risparmiare tempo e denaro, direttamente nelle camere a gas.
I bambini “inadatti” (definizione nazista per indicare ogni genere di handicap fisico o ritardo mentale), invece, non arrivavano mai ad “Auschwitzland”, perché venivano soppressi prima.
In foto, una persona che ignora che, molto probabilmente, sotto il nazismo, non sarebbe arrivata viva all’età per indossare quella maglietta.

(Emiliano Rubbi)

– photo © Eugenio Grosso – Photographer
Auschwitzland
Qui, grazie a Fiorella per la segnalazione.

barbara

E A PROPOSITO DI MEMORIA

Ripesco dai miei ricchi archivi questi tre pezzi. I primi due riguardano due articoli di Giuliano Zincone da me commentati, pubblicati su Informazione Corretta quindici anni e mezzo fa.

CARO SHARON, NON SAREBBE ORA DI DIMENTICARE LA SHOAH?

di Giuliano Zincone

Questo articolo pubblicato a pag. 17 di Sette, che vorrebbe essere intelligentemente provocatorio, è in realtà un’ammucchiata, di dubbio gusto, di pregiudizi ed errori.

Zincone esordisce spiegando che ritiene giusto commemorare gli eventi gloriosi del passato, gli eroi, “tutte le persone che hanno meritato monumenti perché, soffrendo, lottando, lavorando o combattendo, ci hanno tramandato una qualche fulgida eredità”. Meno d’accordo è che si insista “ossessivamente a perpetuare la memoria degli eventi luttuosi” (per inciso: forse sarebbe giusto che a commemorare la Shoah fossero i nazisti, visto che per loro è stato un fulgido successo). E qui parte all’attacco:

Un popolo intero (uno Stato, un governo) s’è costruita un’identità fondata su lutti recenti o antichissimi.
E questo è esattamente ciò che si chiama “parlare senza sapere di che cosa si sta parlando”: con questa affermazione Zincone dimostra infatti di non avere la minima idea di che cosa sia l’ebraismo e di quali siano i suoi valori fondanti – né quelli dello stato di Israele.

Ariel Sharon, primo ministro d’Israele, giustifica la repressione dei palestinesi evocando la Shoah (Tragedia) che sterminò milioni d’ebrei.
Doppio errore: primo, Sharon non ha mai attuato nessuna repressione dei palestinesi bensì una pura e semplice difesa di Israele dal terrorismo, secondo, né Sharon né nessun altro israeliano si è mai sognato di giustificare alcunché evocando la Shoah. Ed è davvero singolare come continui ad avere credito questa strana leggenda (ricordiamo, tra l’altro, il discorso di Kofi Annan all’inaugurazione dell’orgia antisemita di Durban). Il sospetto è che si tratti di quella che in psicanalisi si chiama “proiezione”.

Davvero: una cultura straordinaria come quella ebraica, che ha dato al mondo non soltanto una religione, ma anche una quantità sterminata di artisti sublimi e allegri, non può ridursi alla celebrazione perpetua di cordogli e paure. Eppure è così. Davanti al Muro del Pianto si commemora ancora, con strazio, un evento di duemila anni fa: la distruzione del Tempio di Gerusalemme, eseguita dagli antichi romani.
E potremmo chiedere a Zincone che cosa ne pensi del fatto che i cristiani commemorino ancora un evento luttuoso di duemila anni fa eseguito dagli antichi romani. E potremmo chiedergli se ricorda che quella distruzione è stata la causa di una diaspora durata duemila anni, e di duemila anni di persecuzioni e massacri culminati in quella Shoah che egli suggerisce di dimenticare.

Rispettosamente, ritengo che una cura a base di oblio sarebbe utile e opportuna.
Rispettosamente, riteniamo che una cura a base di fosforo sarebbe utile e opportuna per Giuliano Zincone.

 

“LO DICONO ANCHE GLI EBREI …”
ultima spiaggia dei malpensanti

Tre settimane fa Giuliano Zincone aveva pubblicato su “Sette”, supplemento del Corriere della Sera, un articolo – puntualmente criticato in questo sito – in cui parlava di un governo, una nazione, un intero popolo fondati sul ricordo della Shoah, accusava Sharon di usare strumentalmente la Shoah come giustificazione per qualunque azione gli venga in mente di compiere e invitava caldamente a dimenticare la Shoah. Sommerso di critiche, ha deciso di tornare sull’argomento per meglio chiarire il suo pensiero e, come spesso accade in questi casi, il risultato è ciò che nel Veneto viene qualificato come “pezo el tacòn del buzo” (peggio il rammendo del buco). Già il titolo, non imputabile a Zincone, ma che riassume bene il suo pensiero, la dice lunga: “Cari lettori, ribadisco: ricordare la Shoah non fa sempre bene”. E siamo perfettamente d’accordo, c’è un sacco di gente a cui non fa per niente bene ricordarla: a tutti coloro – e non pochi sono ancora vivi – che l’hanno perpetrata o che vi hanno collaborato, a quelli che in qualche modo la giustificano, a quelli che “Sì, certo, Hitler ha esagerato, però”, a quelli che, per un motivo o per un altro, hanno la coscienza sporca e non amano doversi confrontare con essa. A tutte queste persone ricordare la Shoah fa molto male.

E veniamo al merito dell’articolo. “Ho elogiato l’oblio in una mia recente rubrica – scrive Zincone – e, tra gli altri esempi, ho menzionato anche il culto delle memorie negative che, secondo me, assedia il popolo ebraico e che disegna la sua identità agli occhi del mondo”. A parte il fatto che, per la verità, non ricordiamo “altri esempi” – ma non vogliamo sottilizzare – già in questa frase ci sarebbe del lavoro estremamente interessante per uno psicanalista: perché Giuliano Zincone vede il popolo ebraico assediato dal culto delle memorie negative, mentre il popolo ebraico non si vede affatto così? Perché questo fantomatico “culto” disegna l’identità dell’ebraismo agli occhi di Zincone, che egli poi scambia per gli occhi del mondo? E perché mai Zincone si immagina che il popolo ebraico non abbia altro da fare che preoccuparsi di come lo vede Giuliano Zincone? “Per questo ho ricevuto molte accuse d’ignoranza e (addirittura) d’antisemitismo – continua Zincone – Non ho alcuna intenzione di ritrattare ciò che ho scritto ma capisco che è impossibile persuadere chiunque ad abbandonare le proprie persuasioni profonde”. Verissimo: si è dimostrato che non c’è fatto o evidenza al mondo capace di convincere Zincone ad abbandonare le sue fantasiose convinzioni. “Esiste un’associazione – prosegue – che si chiama ‘I figli della Shoah’ e che, dunque, coltiva il ricordo della Tragedia”. Estremamente interessante – e ci si perdoni la deformazione professionale – quel “dunque”: tra il chiamarsi “Figli della Shoah” e il coltivare un colpevole ricordo della Tragedia, per Zincone, c’è uno strettissimo rapporto di causa-effetto. Vorremmo informare il signor Zincone, per quello che può valere, che anche chi scrive questa nota, pur non avendo alcun rapporto personale con la Shoah, fa parte della suddetta associazione, e ciononostante si veste di rosso e di giallo, racconta barzellette e ogni tanto, sì, ogni tanto le accade persino di ridere; non passa i suoi giorni e le sue notti a macerarsi nel dolore e nel pianto e non ha votato la propria vita al culto delle memorie negative – ma difficilmente Zincone sarà disposto a prendere in considerazione questi trascurabili dettagli. E incalza: “Secondo me un simile atteggiamento è triste e luttuoso: nella Bibbia, in fondo, si celebrano le vittorie di Davide, non i disastri”. E dunque il buon Zincone attribuisce, di sua iniziativa, un certo atteggiamento al “popolo ebraico” (circa tredici milioni di persone, evidentemente, secondo Zincone, prodotte con lo stampino), decide che quell’atteggiamento è “triste e luttuoso”, ossia fortemente negativo, e chiede agli ebrei di liberarsene (e, per inciso, per potersi permettere di citare la Bibbia, forse sarebbe il caso di leggerne qualcosina di più di una mezza pagina). “Ma questa è soltanto una mia opinione, che non è affatto offensiva”: se un’opinione sia o non sia offensiva, bisognerebbe chiederlo a chi ne è investito, non certo a chi l’ha formulata. Spiega poi che l’oblio è salutare e pacifico perché le memorie e i rancori suscitano micidiali desideri di rivincita, e a questo proposito vorremmo invitare il signor Zincone a denunciare pubblicamente tutte le organizzazioni ebraiche occupate a tempo pieno a vendicarsi ammazzando tedeschi, polacchi, ucraini ecc.: sono organizzazioni criminali, e noi abbiamo il diritto di conoscere i criminali che si aggirano fra di noi!
E arriviamo al gran finale. “Tra le molte obiezioni che ho ricevuto, due investono il cuore del problema. Nella prima si afferma che non è vero che gli ebrei tendano a definirsi come ‘Il popolo della Shoah’. Nella seconda si dichiara che la memoria delle persecuzioni è inevitabile e sacrosanta. Rispondo. 1) E’ possibile che molti israeliti siano stanchi di vedersi rappresentati esclusivamente come vittime. Ma non c’è dubbio che questa sia la loro immagine divulgata e accettata nella cultura dell’Occidente. [segue una rassegna di libri e film sulla Shoah] Tutto questo costruisce intorno agli ebrei un’identità che assomiglia a una gabbia. 2) Ricordare le sofferenze è giusto, ma non ci si può limitare a questo. Altrimenti si rischia di trascurare la cultura, l’arte, l’allegria che gli ebrei diffondono nel pianeta: promesse di vita, non eterni funerali”. E rispondiamo alle risposte di Zincone: il suo ragionamento è molto simile al gioco del gatto che rincorre la propria coda credendola un giocattolo e non rendendosi conto che il giocattolo non c’è. Certo che gli ebrei sono stufi di questa gabbia, solo che non se la sono costruita loro: gliel’hanno costruita tutti gli Zincone di cui il pianeta purtroppo trabocca: LORO perseverano a volere gli ebrei vittime (e trovano intollerabile che si difendano per smettere di esserlo); LORO hanno creato e divulgato questa immagine dell’ebreo; LORO si rifiutano di vedere la cultura, l’arte, l’allegria che gli ebrei non hanno mai smesso di diffondere nel pianeta; LORO sono incapaci di vedere altro che gli eterni funerali. E memori di una tecnica vecchia di millenni, ribaltano la responsabilità di tutto questo sugli ebrei.
E infine la ciliegina sulla torta: “Sulla Stampa è citato un libro (Ebrei senza saperlo) di Alberto Cavaglion, intellettuale israelita, che scrive: ‘L’eccesso di memoria è una fuga dal presente, dalla responsabilità dell’azione politica’. Cavaglion forse ha ragione. Ma aggiungerei che l’eccesso di memorie (negative) è anche una fuga dalla serena felicità. Shalom, fratelli”. E anche questa è una tecnica antica e ben consolidata: quella del “lo dicono anche gli ebrei”. Sappiamo che esistono poliziotti che spacciano droga, ma nessuno spacciatore si è mai giustificato dicendo: “Lo fanno anche i poliziotti”, né abbiamo mai sentito un pedofilo protestare : “Ma se lo fanno anche i preti!”: nessuna persona ragionevole sarebbe disposta a prendere in considerazione simili argomenti. Ma quando si tratta di ebrei, la tattica funziona sempre: basta che un ebreo, uno qualsiasi dei tredici milioni, dica qualcosa di negativo nei confronti di altri ebrei o di un qualche aspetto dell’ebraismo, e immediatamente scatta la molla, immediatamente gli antisemiti si buttano come squali sulla preda per poter gridare al mondo intero: “Ecco, vedete, lo dicono anche gli ebrei!” Loro, evidentemente, si sentono giustificati; noi non li giustificheremo mai.

Doverosa nota postuma. Quando ho scritto questo testo non conoscevo Alberto Cavaglion; adesso lo conosco, e ritengo estremamente improbabile che possa avere scritto qualcosa di ostile all’ebraismo. Ritengo molto più probabile che Zincone abbia estrapolato una frase alla quale, senza riportare il contesto specifico, si può far dire ciò che si vuole. E si noti, per inciso, quel “intellettuale israelita”: evidentemente il signor Zincone temeva che “ebreo” fosse una brutta parola.

E arrivo al terzo documento, di sedici anni fa. Dopo Giuliano Zincone che invitava gli ebrei a smettere di crogiolarsi nel proprio vittimismo, è stato il turno di Sergio Romano, che ha affermato che  gli ebrei sono praticamente impegnati a tempo pieno a scovare antisemiti – di cui sembrano avere un gran bisogno – difficilissimi da trovare, dal momento che di antisemiti non ce ne sono praticamente più. Avevano entrambi ragione, come dimostra questo messaggio ricevuto dall’EBREA Deborah Fait, dallo stesso autore dei messaggi riportati qui.

Salve ebrea di merda, sporca come tutti gli ebrei a causa di una patina di infamia non lavabile nemmeno con l’acido muriatico.
Ancora viva? Nessun eroico kamikaze si è fatto esplodere per ripulire quella terra che occuppate abusivamente senza averne diritto?
Ricordatevi bene, state tirando eccessivamente una corda,e quando questa si spezzerà partiranno le vendette che saranno assai più truculente della causa che le ha generate. E allora la vostra memoria storica di popolo aborto dell’umanità rimpiangerà i campi nazisti* che al confronto vi sembreranno dei villaggi vacanze.

ISRAELE NON DEVE ESISTERE PERCHE’ LA PRETESA DI RIVENDICARE LA TERRA CHE FU DEI VOSTRI AVI DUEMILA ANNI FA E’ RIDICOLA ED ARROGANTE.
UNITI QUINDI IN UN ANTISEMITISMO SENZA ESITAZIONI, UNITI NELLA LOTTA PER LO STERMINIO DEL POPOLO EBREO.
MORTE A TUTTI GLI EBREI E AGLI AMERICANI VOSTRI AMICI!!!!
LIBERIAMO L’EUROPA DAL COMPLOTTO PLUTO-GIUDAICO-AMERICANO, NESSUNA PIETA’ PER L’EBREO E PER L’AMERICANO TORTURATO, LE BESTIE DEVONO AVERE UN TRATTAMENTO DA BESTIE!!!!

SALUTI

IL CAPO ISPETTORE

* Impossibile non ricordare le parole di Mordekhay Horowitz: «Gli arabi amano i loro massacri caldi e ben conditi…e se un giorno riusciranno a “realizzarsi”, noi ebrei rimpiangeremo le buone camere a gas pulite e sterili dei tedeschi….».

Poi vorrei invitarvi a leggere questo bell’articolo dell’amica Gheula, e infine ricordare che “mai più” ha un solo significato possibile: questo.
mai più
barbara

QUEI POVERI DISPERATI MIGRANTI

In fuga da guerra, terrore, miseria. Laceri e macilenti. Senza neppure la forza di levare lo sguardo, senza il coraggio di emettere un fiato.

Identici agli ebrei braccati dai nazisti, strappati alle loro case,
deportazione 1
caricati su carri bestiame,
deportazione 2
inviati direttamente al gas quelli più deboli,
in camera a gas
sfruttati, quelli più forti, fino allo sfinimento
deportazione 3
o usati per gli esperimenti
deportazione 4
e poi anche loro infilati in una camera a gas e cremati, o scaraventati in una fossa comune.
deportazione 5
E i pochi sopravvissuti ridotti così.
deportazione 6
deportazione 7
Identici: stesso sterminio, stesso genocidio, stesso olocausto, stessa shoah, come ha insistentemente ripetuto il nostro sindaco in sinagoga in occasione della giornata della memoria: “È la stessa cosa, è la stessa cosa, è la stessa cosa”.

barbara

MESSAGGIO DEGLI EBREI ALLE NAZIONI

Caro mondo,
tu ci critichi perché difendiamo il nostro patrimonio e la nostra patria ancestrale. Noi, gli ebrei del mondo, ricordiamo alle nazioni del mondo:
Quando siamo stati condotti nelle camere a gas, non hanno avuto niente da dire.
Quando siamo stati convertiti a forza, non hanno avuto niente da dire.
Quando siamo stati buttati fuori da un paese solo per essere ebrei, non hanno avuto niente da dire.
Ma quando adesso ci difendiamo, tutto ad un tratto LORO hanno qualcosa da dire.
Come ci siamo vendicati dei tedeschi per la loro soluzione finale?
Come ci siamo vendicati degli spagnoli per la loro Inquisizione?
Come ci siamo vendicati dell’Islam per averci ridotti a dhimmi?
Come ci siamo vendicati delle bugie dei Protocolli di Sion?

Abbiamo studiato la nostra Torah
Abbiamo innovato in medicina
Abbiamo innovato nei sistemi di difesa
Abbiamo innovato nella tecnologia
Abbiamo innovato in agricoltura

Abbiamo fatto musica
Abbiamo scritto poesie
Abbiamo fatto fiorire il deserto
Abbiamo vinto premi Nobel
Abbiamo fondato l’industria cinematografica
Abbiamo finanziato la democrazia

Abbiamo adempiuto la parola del Signore, diventando una luce fra le nazioni della terra.
Si è dimostrato per gli ultimi 2000 anni che per noi quando si arriva al dunque, l’indifferenza regna sovrana.
Ora lasciateci in pace – e andare a risolvere i problemi di casa vostra mentre noi continuiamo la nostra quadrimillenaria missione di valorizzare il mondo che condividiamo.
Ora, sembra, l’Europa è sulla buona strada per ricevere la ricompensa dell’essersi liberata degli ebrei. Forza Germania! Prenditi in casa più “migranti”, che puoi!
(autore sconosciuto, traduzione mia)

E ricorda sempre che mai più vuol dire mai più.
mai più
E poi ricorda anche che
donne F16
(noi ci si vede fra qualche giorno)

barbara

E A PROPOSITO DEL POST PRECEDENTE

ho scoperto adesso che ricorre in questi giorni il tredicesimo anniversario della morte del generale Massu; ritengo che valga la pena, nel bene e nel male, di ricordare questo personaggio, e lo faccio con questo articolo di “Repubblica”.

Muore Massu, il generale della battaglia d’Algeri

PARIGI – «Sono un soldato e obbedisco», amava ripetere il generale Jacques Massu, scomparso sabato sera a 94 anni. Ma a volte il protagonista della battaglia d’Algeri non riusciva a tener la lingua a posto. Avrebbe potuto essere un eccellente uomo politico, di quelli che «fanno titolo», ma dopo essere andato in pensione rifiutò più volte un seggio di deputato: «L’ambiente politico non conviene al mio genere di bellezza». Non stimava gli uomini politici, tranne uno, ovviamente un militare: il generale de Gaulle. Massu fu uno dei primi a rispondere all’appello del 18 giugno 1940, quello con cui da Radio Londra de Gaulle chiamava la Francia a rifiutare l’armistizio e l’avvento del regime pétainista. Figlio e nipote di militari, sconosciuto capitano di stanza nel nord del Ciad, Massu divenne così l’uomo di fiducia del maresciallo Leclerc, luogotenente di de Gaulle. È l’inizio di una lunga epopea: nel marzo ’41, Leclerc e Massu strappano agli italiani l’oasi libica di Cufra e pronunciano il loro giuramento: «Deporremo le armi solo quando i nostri bei colori sventoleranno sulla cattedrale di Strasburgo». Promessa tenuta: la divisione Leclerc libera Parigi il 25 agosto 1944 e tre mesi dopo conquista il capoluogo alsaziano. Finito il conflitto mondiale, Massu viene spedito in Indocina, poi passa in Nordafrica, dove prende il comando dei paracadutisti. Di nuovo in Francia nei primi anni ’50, Massu diventa generale e nel 1957 il governo del socialista Guy Mollet lo manda ad Algeri. È il secondo, grande capitolo della sua vita militare, la tragica battaglia d’Algeri. Dotato di poteri di polizia, con oltre seimila uomini a disposizione, Massu deve mettere fine agli attentati e annientare l’organizzazione politica del Fronte di liberazione nazionale. In nove mesi, utilizzando tutti i mezzi, compresa la tortura, Massu ristabilisce l’ordine. Ma in quelle tragiche settimane scrive anche una delle pagine più nere della storia francese. Ha obbedito, certo, ma lui stesso nel 2000 si rammarica «di essere stato costretto a condurre quest’azione di polizia». Cattolico praticante, invita la Francia a pentirsi. A differenza di altri generali in pensione, che giustificano l’uso della tortura in Algeria, Massu la condanna: «La tortura non è indispensabile in tempo di guerra. Si potrebbe benissimo farne a meno. Quando ripenso all’Algeria, tutto questo mi affligge, perché faceva parte di una certa atmosfera». Un atteggiamento che dimostra la contraddittorietà dell’uomo Massu: «Era un personaggio complesso – ha commentato ieri Gillo Pontecorvo, l’autore de “La battaglia d’ Algeri”. Aveva dati positivi, ma rappresentava anche un pesante elemento regressivo e reazionario». Difensore dell’«Algérie francaise», richiamato a Parigi per aver criticato de Gaulle, Massu sarà rapidamente “riabilitato” e finirà la sua carriera come capo delle forze francesi di stanza in Germania. E lì sarà protagonista di un altro fatto storico: il 29 maggio 1968, mentre la Francia è in preda alla rivolta, de Gaulle scompare. Parte in elicottero e va a Baden Baden, per parlare con Massu. Un episodio mai veramente chiarito. L’indomani, de Gaulle rientra, tiene alla radio un discorso inflessibile e poco dopo un milione di persone sfilano sugli Champs-Elysées per sostenerlo: il Maggio finisce con il trionfo del generale. Cosa si dissero i due uomini? Massu ha detto un giorno che forse lo avrebbe rivelato ai suoi figli, perché lo rendessero pubblico dopo la sua morte. Se non lo ha fatto, avrà portato con sé nella tomba un misterioso tassello della storia francese recente.

GIAMPIERO MARTINOTTI 28 ottobre 2002

Massu, in Algeria, ha combattuto contro degli organizzatissimi terroristi. Che combattevano per una causa giusta, ossia la liberazione della propria patria dagli occupanti stranieri (e che nessuno si azzardi a fare immondi quanto insostenibili paragoni), ma lo facevano per mezzo di spietate stragi di civili. E di quanto ha fatto – altrettanto spietatamente – per fermarli, Massu si è pentito, ha giudicato la propria condotta e l’ha condannata. Dalle nostre parti giusto un paio d’anni fa è morto uno che le stragi le ha perpetrate su civili innocenti, e fino al suo ultimo giorno di vita si è dichiarato fiero delle proprie azioni. Checché ne dicano gli animalisti, che mettono sullo stesso piano tutti gli appartenenti al regno animale, la differenza fra uomini e vermi c’è, e si vede. Eccome se si vede.

barbara

«CHE COSA SIGNIFICA PER LEI AUSCHWITZ?» «NULLA»

Riordinando e selezionando le montagne di carte che non avevo avuto tempo di sistemare prima del trasloco, mi è saltato fuori un ritaglio del Corriere della Sera, che facendo un po’ di calcoli dovrebbe risalire a quindici anni fa, con questo articolo.

BERLINO – «Lei deve sapere che ad Auschwitz uccidere le persone era assolutamente normale: ci si abitua presto, due o tre giorni al massimo». Ma le pesa essere stato laggiù? «Naturalmente no, ho fatto un lavoro importante per la scienza, ho potuto condurre su esseri umani esperimenti che normalmente sono possibili soltanto sui conigli».
Memorie di un ex medico nazista. L’ultimo ancora in vita del gruppo di macellai che assistevano Josef Mengele nel lager di Birkenau in uno dei più raccapriccianti capitoli degli orrori hitleriani. Memorie col cuore in mano, senza un’ombra di pentimento, con una pignoleria didascalica e agghiacciante nella cura di mimare perfino l’agonia delle vittime. Memorie raccontate all’ombra di un crocefisso nel decoro borghese e sereno di una casetta nella Baviera profonda. Difficile trovare illustrazione migliore per la «banalità dei malvagi» di cui parlava Hannah Arendt.
Lui si chiama Hans Münch, ha 87 anni e vive, tranquillo pensionato, a Rosshaupten sul Forggensee. Benvoluto da vicini e conoscenti, per nulla turbati dal suo passato: «Era medico ad Auschwitz? Ma è successo così tanto tempo fa». Nell’ubriacatura mediatica della campagna elettorale tedesca, è passata quasi sotto silenzio in Germania l’incredibile intervista concessa da Munch a Bruno Schirra, giornalista indipendente che l’ha pubblicata il 26 settembre su Der Spiegel. Nessuna reazione, nessun seguito.
Le molte telefonate ricevute, come ci ha spiegato Schirra, venivano tutte dall’estero, dalla Francia, dagli Stati Uniti, dall’Italia, dall’Ungheria.
Lavorò per 19 mesi, Hans Münch, alle dipendenze di Mengele, capo-medico nel più celebre lager dell’Olocausto e «amico fra i più simpatici» nel giudizio del nostro, il quale afferma «di non poterne dire che bene». Ci andò volontario, si fece perfino raccomandare per entrare all’«Istituto d’igiene» di Auschwitz dove «le condizioni di lavoro erano ideali». Il suo compito? «Analizzare il materiale umano che ci mandava Mengele: teste, fegati, midollo spinale». Oppure, racconta Munch a Schirra mentre sbocconcella un panino al prosciutto, si applicava a «iniettare ai prigionieri streptococchi nelle braccia o pus fra le gengive». Normale amministrazione, si sentiva «come un re». Compassione per le persone? «Questa categoria non esisteva. Io mi sono messo a posto la coscienza evitando a un paio di prigionieri di finire nelle camere a gas».
Processato per crimini di guerra a Cracovia nel 1947, Hans Münch era in effetti stato assolto dopo che alcuni ex detenuti avevano testimoniato in suo favore. «Ha rischiato personalmente», recitò la motivazione della sentenza. Nel 1995, Eva Kor, una ex deportata, ha invitato Münch ad Auschwitz per i cinquant’anni della liberazione e, prendendogli la mano davanti ai forni, lo ha perdonato. Schirra però smaschera la leggenda della «buona coscienza del lager».
L’intervista tradisce un antisemitismo privo di ogni remora. Ancora oggi l’ex collaboratore di Mengele accusa gli ebrei di «avere largamente infettato molti settori, in particolare la medicina». E definisce «i peggiori di tutti» gli ebrei dell’Est, «plebaglia terribile, cosi servile da non potere essere neppure definiti esseri umani». «Mio Dio, come mi vergogno di essere tedesca», commenta la moglie di Münch durante l’intervista. «Io no», reagisce lui sorpreso.
Le descrizioni quasi tecniche dello sterminio lasciano senza fiato: «Li gettavano a pile nei forni, i corpi si carbonizzavano ma non volevano saperne di bruciare. Un problema tecnico che fu presto risolto». Meglio, «senza dubbio molto meglio quando venivano gasati». Per Münch, testuale, «un atto umano» che lui può in tutta tranquillità recitare davanti al giornalista, aprendo la bocca come facevano i dannati di Auschwitz «per cercare di respirare l’ultima oncia d’ossigeno», mimando l’agonia dei morenti con «le mani strette alla gola» e cercando di riprodurre il rumore che saliva dal petto «come il ronzio di un nido d’api». Poi, aperte le porte, «stavano tutti li, ogni tanto affastellati a piramide, i bambini sempre sotto calpestati, altre volte in piedi, come statue di basalto». «Cosa significa per lei Auschwitz?», chiede Schirra. «Nulla››, risponde Münch.
Paolo Valentino

Dopo averlo letto l’ho ritagliato e portato a scuola per farlo fotocopiare e leggerlo in classe. Ed è stato qui che la mia Ruth se n’è uscita con una delle sue osservazioni fulminanti: “Ma questi qui si dovrebbero decidere: o gli ebrei erano esseri umani, e allora devono una buona volta ammettere di essere degli assassini, oppure non sono assassini perché gli ebrei non erano esseri umani, e allora perché gli esperimenti condotti su di loro dovrebbero essere più validi di quelli condotti sui conigli?”

barbara

HANNA GREENFIELD: L’EROINA DELLA STORIA DELL’OLOCAUSTO

Prof. Livia Bitton-Jackson

Il 16 agosto 1943 le SS deportarono gli ebrei del ghetto di Bialystok al campo di sterminio di Treblinka. Per qualche ragione sconosciuta 1.196 bambini furono strappati dalle braccia dei loro genitori e trasferiti nel ghetto di Terezin in Cecoslovacchia. “La storia di questi bambini è stato oggetto della mia ricerca negli ultimi 50 anni,” ha scritto la ricercatrice ed editore, Hannah Greenfield.
Ma il campo delle ricerche di Hannah Greenfield include molti altri aspetti dell’Olocausto – uno straziante arazzo di eventi, persone e dolore. Hannah Greenfield, nata Hannah Lustigova, era parte integrante, l’anima stessa, del soggetto che lei indagava.
A differenza di altri sopravvissuti, molti dei quali rifiutano di affrontare il doloroso compito di ricordare, Hannah ha coraggiosamente sondato i più angoscianti recessi della memoria e li ha registrati per le generazioni future. Hannah credeva che si debbano studiare i mali del passato, in modo da non ripeterli. Era un’educatrice per eccellenza, impegnata in molti diversi aspetti dell’educazione, non solo scrivendo.
Hannah Greenfield era un membro del Consiglio del Museo del Ghetto di Terezin, dove un programma da lei istituito per insegnare ai bambini cechi la tolleranza ed educarli sull’Olocausto, è stato utilizzato con migliaia di giovani ogni anno. Come fondatrice del fondo Greenfield Hana, la sua attività si è estesa in numerosi campi di ricerca. Sue pubblicazioni sono apparse in molte lingue, tra cui: ebraico, polacco, francese, yiddish, inglese, tedesco e ceco. Il suo originale studio sul destino dei bambini di Bialystock fu pubblicato per la prima volta in Inghilterra alla conferenza dell’Università di Oxford del 1988 con i titoli: “Assassinio a Yom Kippur,” “Documenti” e “Scambio e rapina”, pubblicati poi nel suo libro di memorie, “Frammenti di memoria da Kolin a Gerusalemme” (Gefen Jerusalem 1998; edizione riveduta, 2006). Lei e suo marito Murray Greenfield sono stati co-fondatori della casa editrice Gefen.
Nata a Kolin, Cecoslovacchia, Hanko Lustigova era giovane quando per la prima volta si trovò esposta a terribili avvenimenti. Quando il governatore nazista dei territori occupati di Boemia e Moravia, Reinhard Heydrich, venne assassinato nel maggio 1942, ci fu un’ondata di brutali rappresaglie. Molti cechi furono rastrellati e fucilati e l’intero villaggio di Lidice fu cancellato dalla carta geografica.
Ma un crimine di guerra commesso sulla scia dell’assassinio è meno conosciuto. Il 10 giugno 1942, fu emanato l’ordine di uccidere 1.000 ebrei. Tuttavia, poiché il trasporto era stato organizzato in fretta, vennero messe sul treno 1050 persone. Dato che l’efficienza tedesca era quella che era, 50 persone furono fatte scendere dal treno, fra cui Hannah, la madre e la sorella. Loro e gli altri 47 furono fatti marciare per tre chilometri fino al ghetto di Terezin; degli occupanti del treno non si seppe più nulla.
A Terezin la madre di Hannah lavorò come infermiera in una casa per bambini. Amava i bambini e sentiva un profondo bisogno di prendersi cura di loro. E così accadde che alla vigilia di Yom Kippur, il 7 ottobre 1943, fu tra i 53 medici e infermieri che accompagnarono i 1.196 bambini dal ghetto di Bialystok e dal ghetto di Terezin alle camere a gas di Auschwitz.
Sei mesi più tardi, Hannah fu deportata ad Auschwitz, impreparata all’orrore che la accolse lì. Quando  chiese cosa ne fosse stato dei trasporti arrivati prima di lei, ricevette la risposta classica: “Su per il camino”. La risposta l’ha spinta a dedicare il resto della sua vita a cercare e registrare l’orrore della storia dell’Olocausto.
Hannah è scomparsa quest’anno il 27 gennaio a Tel Aviv dopo una lunga malattia.
Yehi zichrah baruch. (Qui, traduzione mia)
Greenfield
barbara