Direi che è la cosa giusta da cui partire, dato che la denominazione di questo viaggio era “Tour enogastronomico”, e gli israeliani, che ne sanno sempre una in più, ci hanno accolti con questo cartello, perché sapevano quale astronomica quantità di grassi avremmo ingurgitato.
Ma torniamo ai vini. Abbiamo visitato quattro cantine. La prima è stata la cantina Yatir, dove alle quattro del pomeriggio ci ha accolti una stressantissima ma non per questo meno entusiasta addetta all’accoglienza che, come ci ha spiegato, era al lavoro dalle quattro di mattina e alle cinque aveva un matrimonio. Ha trovato comunque il tempo e la forza e la pazienza di dare spiegazioni mentre io fotografavo i dintorni: il prato,
una parte dei vigneti (non si vedono, ma garantisco che ci sono) con sullo sfondo, in cima alla collina, i resti di un villaggio ebraico del periodo bizantino che ha resistito fino all’arrivo dei musulmani, nel VII secolo, che hanno cancellato anche quella minuscola minoranza, come troppe altre cose sul pianeta Terra,
e le vinacce.
In un momento successivo ho avuto modo di apprezzare anche la simpatica targhetta delle toilette, comprensiva di istruzioni per l’uso.
Dentro la cantina abbiamo goduto dei consueti assaggi, che invece dei soliti tre sono stati sei, uno più squisito dell’altro.
Alla cantina Mony, che prende il nome dal figlio del proprietario morto in giovane età, non ho fatto foto, però in compenso ho comprato una discreta quantità di squisitezze, antipasti e marmellate. I proprietari sono arabi cristiani, che hanno preso in affitto la terra da un vicino monastero, ma producono vino rigorosamente kasher. Qui gli assaggi erano tre, ma sono riuscita a farne quattro. Prima di bere, per non rischiare di introdurre alcol a stomaco vuoto, c’erano a disposizione una ciotola di olive (fra le migliori in assoluto tra quante mi è capitato di assaggiare), un cestino di pane, una ciotola di olio in cui intingere il pane, e una di za’atar in cui insaporirlo (di tutte queste cose ho fatto fuori una quantità stratosferica).
La terza cantina è stata quella del Golan. Attraversando questo splendido patio
si esce e si vedono i contenitori, che variano da 500 a 200.000 litri, per i vini che vanno messi in commercio giovani,
mentre quelli da invecchiare stanno nelle botti.
Ci ha fatto da guida una tizia piccolina con due mastodontiche latterie, molto spumeggiante e simpatica, che ci ha fatto poi da guida anche nei tre assaggi, da effettuare con tutti i cinque sensi.
L’ultima è stata quella di Galil Mountain, in cui eravamo già stati l’anno scorso. L’anno scorso non avevo capito niente delle spiegazioni perché stavo malissimo, e per la stessa ragione non avevo neppure potuto fare gli assaggi, ed ero rimasta tutto il tempo fuori in poltrona, in stato semicomatoso. Quest’anno in tutto il viaggio non ho avuto neppure un malore, ma quella mattina si era verificato un piccolo incidente, non grave ma che, non so perché, mi ha provocato uno stato di shock (cosa che non mi era accaduta neanche quando sono stata investita sulle strisce), con forte tremito e tutto l’armamentario degli stati di shock (ma lo racconterò in altra occasione, perché è stato divertente), e insomma non me la sentivo di fare tutto il giro della visita, e sono rimasta in poltrona all’ingresso. Mi ha fatto compagnia Luciana, anche lei veterana della cantina e poco desiderosa di fare di nuovo il giro, e lì mi è preso un incontenibile attacco di logorrea e le ho rovesciato addosso tutti i miei guai fisici dell’ultimo anno (poi, dopo qualche ora, sono tornata in me e sono andata a chiederle scusa). Gli assaggi comunque, visto che fisicamente stavo benissimo, me li sono fatti, eccome se me li sono fatti.
Abbiamo visitato anche un’azienda che produce olio di altissima qualità. L’olio (50€ al litro) non l’ho comprato, però mi sono comprata un bel po’ di cremine fantastiche che la guida, una biondina piccolina molto carina, ci ha fatto provare direttamente sulla pelle.
barbara