L’IMPORTANZA DI SCEGLIERSI IL NEMICO GIUSTO

I palestinesi di Gaza, per esempio, si sono scelti come nemico Israele. Basta che uno di loro si faccia un graffio, non importa se bambino o adulto, non importa se disarmato o armato fino ai denti, non importa se innocente o assassino, non importa se stava facendo una passeggiata o eseguendo un attentato, non importa, addirittura, se sia stato colpito da un israeliano o da un palestinese: basta che si faccia un graffio e il mondo intero si mobilita, marcia, protesta, brucia bandiere, boicotta, invoca (e ottiene) condanne Onu. Prendi invece i palestinesi di Yarmouk (esattamente come quelli di Giordania, del Kuwait, di Tell al Zatar): li ghettizzano, li discriminano, li opprimono, li affamano, li massacrano, e al mondo non gli scuce un baffo.
flottillas
La storia di quelli di Yarmouk ce la racconta Lorenzo Cremonesi, giornalista non di rado poco onesto quando c’è di mezzo Israele (ci ho anche personalmente litigato, e lì è stato proprio disonesto al massimo grado), ma che ogni tanto si ricorda di essere giornalista e racconta le cose come stanno, come per esempio nell’articolo scritto dopo la liberazione della Natività dai terroristi che vi avevano fatto irruzione: chi desiderasse rileggerlo, lo troverà all’interno di questa recensione). E lo fa anche in questo articolo che vi propongo.


L’assedio del campo profughi: ‘Uccisi dall’Isis mille palestinesi’

Spari sui civili nei campi profughi e inevitabilmente colpisci i bambini. Non fa eccezione il grande campo profughi palestinese di Yarmouk, a otto chilometri dal centro di Damasco, dove dal primo aprile si combatte una furibonda battaglia contro i jihadisti dello Stato Islamico (Isis) e del gruppo radicale Al-Nusra. Pare abbiano il controllo sull’80 per cento dell’area. Sui social network di Isis sono già stati postati video delle decapitazioni di almeno due combattenti palestinesi. Altri sette sarebbero stati fucilati. Alcune fonti riportano una settantina di morti nell’ultima settimana. Ieri in serata il deputato arabo israeliano Ahmed Tibi ha dichiarato al quotidiano Ha’aretz che «il movimento fascista di Isis» avrebbe ucciso «mille palestinesi» tra cui l’imam della moschea di Hamas e accusava i Paesi arabi di «vergognosa passività».
Testimoni parlano di 25 decapitati. Ma per ora sono cifre difficili da verificare. «Almeno 18.000 profughi intrappolati sotto i bombardamenti e tra questi 3.500 bambini. Le loro condizioni sono gravissime, oltre l’inumano. In ogni momento rischiano di essere feriti o uccisi. Nel campo mancano cibo, acqua, elettricità. Si vive con meno di 400 calorie al giorno. Scarseggiano le medicine, gli ultimi medici sono scappati qualche giorno fa», avvertono le agenzie dell’Onu e le ong. Le Nazioni Unite rilanciano gli appelli al cessate il fuoco e per la costituzione di corridoi umanitari. Ma per ora cadono nel vuoto, solo 2.000 persone sarebbero riuscite fortunosamente a scappare. C’è chi fa già il paragone con Srebrenica, la città martire della ex Jugoslavia dove nel luglio 1995 circa 8.000 musulmani bosniaci vennero massacrati dalle milizie serbe sotto lo sguardo passivo del contingente dell’Onu . Non è la prima volta che si combatte in questo che è il più grande campo profughi della diaspora palestinese. Prima dello scoppio delle rivolte contro il regime di Bashar Assad, nel 2011, era abitato da circa 150.000 persone. Al suo interno c’era una pletora di gruppi in lotta tra loro, sostanzialmente facenti capo al fronte laico dell’Olp, più legato al regime, e ai radicali islamici di Hamas, che rapidamente si schierarono con la miriade di formazioni siriane decise a defenestrare Assad.
Ma queste divisioni sono venute a scemare negli ultimi mesi, con l’avanzata di Isis verso la capitale. E oggi sono uniti per fermare il nemico comune. Pare che Isis in questa fase abbia stretto alleanza con Al Nusra, riuscendo così a penetrare Yarmouk. Il regime ha risposto con furia devastatrice. Ormai da due o tre giorni i suoi mortai sparano nel mezzo dei quartieri abitati e gli elicotteri sganciano i famigerati «barili bomba», ordigni primitivi e brutali che distruggono palazzi interi. L’organizzazione internazionale non governativa «Save the Children» riporta: «Le testimonianze degli operatori umanitari ancora sul posto raccontano di civili feriti per le strade da giorni, senza che nessuno possa andare a soccorrerli a causa dei combattimenti continui». L’inviato locale della Bbc in lingua araba spiega della presenza letale di cecchini che impediscono ogni movimento, specie verso le vie di fuga.
Yarmouk

Interessante e meritevole di essere letta anche questa analisi di Carlo Panella.

barbara

LA JIHAD È APOCALITTICA E VUOLE LA MORTE DI TUTTI GLI EBREI

In medio oriente nessuno vince mai una guerra, siano guerre simmetriche o asimmetriche, mai una vittoria definitiva, assoluta. Sia il Kippur, o lo Shatt el Arab, lo Yemen, la Siria o il Kurdistan. Mai una luce nel tunnel del conflitto tra Israele e Palestina che inizia nel lontano 1920, con la prima rivolta araba contro i sionisti e che vide ancora nel 2003, un inferocito Abu Mazen in una memorabile riunione alla Mukhata mandare a quel paese Yasser Arafat della “Intifada delle Stragi” urlandogli: “Sei l’unico al mondo che non sa vincere una guerra di liberazione!”. Destino gramo che oggi lo stesso Abu Mazen condivide con il defunto rais. La risposta corrente a questa anomalia è banalmente condivisa: tutto ruota attorno alla forzatura dell’impianto di Israele in Palestina, al ritorno dopo 2.000 anni di diaspora del popolo ebraico nel territorio tra il Giordano e il mare, al comprensibile rigetto arabo di un pezzo d’Europa, nel cuore dell’islam. Ma non è così. E’ una risposta falsa. Parziale. Meccanica. La riprova è semplice: non spiega perché ha sempre perso il “partito arabo-palestinese” disposto a chiudere una pace con Israele. Componente che ha avuto i suoi campioni negli anni 20 nel re dell’Iraq Feisal al Hashemi e nel re di Transgiordania Abdullah al Hashemi, compagni d’arme di Lawrence d’Arabia, e successivamente nella potente famiglia palestinese dei Nashashibi, nel premier iracheno Nouri al Said, in re Hussein di Giordania e infine, addirittura, in Anwar el Sadat e Abu Mazen. La ragione vera è spiazzante. Sideralmente estranea alla concezione della politica e quindi della guerra radicata in occidente. In estrema sintesi: l’Apocalisse. E non è uno scherzo. Apocalisse che rende urgente, subito, la costruzione dell’Uomo Nuovo coranico. Utopia condivisa. La peggiore, perché forgiata, per la prima volta nella modernità, nel corpo di una fede millenaria. Un Uomo Nuovo coranico che può maturare solo “con la morte dell’ultimo ebreo”. Di nuovo. E non è un caso. L’Apocalisse di cui la Nakba (la Catastrofe), ovvero la nascita di Israele nel 1948, è stato, appunto, il primo segno: l’Armaggedon, la battaglia nei pressi di Nazareth tra Gog e Magog (e, di nuovo, non è uno scherzo), come sostiene ad abundantiam Hamas e una diffusa pubblicistica araba. Di incombenza dell’Apocalisse, hic et nunc, è intriso il lessico e il messaggio di Osama bin Laden e dei vari salafiti e jihadisti, discepoli di Sayyid Qutb. A essa bisogna rifarsi per comprendere la follia sanguinaria di Abu Bakr al Baghdadi e dei miliziani del suo Califfato dello Stato islamico. Di pulsione verso l’Apocalisse è impregnato tutto lo schema politico di Ruhollah Khomeini che pone la “fede nell’Ultimo Giorno” nel preambolo della sua Costituzione islamica. Ma se questa è la partita, questo lo scenario, se il traguardo è l’Uomo Nuovo, sul corpo straziato e vinto della donna, dell’ebreo, dello Yazidi, e del cristiano, non ci sono mediazioni, compromessi o Westfalia possibili. Al massimo una Hudna, una tregua temporanea al più di 10 anni come prescrive il Canone coranico, prima che il jihad riprenda. Perché deve riprendere. Perché jihad non si traduce con guerra e neanche con guerra santa. Ma con l’ineffabile ciclopico sforzo salvifico per affrontare nella grazia di Allah il Giudizio dell’Ultimo Giorno. Spada alla mano. La stessa dirigenza sionista di Israele ha impiegato quasi 70 anni per prendere atto di avere completamente travisato le motivazioni, la Weltanschauung dell’avversario arabo e palestinese. Convinta, come era per la sua formazione culturale europea, che il problema fosse il possesso della terra. Che il conflitto fosse tra due nazionalismi legittimi. Quindi è stata disposta per ben sei volte, nel 1936, nel 1938, nel 1948, nel 1967, nel 1979 e nel 2001, ad accettare o offrire un compromesso prima agli arabi e poi ai palestinesi, nella formula nota come “Pace contro Territori”. Ma, prima il Gran Mufti alleato di Hitler, che eliminò prima dalla scena palestinese i Nashashibi e mandò a uccidere re Abdullah di Transgiordania, poi Nasser, infine Arafat e oggi Hamas, hanno sempre rifiutato ogni compromesso, mirando solo alla distruzione di Israele. E fu proprio la scelta della leadership israeliana – incredibile se vista con gli occhi di oggi – di appoggiare Hamas per contrastare l’Olp di Arafat, il punto di svolta di Israele, che tardivamente comprese che il conflitto in cui era impegnato da 70 anni era sì intriso di nazionalismo, ma che la sua ricomposizione era impossibile per ragioni teologiche. Millenaristiche. Ragioni che finiscono a impregnare di sé anche la tattica e la strategia militare palestinese e jihadista, a partire dalla recente pratica del martirio – incomprensibile senza un riferimento apocalittico cogente- per arrivare sino alle demenziali scelte militari di Hamas e di jihad islamica di questi giorni. “Appoggiare e favorire Hamas per anni è stato un errore fatale”. Questa frase di Yitzhak Rabin è dunque fondamentale oggi per capire il gorgo tra Israele e Hamas. Nei fatti, per quasi un decennio tre premier, Menachem Begin, Itszaac Shamir e lo stesso Rabin, impregnati di logica politica europea, equivocarono a tal punto la natura e strategia di Hamas che ne favorirono il radicamento in Cisgiordania e a Gaza. La ragione dell’appoggio del governo di Gerusalemme a Hamas era iscritta tutta nella logica degli accordi di Camp David del 1979 tra Menachem Begin e Anwar al Sadat. Ipocritamente dimenticati dalla pubblicistica occidentale, quegli accordi chiudevano l’unica guerra araba condotta da Sadat non con il fine di “distruggere l’entità sionista”, ma di recuperare al territorio nazionale egiziano il Sinai, di definire uno status quo definitivo tra Israele e Egitto e di risolvere la questione palestinese escludendo i “terroristi dell’Olp”. Valutazione comune di Gerusalemme e del Cairo. La road map definita da Sadat e Begin nel 1979 non riguardava soltanto i rapporti tra di due stati, ma anche una soluzione saggia ed equilibrata – tutta “europea” – della questione dei Territori occupati da Israele nel 1967. Il baricentro era semplice e accorto: favorire la formazione di una classe dirigente palestinese attraverso un sempre più marcato esercizio di effettive autonomie amministrative locali suffragate dal voto popolare. Un “nation building” graduale. Obiettivo focale – e di interesse comune per Begin e Sadat – era di contrapporre alla Olp terrorista e sradicata dal territorio, una nuova generazione di rappresentanti palestinesi educati alla amministrazione delle città e dei villaggi. Una soluzione tutta dentro la “logica di Westfalia”, di solido compromesso, fatta fallire nel giro di tre anni dall’irrompere delle forze jihadiste e apocalittiche. In questa prospettiva, i governi israeliani del Likud e del Labour concessero appoggio pieno alle “Village Leagues”, nuove strutture di base palestinesi imperniate sulle moschee in cui egemoni erano i Fratelli musulmani (che daranno vita ad Hamas solo nel 1988). Il principio trainante era favorire il dispiegarsi del loro welfare islamico per un percorso armonico di miglioramento delle condizioni di vita dei Territori, gestito da una prima generazione di leader palestinesi non terroristi eletti a capo di strutture amministrative autonome. Per comprendere questo fraintendimento pieno dei leader israeliani della natura di Hamas, che spiega perché ancora oggi, fuori Israele, molti non mettano bene a fuoco né Hamas, né la questione palestinese, si deve leggere la bellissima orazione funebre che nel 1956 Moshe Dayan dedicò al suo giovane amico Roy Rotenberg, rapito, torturato e ucciso da fedayn palestinesi di Gaza. Parole intrise di omerica pietas, di intima comprensione delle ragioni del nemico “rinchiuso dentro i cancelli di Gaza”, che ancora una volta, inseriscono il conflitto in una drammatica questione di terra, di una patria ambita da due popoli in lotta feroce tra di loro. Questa è stata la percezione che Israele ha avuto sino agli anni Duemila. E questo spiega il “fatale errore” di Begin, Shamir e Rabin nei confronti di Hamas. E che sia essenzialmente una tragica questione di terra è quanto credono tutt’oggi coloro (e penso agli amici Adriano Sofri e Gad Lerner) che non riescono a comprendere quello che Israele, seppure in ritardo, ha compreso. Ma non è così. Non è soltanto questo. E’ altro. E terribile. Un orrore che emerse alla luce proprio quando Anwar al Sadat nel 1981 pagò con la vita per avere abbandonato il rifiuto apocalittico di Israele e cercato il compromesso per l’Egitto e per il popolo palestinese. Quell’attentato, in cui fu coinvolto Ayman al Zawahiri, segnò l’inizio di al Qaida. Fu il punto di svolta mai ricordato in Europa e nemmeno dai tanti Amos Oz, Yehoshua e Grossman – le coscienze infelici di Israele – in cui fallì una straordinaria occasione di pace tra arabi ed ebrei che aveva però il torto di essere sottoscritta dalla destra nazionalista israeliana di Begin e dal “faraone” Sadat. Il dramma, di cui oggi paghiamo tutti le conseguenze, è che quell’attentato e l’abbandono della logica europea di compromesso definita da Begin e Sadat, fu favorito da complici insospettabili. In primis la Lega araba che espulse l’Egitto per tradimento, ispirata da un Arafat che applaudì la morte del traditore Sadat. Ma una colpa enorme ebbe anche l’Europa che nel settembre del 1980, presidente il premier italiano Francesco Cossiga, con la dichiarazione di Venezia ruppe con gli Stati Uniti e con Israele e riconobbe di fatto l’Olp e Arafat come legittimi rappresentanti della Palestina. Il Vecchio continente era affamato di petrolio (balzato a 100 dollari a causa della rivoluzione di Khomeini del 1979) e barattò il suo appoggio ad Arafat con la sua implicita opposizione al piano di pace Begin-Sadat. Scelta infausta che impose definitivamente la demenziale leadership di Arafat sulla questione palestinese con conseguenze devastanti: incluso il suo tentativo di impadronirsi del controllo del Libano nel 1982 e il suo appoggio all’annessione del Kuwait tentata da Saddam Hussein nel 1990. Il “rifiuto arabo di Israele” (con buona pace di Maxime Rodinson e Sergio Romano) è in realtà irrisolvibile, dal lato palestinese, essenzialmente a causa di un apriori teologico e apocalittico, incarnato già dal Gran Mufti (ma da lui non strutturato, a causa della sua crassa ignoranza) perfettamente enucleati dallo Statuto di Hamas: “Hamas crede che la terra di Palestina sia un sacro deposito (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio? Questa è la regola nella sharia, e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani la hanno consacrata per tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio”. “Dobbiamo instillare nelle menti di generazioni di musulmani l’idea che la causa palestinese è una causa religiosa, e deve essere affrontata su queste basi. La Palestina include santuari islamici come la moschea di al Aqsa, che è collegata alla Santa Moschea della Mecca da un legame che rimarrà inseparabile fino a quando i Cieli e la Terra non passeranno, dal viaggio del Messaggero di Allah fino alla stessa moschea di al Aqsa, e alla sua ascensione da essa”. In questa concezione apocalittica, netta e inequivocabile è la posizione e il destino degli ebrei – non degli israeliani! degli ebrei – secondo un hadith riportato da al Bukhari el Muslim, i più autorevoli raccoglitori dei “Detti” del Profeta non contenuti nel Corano, baricentro dello Statuto di Hamas: “Il Profeta dichiarò: ‘L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo; ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei’”. Scritto dallo sheik Yassin nel 1988 questo Statuto è tanto noto, quanto considerato poco più che folclore macabro da dotti analisti e dalle cancellerie europee. Un pleonasma retorico. Sorte non dissimile da quella che ebbe il “Mein Kampf” nel 1938 di Monaco. Questo dettato apocalittico è invece la radice vera e insuperabile del rifiuto arabo di Israele, che si manifestò in nuce – ma nemmeno i sionisti la compresero – sin dal 1920, con la leadership del Gran Mufti di Gerusalemme. In piena, totale sintonia apocalittica col suo prezioso e ammirato alleato, quell’Adolf Hitler che lo ospitò a Berlino, non per comune convenienza strategica anti inglese, come sostiene Sergio Romano, ma per “la profonda condivisione delle nostre prospettive e strategie, inclusa la soluzione del problema ebraico”, come declamò lo stesso Gran Mufti. Solo se si guarda a questo nodo non negoziabile e teologico, si comprende la follia di una posizione araba che ha sempre rifiutato ogni spartizione binazionale del mandato britannico sulla Palestina, dalla Commissione Peel, al Libro Bianco, alla risoluzione Onu del 1947. Solo se si legge lo Statuto di Hamas si comprende l’apparente mistero della sciagurata leadership di Yasser Arafat che univa nella sua stessa persona – con genialità maligna – l’ispirazione nazionalista e la disponibilità al compromesso sulla terra che oggi è incarnata da Abu Mazen, con il rifiuto massimalistico e teologico di Hamas. Sino alla follia del rifiuto degli accordi di Taba del gennaio 2001 con i quali Ehud Barak premier gli riconsegnava il 95 per cento dei Territori. Infine, ma non per ultimo, solo se si intende la pregnanza di un mandato apocalittico pregnante – qui e ora – si comprende la perversa santificazione araba del martirio, così come la ferocia dell’unico movimento di liberazione al mondo che nasconde le proprie batterie di missili dentro o accanto a moschee, scuole e ospedali. Una verità così complessa, contorta e inquietante che lo stesso Israele ha faticato a metterla a fuoco. Non prima della Intifada delle Stragi iniziata nel 2001. Ma sbaglia chi pensa che tutto questo riguardi solo lo specifico della Palestina, di Gaza e di Hamas. In realtà, i 4-5 milioni di musulmani uccisi da musulmani negli ultimi 50 anni – un numero di vittime comparabile con la Prima guerra mondiale – sono vittime di un meccanismo similare. Lo sono le migliaia di sciiti massacrati dai sunniti in Iraq, Pakistan e Afghanistan, e viceversa. Così come lo sono le 18 mila vittime degli ultimi tre anni di attentati di kamikaze. Tutti musulmani uccisi da musulmani. Con le due fasi della decolonizzazione (la prima, dai turchi, iniziata nel 1918, la seconda dagli europei, consolidata negli anni 50), si è dimostrato che ogni conflitto in terra d’islam non può essere ricomposto in un alveo politico, secondo lo schema di Westfalia. A partire dai massacri di centinaia di migliaia di morti innescati dalla divisione dell’India e del Pakistan del 1948, per arrivare – per via breve – sino ai Boko Haram e alle stragi di cristiani e Yazidi dei miliziani del Califfato di Mosul di oggi, si è verificato che le tante, ovvie, comuni, tensioni razziali, etniche, tribali o religiose che coinvolgono i popoli musulmani, vengono prima enfatizzate, poi cronicizzate dalla concezione islamista della storia così ben sintetizzata nello Statuto di Hamas. Ogni guerra per la “terra” diventa guerra per la “vera fede” e per il suo trionfo nell’Ultimo Giorno. Nel nome di una Apocalisse non più solo immanente, ma imminente. Domani…
Carlo Panella (Il Foglio, 12 agosto 2014)

Non siamo in molti ad avere capito che il problema non è territoriale e che la cessione di territori, lungi dal risolverlo, non fa altro che aggravarlo. E in meno ancora ad avere il coraggio di dirlo. Ben venga dunque questa splendida analisi di Carlo Panella, anche se dubito che chi ha deciso di tenere ben serrati gli occhi possa essere indotto ad aprirli: la speranza, dopotutto, è l’ultima a morire (l’ultima. Ma poi alla fine tocca veder morire anche lei, mi sa).

barbara

75 ANNI FA L’INFAME TRADIMENTO DEL LIBRO BIANCO

“Sappiamo che stiamo per essere ingannati”, confidò a un amico un avvilito Stephen Wise, il principale leader ebreo americano dell’epoca, prima di imbarcarsi per l’Inghilterra all’inizio del 1939. I britannici avevano invitato Wise e altri leader sionisti dagli Stati Uniti e dalla Palestina per prendere parte a una “conferenza di pace” con i leader arabi.
Wise si aspettava il peggio, e aveva ragione. La conferenza nel maestoso St. James Palace di Londra avrebbe posto le premesse per l’imposizione – 75 anni fa in questo mese – del famigerato Libro Bianco, bloccando l’immigrazione ebraica in Palestina alla vigilia della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto.
Nella terza settimana della conferenza, a causa di un errore di un segretario inglese, il Presidente dell’Organizzazione sionista mondiale Chaim Weizmann ricevette dal segretario delle colonie Malcolm MacDonald una lettera che era destinata a essere vista solo dai delegati arabi. Nella lettera, MacDonald prometteva severi limiti all’immigrazione e all’acquisto di terra da parte degli ebrei in Palestina e nessun focolare nazionale ebraico senza il consenso arabo.*
Confermati i suoi peggiori timori, il Dr. Wise e gli altri membri della delegazione americana tornarono negli Stati Uniti con un’ultima speranza nel cuore – che gli ebrei più vicini alla Casa Bianca riuscissero a convincere il Presidente Franklin D. Roosevelt a impedire ai britannici di imporre la nuova politica. Infatti Wise non molto tempo prima aveva fatto notare al Presidente che con la guerra incombente in Europa, “gli inglesi hanno bisogno di voi – il nostro governo – in ogni senso.” E FDR aveva risposto, “Ci puoi scommettere.” I britannici non potevano permettersi di ignorare eventuali pressioni della Casa Bianca sulla Palestina.
Il giudice della Corte suprema Felix Frankfurter, amico del Presidente e sostenitore del sionismo, aveva già telefonato al Presidente sollecitando l’intervento degli Stati Uniti contro il piano britannico. FDR al telefono aveva mostrato comprensione e gli aveva detto di redigere una nota da parte sua (Roosevelt) diretta al primo ministro inglese Chamberlain, chiedendogli di non chiudere le porte della Palestina. Frankfurter la scrisse. FDR non la inviò mai.
Poi fu la volta del giudice della Corte suprema Louis Brandeis, che FDR chiamava affettuosamente “il vecchio Isaia.” Ma il Presidente non mostrò molto affetto quando si trattò del sionismo. In una nota manoscritta, Brandeis supplicò Roosevelt di “indurre i britannici a rinviare l’annuncio minacciato”. Passarono due settimane: nessuna risposta. Un esasperato Brandeis chiese se il Presidente potesse almeno trovare “qualche minuto” per vedere un rappresentante sionista. L’aiutante della Casa Bianca Stephen Early affrontò la richiesta con il Presidente, quindi annotò la brusca risposta di FDR: “Non posso vederlo – il Segr. di Stato è il massimo possibile.”
Il 17 maggio 1939, fu pubblicato il Libro Bianco. Il leader sionista palestinese David Ben-Gurion disse che era “il più grande tradimento perpetrato dal governo di un popolo civilizzato nella nostra generazione.” Il dott. Weizmann lo chiamò “una condanna a morte per il popolo ebraico”. Egli fu particolarmente costernato per il fatto che “il Libro Bianco non ha provocato alcuna reazione da parte delle autorità americane”.
Gli storici tradizionali hanno sempre considerato la politica inglese del Libro Bianco come gravemente sfavorevole agli ebrei. Il professor Henry L. Feingold arrivò a sostenere che una politica che limita l’immigrazione e l’acquisto di terra solo per gli ebrei deve essere stata “almeno in parte motivata da antisemitismo.”
Negli ultimi anni, tuttavia, diversi autori pro-Roosevelt hanno presentato la politica palestinese degli alleati in una luce nuova. Robert Rosen, autore di “Salvare gli ebrei”, sostiene che il Libro Bianco ha “salvato [gli  ebrei del Medio Oriente] dall’Olocausto,” perché altrimenti il mondo arabo si sarebbe presumibilmente  rivoltato contro gli alleati, e i nazisti avrebbero conquistato la regione e ucciso tutti gli ebrei che vi abitavano. Richard Breitman e Alan Lichtman, autori di “FDR e gli ebrei,” sostengono che durante la conferenza di St. James, Roosevelt avrebbe fatto segretamente pressione sui britannici “a favore degli ebrei.” È tuttavia emerso che la loro fonte per tale affermazione era un delegato arabo paranoico che partecipava alla conferenza.
Ma questi resoconti revisionisti sono totalmente sbagliati, e aveva ragione il Prof. Feingold. Ora sappiamo da documenti britannici declassificati che alcuni funzionari governativi britannici nutrivano effettivamente sentimenti anti-semiti. E sappiamo anche che il presidente Roosevelt non ha mai preso seriamente in considerazione l’idea di fare pressioni sui britannici in merito alla Palestina.
FDR ha seguito la corrente. Ha incaricato il Dipartimento di Stato di informare Londra che gli Stati Uniti speravano che “nessun cambiamento drastico” fosse messo in atto. In un appunto privato al Segretario di Stato Cordell Hull il giorno in cui fu pubblicato il Libro Bianco, FDR chiamò la nuova politica “qualcosa che non possiamo approvare.”
Ma diede istruzione all’ambasciatore statunitense a Londra, Joseph Kennedy, di limitare la sua critica del Libro Bianco a conversazioni non ufficiali. Non ci fu nessuna protesta ufficiale degli Stati Uniti, nessuna dichiarazione della Casa Bianca di critica al Libro Bianco, non un singolo passo concreto che potesse influenzare Londra sulla questione. I britannici presero atto della risposta minimalista di Roosevelt e procedettero senza timore di eventuali conseguenze reali.
La storia della risposta di FDR alla persecuzione degli ebrei europei è disseminata di promesse vuote e opportunità perse. Settantacinque anni fa questo mese, una delle più importanti di quelle opportunità è stata sprecata – e di conseguenza, una delle ultime vie di fuga dai nazisti dell’ebraismo europeo fu quasi completamente bloccata.

Il dottor Rafael Medoff è direttore del David S. Wyman Institute for Holocaust Studies, www.WymanInstitute.org (qui, traduzione mia)

* La proposta di stato di Palestina contenuta nel Libro Bianco, con totale cancellazione di ogni precedente ipotesi di stato ebraico (il 78% della Palestina mandataria era già stato scorporato dalla Gran Bretagna per regalarlo all’Emiro Abdallah, col nome di Emirato di Transgiordania), è questa
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La proposta fu rifiutata dal Gran Muftì e dal «Consiglio Palestinese» – Carlo Panella, Il libro nero dei regimi islamici, pag. 109 (questo per chi continua a blaterare che l’unica cosa che vogliono quei poveri poveri poveri palestinesi è di avere finalmente il loro stato)

barbara

MANDARE UN BIMBO A UCCIDERE. LA NUOVA STRATEGIA DELL’ORRORE

GIUSEPPE-LA-ROSA1
Il Giornale
, 09 giugno 2013

I talebani si vantano pubblicamente che a scagliare l’ordigno sia stato un ragazzino. Ma non è vero che non amino i loro fogli: pensano che sia giusto farne degli assassini

Ci tocca anche di venire a sapere dai comunicati, nel dolore, che i talebani sono molto fieri che sia stato un bambino di undici anni a scagliare l’ordigno che ha ucciso il nostro Giuseppe La Rosa. L’orrore per l’uso dei bambini si unisce alla consapevolezza che La Rosa era là proprio per aiutare quel ragazzino. E noi che facciamo dei bambini una religione rabbrividiamo di fronte a tanto orrore. E’ una degna aspirazione, per gli islamisti estremi, siano sunniti o sciiti, spingere un bambino a uccidere e a morire in nome di Allah. Attenzione: non c’è solo crudeltà qui: c’è del metodo, e quanto. Il bambino, cioè, è amato, e veramente, dalla mamma e dalla società (generalizzo, si capisce) anche (non diciamo soltanto) nella misura in cui infligge danno all’avversario, perché l’avversario è il male stesso. No, il bambino che va a sparare o salta per aria con una cintura esplosiva non è disarmato, o negletto. L’amore che gli dedica la società islamista estrema ci deve insegnare quanto può essere profondo il pericolo, e la diversità. E ha anche un doppio uso.
Domani si dirà anche, infatti, come si è detto, che l’invasione occidentale è causa della morte dei bambini afghani, o palestinesi, e anche la morte dei 1500 bambini siriani uccisi nella guerra sarà attribuita da chi li ha mandati a farsi fare a pezzi o li ha fatti a pezzi, a qualche complotto del nemico, sionista, americano, quel che sia. Giuseppe La Rosa era un amico dei bambini afghani, chiunque non sia un idiota lo capirebbe, ma non vogliamo spingerci a spiegare ai talebani, per carità, la differenza fra un oppressore e una mano tesa per un futuro migliore, lontano dall’idea di impossessarsi delle cose loro. Ma abbandoniamo la razionalità talebana. I bambini usati in guerra oggi sono circa 300mila, molti in zone islamiche, ma certo non solo. Abbiamo negli occhi un madornale precedente: durante la guerra fra l’Iran e l’Iraq,dal 1980 all’88, ai bambini iraniani veniva consegnata una chiave di plastica che, gli si spiegava, avrebbe aperto loro le porte del paradiso, e così muniti venivano spediti a marciare sui campi minati per ripulire la strada ai militari. Che seguivano, pestando le loro spoglie. I bambini iraniani durante la guerra morirono in 90mila, e prima si assiepavano a mucchi per ottenere l’onore di far parte della schiera dei martiri di Allah.
I talebani, nonostante le promesse del Mullah Omar di non toccare i piccoli, hanno campi di addestramento per ragazzini sul confine pakistano afghano. Si ricorda un’epidemia di attacchi di bambini suicidi nel 2011, nel maggio un bambino ha ucciso  4 persone, due nello stesso periodo hanno fatto fuori 15 poveretti. Naturalmente i piccoli assassini muoiono quasi sempre. Lo stesso è accaduto durante l’Intifada, 29 attacchi suicidi sono stati compiuti da ragazzini sotto i 18 anni fra il 2001 e il 2003, oltre a 22 attacchi armati e con ordigni esplosivi. In Iraq nel 2009 furono distrutte autentiche cellule di bambini reclutati e istruiti da Al Qaeda. La storia continua. A mettere le bombe, a imparare a far fuoco contro il nemico si impara prestissimo: il training è multiplo, religioso, politico, familiare, ha l’appoggio delle autorità, della tv, delle moschee (naturalmente non di tutti).
Una madre palestinese di “shahid” saltati per aria ha detto in modo alquanto tipico: “Il mi o messaggio a tutte le mamme è di sacrificare la propria creatura per la Palestina. Se fossi giovane e potessi partorire di nuovo, rifarei gli stessi figli (martiri)”. Un bambino è un bambino: quelli che non vogliono combattere e morire, vengono obbligati con la paura e con la forza a seguire gli ordini, o prendono pochi soldi, si fanno fotografare in pose eroiche e come i grandi, si fanno promettere un paio di vergini in paradiso. Poi vanno a ucciderci e a morire. Ho visto frugare a un checkpoint un bambino imbottito di esplosivo, ho visto una bambina di cinque anni con una borsa piena di TNT.
Mi hanno fatto tenerezza, ero contenta che fossero salvi. La nostra aspirazione alla ragione al bene, sono lontanissimi dall’essere condivisi.
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Propongo integralmente questo commento di Fiamma Nirenstein, che condivido in toto, tranne che per la seconda parte del titolo: no, questa strategia, purtroppo, questo mostruoso uso dei bambini, questo criminale indottrinamento fin dalla primissima infanzia per far loro amare la morte più della vita, sono ben lontani dall’essere nuovi. Per fare solo qualche esempio, ho ripescato nei miei archivi questo pezzo di 11 anni fa:

Pagati  5 Shekel  (1.24 euro=2400 lire ) dalla banda criminale di Arafat, per ogni bomba  da lanciare sugli israeliani, oltre  40 bambini palestinesi sono rimasti mutilati, con arti amputati, invalidi per tutta la vita per l’esplosione “intempestiva” delle bombe.
La denuncia è del giornale  giordano Arai del 20/06/2002.

Va poi ricordato il fondamentale saggio I piccoli martiri assassini di Allah, di Carlo Panella (qui la mia intervista), di ineccepibile documentazione. E concludo con due video, che meglio di ogni altra cosa aiutano a comprendere il clima che gira da quelle parti: due ragazzine il cui più grande desiderio è di porre fine alla propria vita con il “martirio”

e due bambini dell’asilo, orfani di una terrorista, oscenamente sfruttati da un essere che se non è il male assoluto, sicuramente ci va molto ma molto vicino.

barbara